Transizione ecologica: a queste condizioni la deindustrializzazione è una certezza! Che fare?

di Marco de' Francesco ♦︎ Il Green Deal europeo sta affossando la manifattura: il calo della produzione di aprile - -1,9% su marzo e -7,2% su base annua - è la nuova normalità. Inoltre per raw material e componenti dipendiamo dai Paesi Brics. L’automotive ha già subito disinvestimenti. Il Piano Mattei e i dazi ai prodotti orientali. Il nostro governo? Si sta comportando con maggiore lungimiranza di quello tedesco… Ne parliamo con il professor Flavio Tonelli

Ma non è che l’industria italiana sta già pagando la cambiale della Transizione Ecologica? Non è che il calo della produzione di aprile, pari all’1,9% rispetto a marzo e al 7,2% su base annua, è semplicemente l’inizio della “nuova normalità” destinata ad imporsi con il mondo green e in qualche modo solo “anticipata” dalla guerra Russo-Ucraina? Perché in effetti la rinuncia al metano russo, a basso costo, è stata una scelta forzata, ma solo nella tempistica: era, in fondo, già prevista dal Green Deal europeo, che si fonda su tecnologie ad alto costo di implementazione (solare ed eolico) e che producono imponenti oneri di sistema che rimbalzano su cittadini e imprese. Soprattutto, la spesa energetica, che peraltro ha dato il via a imponenti fenomeni inflattivi, e che ha affossato il modello industriale tedesco, centro di gravità della manifattura europea e largamente fondato sull’importazione di gas naturale a basso costo.

La Transizione Green, nella sua declinazione continentale, è poi basata su un certo numero di materie prime in mano a Paesi extra-Eu, in genere quel blocco Brics che cresce costantemente, e quindi competitor diretti dell’industria europea. L’Unione, cioè, si è posta in una condizione di sudditanza oggettiva: le sorti della sua manifattura da ora e innanzi dipendono dalla benevolenza di Paesi remoti e talora ostili. La combinazione di questi fattori ha già prodotto un risultato: i maggiori costi si traducono in una minore competitività delle imprese, in una minore attrattività dei territori; e incidono negativamente sulle esportazioni, e al contempo mortificano il mercato interno. L’Europa sta diventando un luogo sempre meno “appetibile”.







«La de-industrializzazione, a queste condizioni, è una certezza» – afferma Flavio Tonelli, docente al Dipartimento di ingegneria meccanica, energetica, gestionale e dei trasporti dell’Università di Genova; è il professore ordinario di Ingegneria per la Sostenibilità Industriale e Impianti Meccanici che nel 2007 (cioè 15 anni fa) presentava a studenti e aziende le prime, preoccupanti, risultanze di studi raccolti sul tema nell’ambito di una collaborazione di ricerca con l’Università di Cranfield prima e con quella di Cambridge qualche anno dopo – guidato dal collega Prof. Steve Evans (che a Cambridge, oggi, dirige il Centro per la Sostenibilità Industriale). Lo abbiamo intervistato.

D: Cosa sta accadendo effettivamente all’Europa e alla Germania?

Flavio Tonelli, Università di Genova

R: La Transizione Green sta travolgendo la Germania e non solo. Inizialmente, com’è noto, la Germania aveva puntato molto, per sostenere la propria manifattura, sul rifornimento di gas a quantità pressoché illimitata e a basso costo da parte della Russia. Si pensi al Nordstream 1, poi boicottato nel corso della guerra, e al Nordstream 2, la cui implementazione è stata bloccata sempre a causa di scelte politiche legate al conflitto. Gli ultimi tre reattori nucleari sono stati spenti ad aprile, nonostante una lettera aperta di scienziati (tra cui due premi Nobel) e ricercatori; producevano 32,7 miliardi di kilowattora. Alla Germania, al momento, non è rimasto che affidarsi alla lignite e al carbone, che hanno costi più elevati, e che producono imponenti emissioni. Insomma, ora la Transizione Green – in vista della quale la Germania ha obiettivi molto ambiziosi: la quota di energie rinnovabili all’80% entro il 2030 – sta diventando sempre più costosa e quasi irrealizzabile anche per loro. L’Europa in generale paga il gas quattro volte più che gli Usa, che d’altra parte, al di là di alcune dichiarazioni, non si pongono obiettivi di decarbonizzazione irrealizzabili. L’implementazione di impianti green – solare ma soprattutto eolico onshore e offshore – ha costi importanti, e oneri di sistema rilevanti. La lignite e il carbone – che vanno in direzione esattamente opposta alla decarbonizzazione, complicano ulteriormente il raggiungimento degli obiettivi tedeschi di breve e medio termine – si pagano più del metano e ‘inquinano’ anche di più anche se mantengono ancora competitiva la Polonia. E, in generale, il peso della spesa energetica incide molto sulla manifattura tedesca, che con queste scelte si sta rendendo poco competitiva su scala globale. Anche se a piano vi sono importanti investimenti in eolico off-shore ed elettrodotti con l’Olanda, la Danimarca e il Belgio, nel breve e medio periodo siamo di fronte ad una quanto mai curiosa strategia industriale, considerato che la Germania è un Paese che esporta moltissimo. Tutto ciò, poi, si riflette su alcuni pezzi di Europa, visto che molti Paesi, tra cui l’Italia, sono terzisti e fornitori di primo livello della Germania. Quindi una Germania debole industrialmente è un problema industriale anche per noi. E poi c’è un altro problema.

D: E quale sarebbe l’altro problema?

R: La Transizione Green si basa su materie prime e componenti che si possono reperire in larga prevalenza in 28 Paesi al di fuori dell’Eu, e molte di queste sono sostanzialmente in mano ai Brics estesi. È una costosa dipendenza, quella in cui si è cacciata l’Europa a guida industriale tedesca. Ci si rende conto tardivamente che ci si è posti in una condizione geopolitica pericolosa. L’Europa ha dato prova di grande superficialità, dal momento che ha promosso e abbracciato la Transizione Green senza uno studio serio relativo alla provenienza delle materie prime e su come debbano essere raffinate (o meglio gli studi sono disponibili ma per larga parte ignorati). Ora, in un contesto di deglobalizzazione, riemergono nei Paesi che posseggono le ‘raw material’ degli atteggiamenti ispirati al sovranismo nazionale. C’è, almeno, un Paese africano che ha fatto sapere al mondo che le materie prime se le raffina a casa sua, e che le aziende occidentali sono dunque escluse dai processi trasformativi. Si erode così la catena del valore o meglio qualcuno ha capito che conviene tenersi questo valore, considerazione che, invero, non richiedeva una sofisticazione cognitiva così elevata. Inoltre, questi Paesi hanno preso coscienza che senza il loro contributo l’industria europea rischia di fermarsi. Per cui, anche l’idea di andare in questi Paesi e dir loro: “Dateci le materie prime, e datecele come vogliamo noi” è saltata. Anche perché parlando di manifattura, per quanto di nicchia, non contiamo così tanto: Germania, Italia e Francia insieme fanno meno del 9% del manufacturing mondiale. La Cina, da sola, il 29%. Prima di perseverare in atteggiamenti di supremazia morale dovremmo renderci conto di questo fattore.

La Transizione Green si basa su materie prime e componenti che si possono reperire in larga prevalenza in 28 Paesi al di fuori dell’Eu, e molte di queste sono sostanzialmente in mano ai Brics estesi

D: Quali sono gli effetti della combinazione tra sovra-costi energetici e carenza di materie prime?

R: Credo che sia sbagliato parlare di “rischio” di deindustrializzazione, in Europa: è una certezza a queste condizioni e i recenti disinvestimenti nel settore automotive ne sono una prova lampante. Il problema non è l’Ira degli Usa ma la scarsa attenzione e l’elevata superficialità con cui abbiamo approcciato alla trasformazione repentina e non pianificata di alcuni settori industriali. Con target di decarbonizzazione non sostenibili, si sta distruggendo il tessuto economico produttivo; i costi di questa transizione si traducono in una minore competitività delle imprese, in una minore attrattività dei territori; e incidono negativamente sulle esportazioni, e al contempo mortificano il mercato interno. L’Europa sta diventando un luogo sempre meno “appetibile” sotto molti punti di vista. Ci sono aziende del settore automotive che hanno deciso di produrre a Kenitra, in Marocco, piuttosto che in Italia. Ciò che infastidisce, è che dietro questa erronea politica di medio e lungo termine non c’è (e non c’è stato) un ragionamento serio sui costi e sui benefici, almeno un dibattito informato ed equo, ma una spinta ideologica su temi per i quali ci si accapiglia solo nel Vecchio Continente – che d’altra parte conta solo per il 9 per cento sulle emissioni globali. L’Europa, peraltro, ha fissato la stessa percentuale di contenimento delle emissioni per tutti i Paesi: ma, ad esempio, perché l’Italia, dove sono diminuite da 20 anni a questa parte, deve rispettare gli stessi parametri della Germania, dove invece sono in crescita? Il nostro sistema produttivo ha gradualmente assorbito ma non può continuare a subire cambi di politica caratterizzati da dinamiche sempre più spesso opinabili. Per noi così è più difficile e non è normale. Peraltro, il nostro governo si sta comportando con maggiore lungimiranza di quello tedesco.

D: In che senso il nostro governo si sta comportando con maggiore lungimiranza?

R: L’obiettivo del governo è quello di salvaguardare l’industria e l’interesse nazionale. Si pensi al Piano Mattei, e cioè ad un modello di cooperazione non predatorio con i Paesi del Nord Africa, per fare dell’Italia un hub energetico, basato sul metano liquido. Il gas serve sia ad usi termici, che industriali, che per la produzione di energia. Con certi Paesi, peraltro, noi abbiamo rapporti storici abbastanza consolidati. Si pensi all’idea di realizzare un Fondo Sovrano Nazionale per acquistare le materie prime con garanzia statale, e con definizione delle priorità e delle quantità, forse ancora non sufficiente in termini quantitativi ma che va in una direzione corretta. Opzioni strategiche che molto probabilmente saranno osteggiate da paesi europei che in quest’ultimo decennio hanno perso posizionamento competitivo e che vedono in una manifattura italiana, con energia a basso costo, un serio concorrente interno. Peccato, perché il Piano Mattei e il Fondo Sovrano appaiono misure di buon senso.

Secondo il report di Bain, la transizione energetica avrà sempre più peso nei portafogli, in fase di preparazione del deal ormai è prassi fare la due diligence Esg. L’interesse si concentra su fornitori di tecnologia per l’energia green, prodotti, e servizi legati alle nuove fonti di energia

D: Cosa le fa pensare che l’Europa e i Tedeschi non siano d’accordo con il Piano Mattei?

R: Beh, si pensi all’opposizione dei Paesi dell’area tedesca ai biocarburanti. Sì agli e-fuel tedeschi e no ai biocombustibili, che già produciamo e che potremmo produrre e che invece importiamo dalla Cina. Si condannano questi biocarburanti adducendo scuse e motivazioni relative alla prima generazione quando stiamo per arrivare alla terza. Scelte quanto mai curiose considerando che in questa condizione ci siamo trovati perché è probabilmente fallita la strategia tedesca di vendere le auto con motore a combustione in molte parti dell’Asia importando batterie cinesi con le quali avrebbe dominato il mercato dei veicoli green in Europa. E’ di questi giorni l’ulteriore sospensione del blocco al 2035 proprio per ‘problemi irrisolti’ sul fronte delle batterie. Eppure, oltre un anno fa avvertivo, come molti altri industriali e accademici, circa questa evidenza. Siccome i Cinesi non sono degli ingenui, le cose sono andate diversamente da quanto probabilmente immaginato da alcuni paesi europei: i costruttori di quel Paese si sono organizzati per aggredire il segmento alto del mercato, quello della Germania, e peraltro sono già alla seconda generazione di auto green. Insomma, anche sotto questo profilo, la strategia tedesca è stata un flop. E anche qui, pagano il conto i componentisti di mezza Europa e in particolare l’Italia.

D: Si potrebbero applicare dei dazi ai prodotti orientali, per favorire le imprese europee.

R: In questo momento la domanda interna è molto bassa, non è chiaro se convenga. E poi il quadro delle relazioni commerciali tra l’Europa e molti Paesi dell’Est è molto confuso, fosco e indecifrabile. È probabile che le attuali asimmetrie si sarebbero verificate ugualmente, anche se non fosse scoppiata la guerra. La pandemia, infatti, aveva già tracciato nuovi confini, con l’interruzione delle filiere internazionali. Ci si aspettava che alla ripresa esse avrebbero quanto meno cambiato forma. Poi cerchiamo di immaginarci la reazione della Cina di fronte a importanti dazi sui loro prodotti quando dipendiamo per il nostro piano di transizione energetica essenzialmente da loro? E’ il caso di diventare realisti perché un ciclo ‘idealizzato’ e mai reale è finito. Prima ne prenderemo coscienza e prima saremo in grado di mitigare gli effetti oramai inevitabili di molte scelte sbagliate. E questo dovrebbe esser il focus della maggioranza delle discussioni su questa ‘transizione’.

A maggio l’inflazione riprende a scendere, tornando, dopo la risalita registrata ad aprile, al livello di marzo 2023 (+7,6%). Il rallentamento appare ancora fortemente influenzato dalla dinamica dei prezzi dei Beni energetici, in particolare della componente non regolamentata, in calo su base congiunturale. Nel settore alimentare, i prezzi dei prodotti lavorati mostrano un’attenuazione della lorocrescita su base annua, che contribuisce alla decelerazione dell’inflazione di fondo (scesa a +6,0%). Prosegue, infine, la fase di rallentamento della crescita tendenziale dei prezzi del “carrello della spesa”, che a maggio è pari a +11,2%.

D: L’arretramento della produzione industriale italiana ha però delle concause, a parte la strategia discutibile dell’EU.

R: Certo, si pensi all’inflazione, che però è collegata solo in parte al costo dell’energia. Si assiste ad una riduzione dei consumi interni, e della domanda interna, e ciò porta a un contenimento della produzione dei beni di consumo. In diversi stati è calata anche la spesa alimentare, che in genere è l’ultima cosa cui si rinuncia. L’inflazione poi viene in genere calcolata su beni e servizi primari a fine della catena logistica, produttiva e distributiva; ma è sui beni secondari, quelli intermedi, che si è assistito a rialzi anche maggiori, inflazione che non viene quasi mai considerata. Peraltro, secondo l’Istat il Pil dell’Italia è comunque cresciuto; ma quanto ha influito l’inflazione sui rialzi? E quanta parte di questo Pil dipende proprio dall’aumento di beni e servizi? C’è sempre un delta da calcolare, per capire quali sono i valori reali. Comunque sia, la situazione è tutt’altro che semplice. Gli indizi e gli elementi per prevedere una situazione di questo tipo c’erano e molteplici sono state le voci di allarme dal mondo accademico e industriale. Non è senno del poi. Questo è senno (del prima) o meglio buon senso unito a rudimenti di politica ed economia industriale. Effettuare una transizione richiede l’identificazione dei fattori trasformativi, dei facilitatori, degli inibitori e una analisi delle barriere. A tutt’oggi leggo di un proliferare di osservatori e gruppi di lavoro su tematiche che in parte non sono così ignote e in parte sarebbero state da affrontare almeno 2 decenni fa. Abbiamo capito e ci stiamo muovendo nella giusta direzione? Ancora non so. Vorrei riscontrare un senso pratico maggiore e vorrei poter leggere di analisi strategiche di opportunità e rischi unitamente a studi di fattibilità. Ancora tutto questo non lo vedo neppure in preparazione. Eppure, adesso le evidenze di molte scelte sbagliate, ma soprattutto in termini di metodo per effettuarle, ci sono tutte. Continuo a esser ottimista per il cambio di passo e orientamento del governo. Vedremo se questo porterà ad un percorso strutturato di pianificazione, prevenzione, mitigazione e sviluppo per evitare l’incombente deindustrializzazione.














Articolo precedenteConsilium rileva la maggioranza di Cela
Articolo successivoAws Italia: migrare il 10% dei sistemi IT della PA sul cloud farà risparmiare ai contribuenti 87 mln euro all’anno






LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui