Questione di Purpose: il 70% dei manager lavora per chi ce l’ha

di Laura Magna ♦︎ Le imprese possono trarre vantaggio competitivo nella definizione del motivo per cui esistono. Così possono attuare una strategia coerente: trasformazione dello scopo in azione e profitto. I casi Patagonia, Unilever, Pepsi Co, John Deere, Black&Decker. La survey by Bcg BrightHouse e Polimi. Ne parliamo con Francesco Guidara

L’industria italiana può ripartire dal purpose. Quella che sembra solo una nuova parola del marketing è invece un grande potenziale strategico per le nostre manifatture, fortemente tecnologiche e innovative e proiettate nel lunghissimo periodo, in quanto per lo più family business. Queste organizzazioni e la nostra economia possono trovare il loro vantaggio competitivo nella definizione del motivo per cui esistono (il purpose appunto) e nell’attuazione di una strategia coerente, capace di trasformare quello scopo in azione e infine in profitto. E così tirarsi fuori dal guado, mentre la produzione cala aumentano di nuovo i ritardi gravi nella catena dei pagamenti e il futuro prospetta una nuova possibile recessione.

È quanto emerge dallo studio “Purpose & Business Transformation: the state of the art in Italy”, condotto da Bcg BrightHouse e Polimi Graduate School of Management e presentato in occasione dell’apertura dei Purpose Days, iniziativa dedicata al ruolo di questo strumento manageriale. La ricerca, la prima condotta in Italia specificamente sul tema del Purpose, ha interessato un campione di oltre 500 manager italiani, ed è stata curata da Bva Doxa insieme al team di ricerca della Business School del Politecnico di Milano. Secondo Josip Kotlar, curatore della ricerca e Associate Dean for Strategic Projects di Polimi Graduate School of Management, «ciò che la nostra ricerca afferma con decisione è che il Purpose oggi in Italia non è più percepito solo come un grande contributore sociale ma come un potente strumento strategico. Una indicazione che pensiamo avrà delle conseguenze importanti per le imprese italiane e per la loro leadership».







Il 70% dei manager ha dichiarato di lavorare per una azienda che oggi possiede un Purpose (percentuale che sale al 76% nel mondo dei servizi). Tuttavia, evidenzia la ricerca, per 4 manager su 10 il Purpose – per quanto diffuso – appare non pienamente sfruttato come risorsa. I principali ostacoli sono rappresentati dalla carenza di una comunicazione efficace intorno al Purpose (sia interna che esterna) e dal mancato allineamento dei collaboratori con la leadership. Insomma, la consapevolezza c’è, ma la strada per raccoglierne i frutti è ancora lunga. «La ricerca conferma un trend evidente in molti paesi – osserva Francesco Guidara, Managing Director di Bcg BrightHouse – quando applicato, comunicato e condiviso internamente, il Purpose è oggi la principale leva di trasformazione delle imprese, e la sola capace di lavorare a tutti i livelli, a cominciare dalla dimensione culturale».

 

Patagonia, Unilever, Pepsi Co, John Deere e Black&Decker

Francesco Guidara, Managing Director di Bcg BrightHouse

Una trasformazione che genera valore. Nel mondo il potere trasformativo del purpose è stato più volte misurato: un’analisi di BrandZ, per esempio, mostra che tra il 2006 e il 2018 I marchi dotati di purpose hanno visto il loro valore crescere del 175%, più del doppio di quelli il cui posizionamento in termini di scopo fosse debole. Parliamo di marchi di aziende internazionali, per lo più colossi, che stanno già sfruttando il potenziale del purpose: l’abbigliamento outdoor Patagonia, la multinazionale dei prodotti di consumo Unilever, il produttore della famosa bibita PepsiCo, ma anche i trattori di John Deer e i trapani di Black&Decker. Hanno tutte in comune il fatto di aver definito il proprio scopo e di realizzarlo nella pratica operativa, accanto al business o come parte integrante di esso.

Patagonia, ad esempio, che dichiara di voler salvare il pianeta attraverso il suo business, ha intentato una causa contro l’amministrazione Trump per aver tentato di rimuovere lo status di monumento nazionale al territorio di Bears Eras, che la stessa azienda avevo contribuito a far dichiarare tale in collaborazione con le popolazioni native e sotto il presidente Obama. E lavora costantemente per la salvaguardia di ambienti naturali in pericolo. Nel 2006, il ceo di PepsiCo Indra Nooyi ha introdotto il concetto Performance with Purpose (PwP) per garantire che il contributo di PepsiCo alla società fosse radicato nel suo modello di business principale. Unilever ha progressivamente sviluppato diversi marchi chiave come Dove, Persil e Ben & Jerry’s in maniera sostenibile, con standard inattaccabili per quanto riguarda l’ambiente, la catena di fornitura e le condizioni di lavoro in ossequio al suo purpose che è quello di generare “sustainable growth by investing in a healthier future for people and our planet”.

 

Una leva per innovare, trattenere i talenti, aumentare la redditività, conquistare clienti e fidelizzare i fornitori

«Il concetto di Purpose compare fin dal 2018 nella lettera agli azionisti di BlackRock che il ceo Larry Fink scrive ogni anno – continua Guidara – La stessa Bcg ha un purpose sintetizzato in uno slogan che è: “unlocking the potential of those who advance the world”. Avere uno slogan da solo tuttavia non significa nulla, ma utilizzarlo quotidianamente con tutte le parti interessate cambia il mondo. È un concetto semplice, ma attuarlo in modo efficace e costante è complesso. Noi ascoltiamo tutte le persone all’interno dell’azienda per comprendere in che modo essa esiste e quali sono i suoi fondamenti. Nel mondo del lavoro, la motivazione finanziaria è debole, le persone hanno bisogno di identificarsi con le aziende per fidelizzarsi ed essere produttive». Tutti esempi che mostrano che il purpose è uno strumento che scava nell’identità dell’organizzazione. «Quando le grandi aziende sono in grado di capire qual è il loro scopo, sono in grado di aumentare la redditività, attrarre talenti e conquistare fette di mercato – aggiunge il manager di Bcg – e se fino a un certo punto il purpose era visto come fattore di impatto sociale, dopo la pandemia è emerso con chiarezza che abbiamo l’opportunità di trasformarlo in un mezzo per il rilancio industriale e per ottenere un vantaggio competitivo per le aziende».

Se è vero che in precedenti studi di BCG BrightHouse la percezione che la propria azienda abbia un Purpose chiaro tra i dipendenti senza responsabilità si attesta su percentuali minori, quando coinvolgiamo C-Level e Manager, 7 su 10 tracciano un nesso chiaro tra la propria organizzazione e il motivo per cui essa stessa esiste. Fonte Bcg BrightHouse e Polimi Graduate School of Management

La “mission” è ciò che l’azienda fa, la vision è ciò che immagina di fare, mentre il “purpose” è il motivo per cui esiste. «Definirsi solo per ciò che si fa è limitante perché prodotti, mercati e produzioni cambiano nel tempo. Pensiamo ad esempio a Ibm, che in passato produceva pc ma ora non più eppure continua a esistere al di là del prodotto. Quando un purpose è ben definito, diventa cruciale e resiste ai cambiamenti nel tempo». Il purpose diventa dunque una leva di sviluppo e sarà compito del ceo comunicarlo e diffonderlo all’interno, mentre all’esterno può diventare il faro di campagne di marketing impattanti. «La maggior parte delle teorie aziendali si basa sul controllo, il che riflette una certa diffidenza – spiega Guidara – mi riferisco ancora al lavoro: siamo convinti che controllando le persone che lavorano per noi otterremo i maggiori risultati da queste. Ma se cambiamo prospettiva e cerchiamo di essere scelti in base al motivo per cui esistiamo, possiamo ottenere risultati diversi e senza dubbio più soddisfacenti. Il purpose serve a trattenere i talenti e arricchisce il lato finanziario dell’azienda. Esso fornisce uno stimolo alle persone per guardare a lungo termine, rinunciando a qualcosa nel breve periodo. E lo stesso discorso si applica quando parliamo di clienti e fornitori».

Il quadro dipinto dai dati della ricerca è piuttosto chiaro: il Purpose sta emergendo come un elemento cruciale per le aziende. I dati racccolti confermano che i leader aziendali riconoscono i benefici chiari e misurabili del Purpose. Questo non è più un concetto astratto, ma un faro che guida l’organizzazione. Il Purpose non è solo una questione etica ma diventa catalizzatore di successo aziendale. Fonte Bcg BrightHouse e Polimi Graduate School of Management

Perché il purpose può diventare driver di crescita per l’industria italiana

Già nel 2019 la Commissaria europea alla concorrenza Margrethe Vestagr: «Qualcuno dice che i cinesi hanno tutti i dati e gli americani hanno tutti i soldi. Ma quando vedo cosa abbiamo in serbo per noi in Europa, vedo che abbiamo uno scopo». Avere uno scopo, una ragione che va oltre il profitto, il “purpose”, è proprio ciò che può differenziare la lenta economia d’Europa rispetto ai Paesi che corrono. Puntare a migliorare il clima globale, combattere il riscaldamento globale, risolvere il problema della povertà educativa, aumentare l’inclusione femminile nel mondo del lavoro, contribuire allo sviluppo di microimprese e attività di vicinato: recuperare in una parola il capitalismo umanista di olivettiana memoria e traslarlo dentro nuove idee di impresa. L’Italia ha un enorme potenziale inespresso in questo ambito.

Nel complesso i C-Level e manager intervistati considerano il Purpose un potente strumento strategico che non solo va definito, come già le organizzazioni stanno facendo, ma che va necessariamente attivato e diffuso attraverso tutta l’organizzazione per poterne beneficiare a pieno. Fonte Bcg BrightHouse e Polimi Graduate School of Management

Se siamo nell’arena dove Davide combatte con Golia, e senza dubbio siamo in quel contesto, Davide non può emergere se di basa su un confronto muscolare sulla finanza. Deve puntare su altro. L’industria italiana, la seconda al mondo in Europa, caratterizzata da micro dimensione, governance familiare e eccellenza in nicchie tecnologiche uniche al mondo, è il luogo ideale dove far attecchire la filosofia del purpose. Perché naturalmente le aziende hanno costruito il loro business intorno a quella che è la propria ragion d’essere.

I risultati dell’analisi dimostrano che le aziende più capaci di trasformarsi sono quelle che integrano il Purpose con maggiore efficacia nella propria strategia, nella cultura aziendale, nella gestione delle evoluzioni organizzative, sia
generazionali che di leadership e nel rapporto tra l’azienda ed il mondo esterno. Fonte Bcg BrightHouse e Polimi Graduate School of Management

I risultati della prima ricerca italiana sul Purpose

Veniamo dunque ai dati sull’Italia, raccolti per la prima volta nell’analisi di Polimi e Bcg BrightHouse con Doxa. La ricerca è stata condotta su 500 imprese di medie e grandi dimensioni (con oltre 20 dipendenti) e con una composizione demografica varia, con manager per il 67% di genere maschile, 79% di middle manager e il restante 21% in posizioni di C-level. Il 70% dei manager intervistati ha affermato che la propria azienda ha un “purpose” chiaro e stimolante, e il 69% ritiene che l’importanza del “purpose” aumenterà nei prossimi cinque anni. La ricerca si è concentrata sulla correlazione con il livello di innovazione interno del contesto aziendale. Il primo dato rilevante è che le organizzazioni che in Italia implementano il Purpose dichiarano vantaggi nell’ottenimento degli obiettivi aziendali (per il 62% degli intervistati e per il 73% dei ceo), nell’esperienza quotidiana dei dipendenti (per il 58% degli intervistati) e nel rafforzamento della reputazione esterna dell’azienda (per il 57% dei rispondenti). «Quello che emerge dall’analisi – spiega Kotlar – è che la mancanza di motivazione è spesso la radice del declino aziendale. I dirigenti, in particolare, stanno ponendo sempre più enfasi sui valori. All’interno delle imprese, ci sono crescenti opportunità, occasioni e tecnologie. La sfida ora non è più individuare tali opportunità, ma selezionare quelle che meglio si adattano alle proprie esigenze. In Italia, dove molte imprese sono a conduzione familiare e orientate a lungo termine, il “purpose” assume un ruolo chiave».

Nella ricerca, sono state individuate quattro diverse aree di azione in cui le organizzazioni possono integrare il Purpose. Per ciascuna di esse, emergono gli elementi chiave che evidenziano l’integrazione con il Purpose. Fonte Bcg BrightHouse e Polimi Graduate School of Management

Tuttavia, quando si tratta di mettere in pratica il purpose, emergono sfide significative, tra cui la comunicazione inefficace (52%), il limitato allineamento tra la leadership e i collaboratori (segnalato dal 50% dei partecipanti e dal 60% dei ceo), la mancanza di strumenti (42%), la mancanza di un piano di azione (33%) e la scarsa coerenza tra il “purpose” e le caratteristiche dell’azienda (26%). «Molte organizzazioni hanno adottato un “purpose” solo come slogan, senza apportare modifiche sostanziali nelle loro strategie di marketing, risorse umane o modelli di business. Questo è stato un’occasione persa. Le aziende che hanno ottenuto i migliori risultati sono state quelle in grado di tradurre concretamente il “purpose” in azioni – spiega il prof del Polimi – L’efficacia del “purpose” è stata misurata in quattro categorie chiave: purpose e strategia, purpose e persone, purpose e futuro (utilizzando il “purpose” come fondamento per la costruzione del futuro) e purpose e società, con un focus sulla sostenibilità. La ricerca ha dimostrato che le aziende che si sono impegnate maggiormente in queste quattro dimensioni sono state in grado di trasformarsi e innovare in modo più efficace». Il messaggio chiave è che i dirigenti stanno lavorando sul “purpose” e cercano di massimizzarne il valore: «è una buona notizia che questo non riguardi solo le generazioni più giovani, come la Gen Z e i Millennials; anche i manager stanno cercando un significato più concreto e intendono implementare il “purpose” in modo ponderato. In modo simile all’evoluzione dalla Corporate Social Responsibility (Ccsr) all’Environmental, Social, and Governance (Esg), il “purpose” sta emergendo come una priorità aziendale di crescente importanza».














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