Il Pil? Crescerà fra il 3% il 4% nel 2023. L’opinione controcorrente di Fabio Arpe

di Marco de' Francesco ♦︎ Le previsioni di Bankitalia stimano una crescita dello 0,4%, ma il banchiere fondatore di Arpe Group è convinto che i risultati saranno ben superiori. Ma allo stesso tempo, ci sarà una seleziona darwiniana delle aziende industriali: un terzo di loro sparirà. Ma l'inflazione continuerà a correre, così come i tassi di interesse. E sulla guerra in Ucraina...

Proprio nei giorni in cui Bankitalia “fissa” allo 0,4% la previsione di crescita italiana per il 2023, una voce controcorrente dice che non andrà per niente così. È quella di Fabio Arpe, banchiere di lungo corso, la cui storia nel mondo della finanza inizia nel gruppo Imi alla fine degli anni Ottanta. È il fondatore di Arpe Group. Secondo Arpe, il Pil nell’anno a venire balzerà in alto dal 3% al 4%, e cioè fino a 10 volte il forecast di palazzo Koch. Tuttavia, il rialzo sarà accompagnato da una selezione naturale nel tessuto industriale, che comporterà l’estinzione di un terzo delle aziende.

Che cosa accadrà, dunque? Il conflitto russo-ucraino terminerà alla fine dell’inverno, per impossibilità tecnica dei contendenti di avere la meglio. A questo punto, la potenza industriale tedesca, consapevole dei rischi impliciti nel mantenere catene di fornitura lunghe in un quadro geopolitico instabile, tenderà a privilegiare supply chain accorciate con l’Italia come riferimento diretto. Anche la ricostruzione dell’Ucraina vedrà le imprese italiane protagoniste: quelle tedesche e francesi sono penalizzate dall’atteggiamento politicamente oscillante dei rispettivi governi; quelle inglesi e americane no, ma sono distanti.







Tuttavia, l’inflazione continuerà a galoppare; i tassi di interesse pure, e le imprese che non dispongono di una sufficiente marginalità dovranno alzare bandiera bianca e arrendersi ai creditori bancari, che le rivenderanno a quattro lire ad aziende con le spalle più robuste. L’industria italiana, cioè, tenderà a strutturarsi come quella continentale: meno imprese, ma più grandi e solide. Tutto questo secondo Arpe, che abbiamo intervistato.

 

D: Per il 2023 è previsto un forte rallentamento della crescita dell’economia italiana, che dovrebbe attestarsi, a seconda delle fonti, tra lo 0,2% e lo 0,4%. Quali sono le sue previsioni in proposito?

Fabio Arpe, ceo Arpe Group

R: Chi parla dello 0,2% o dello 0,3% o dello 0,4% o è incompetente o è in malafede.  Il Paese crescerà invece tra il 3% e il 4%. Insomma, ci sarà un incremento considerevole dell’economia reale, anche se gli effetti positivi non riguarderanno tutte le imprese, anzi: si assisterà ad una selezione darwinistica, schumpeteriana.

D: Sono percentuali confortanti, ma non in linea con quelle previste dalla maggior parte degli osservatori.  

R: Non mi dice nulla di nuovo. Sono gli stessi esperti che, ad esempio, dichiaravano a marzo e aprile di quest’anno che saremmo finiti in recessione; io invece avevo previsto ulteriore crescita (si legga, in proposito, questo articolo; Ndr) e così è stato. Nel 2020, invece, avevo preconizzato il forte e veloce recupero dell’economia, un rialzo a K (si può consultare, sul tema, questo video realizzato da Industria Italiana; Ndr) e le cose sono andate nel verso che avevo indicato. Naturalmente, non si tratta di capacità divinatorie: opero in una posizione particolare, che mi consente di svolgere analisi accurate. Fa parte del mio mestiere.

D: Partiamo dalla crescita. Quali sono i pillar della sua previsione?

R: Per capire ciò che accadrà, occorre anzitutto una visione geopolitica e strategica della realtà presente. Il mondo è diviso tra democrazie e autocrazie, come la Turchia, l’Ungheria, la Russia e la Cina. Quest’ultimo Paese è in difficoltà, a causa delle chiusure dovute al Covid. La pandemia è nata lì, forse in qualche laboratorio di biochimica a Wuhan. Pechino non può permettersi il lusso di ulteriori diffusioni, o di altri salti di specie tra gli animali domestici a contatto con l’uomo. Di qui la politica ferrea, cesarea, che però sta mettendo a dura prova le filiere locali e il governo cinese in generale. Quanto alla Russia, ha cominciato una guerra, quella con l’Ucraina, che ha avuto un effetto molto evidente: quello di mettere in rilievo l’arretratezza tecnologica dell’esercito di Putin. Ferraglia, in paragone con i sistemi più avanzati dell’Occidente. D’altra parte la Russia è un Paese grande, ma non un grande Paese. Il Pil russo (1,7 trilioni di dollari nel 2021; Ndr) è pari a quello dell’Italia (2,1 trilioni di dollari nel 2021; Ndr) senza la Lombardia (368 miliardi di euro nel 2021, il 22% del dato nazionale). La capacità di produrre armi è strettamente legata alla ricchezza di una nazione. In questo contesto, è rinata la Nato, virtualmente affossata dal presidente francese Emmanuel Macron alla fine del 2019: si ricorderà, in proposito, la litigata con il presidente Donald Trump, quando Macron aveva definito l’alleanza “in stato di morte cerebrale”. Ora, invece, con l’ingresso della Finlandia e della Svezia, la Nato sta vivendo una second life.

Euribor

D: Tutto ciò è condivisibile, ma cosa c’entra con la crescita italiana?

R: La guerra è destinata a finire. Non manca molto: a febbraio, a marzo al massimo, Putin e Volodymyr Zelensky saranno costretti a sedersi attorno ad un tavolo. Per un motivo semplice: il secondo non può vincere, ma neanche il primo. Putin sta forzando la mano per piegare l’Ucraina con l’arma del freddo, distruggendo tutte le infrastrutture energetiche. Non funzionerà: l’Italia, la Francia, il Regno Unito e soprattutto gli Usa stanno rifornendo l’Ucraina di armi, che sono assai più sofisticate di quelle a disposizione dei Russi. C’è anche di mezzo una partita di missili Patriot del valore di mille miliardi di dollari. Gli attacchi della Russia diventeranno sempre più inefficaci. Lo stesso arsenale missilistico di Mosca è agli sgoccioli. D’altra parte, l’Occidente non può neanche permettersi il lusso di consegnare a Zelensky missili a lungo raggio o di realizzare una no-fly zone su Kiev; il rischio è quello di passare al conflitto nucleare. L’Ucraina, peraltro, è un campo di macerie. Insomma, entrambe le parti capiranno che è meglio evitare uno stallo prolungato, e che la fine della guerra conviene ad entrambi i Paesi. A questo punto dovrebbero intervenire le diplomazie delle due grandi potenze, gli Usa e la Cina. Qualcosa a Putin bisognerà riconoscere, perché il cessate il fuoco non può coincidere con una sua sconfitta agli occhi dei Russi: non la accetterebbe mai. In realtà, il grande sconfitto è Putin.

D: Perché Putin è il grande sconfitto?

Vladimir Putin

R: Putin voleva ricostituire l’Urss – lo ha dichiarato nel 1992 – sia in termini di potenza che di dimensioni. Ha agito approfittando del Covid, della Brexit, della uscita di scena della Merkel, e di un Macron “anatra zoppa” in Francia. Ma ha fallito.

D: Tornando alla crescita italiana, cosa accadrà con la fine della guerra?

R: Anzitutto, l’industria dell’Europa centrale, e della Germania in particolare, avrà bisogno, per riprendere la corsa al temine della guerra, di affidarsi a filiere molto più corte. Ciò che è successo costituisce un vero spartiacque: considerata l’instabilità politica, non è più il caso di farsi rifornire dalla Corea o dal Vietnam. Ci sono tre Paesi che diventeranno particolarmente interessanti agli occhi dei Tedeschi: il Portogallo, a causa della sua fiscalità; la Tunisia, perché è un Paese stabile che si affaccia sul Mediterraneo e ha un basso costo del lavoro; e l’Italia, che ha molte competenze manifatturiere ed è veramente vicina alla Germania. E poi è un partner storico, in termini industriali. Inoltre c’è da ricostruire l’Ucraina.

D: Già: chi ricostruirà l’Ucraina?

R: La Germania è meno avvantaggiata, avendo occhieggiato alla Russia e puntato a lungo su questo Paese. Lo stesso vale per la Turchia. Il Regno Unito e gli Usa avranno grandi vantaggi per gli aiuti dati a Kiev; ma saranno le aziende italiane a fare la parte del leone.  L’Italia non ha mai oscillato sulle responsabilità di Putin; ed è più facile ricostruire un asilo partendo dall’Italia che dagli Usa. Insomma, per il nostro Paese la fine della guerra costituirà un importante motivo di crescita economica.

necessità di aumentare l’interest rate secondo la Bce

D: La crescita riguarderà solo l’edilizia?

R: Niente affatto. Con la questione dell’accorciamento delle filiere, tante industrie saranno avvantaggiate, compresa la manifattura. Peraltro, sta entrando nel vivo anche la questione del Green, per cui si assisterà ad una crescita di tutte quelle imprese che si occupano di sistemi di produzione di energia pulita.

D: Diceva che però si assisterà ad una riduzione del numero delle imprese.

R: Sì.  L’inflazione calerà al 5% o 6% nel corso del 2023, ma i tassi resteranno alti. Attualmente, se si guarda l’Euribor, è al 2,08% a tre mesi e al 2,52% a sei mesi; il forword a tre mesi è al 3%. Il tasso Bce del costo del denaro è al 2%. E a fine dicembre terminano anche le moratorie: le aziende devono pagare quota capitale e quota interessi. Insomma, aziende con una marginalità inferiore ad almeno il 5%, andranno in crisi, perché non avranno fiato per resistere; oppure dovranno accettare di essere comprate anche perché d’ora in avanti non si guarderà solo alla supply chain controllabile, ma anche alla “solidità” di clienti e fornitori. In altre parole, prima di passare un ordine a un fornitore o di prendere una commessa da un cliente si guarderà se il fornitore o il cliente è in buona salute. Non ci può permettere di dare un ordine a fornitore se poi questo salta. Prezzo o non prezzo. Stessa cosa per i clienti. La selezione sarà fortissima – ma non ci saranno crisi sociali, perché le persone che usciranno dalle aziende gestite male saranno rapidamente assorbite dalle aziende che cresceranno tanto. Ciò permetterà anche di tornare a creare aziende di grande dimensione. Il che è un vantaggio per l’Italia

Bce euro short term rate

D: Si riferisce alla nuova forma di composizione prevista dal Nuovo codice della crisi di impresa?

R: È uno strumento che agevola le trattative tra le imprese in difficoltà economico-finanziarie e i loro creditori: si punta ad un accordo che eviti una crisi irreversibile o l’insolvenza; ed è previsto l’intervento di un professionista definito “esperto”, con il ruolo di facilitatore tra le parti interessate. Il percorso della composizione è esclusivamente di tipo volontario, quindi attivabile solo dalle imprese che decidono di farvi ricorso.

D: Come finirà?

R: Le aziende chiederanno prestiti alle banche creditrici; normalmente le banche accantonano il 20% 30 per cento su aziende sane, ma se la azienda va in stato di insolvenza  dovranno accantonare una somma pari al 130% del prestito. E  basta che le imprese non paghino due rate, e non facciano fronte ai loro impegni e subito salteranno. A loro volta gli istituti di credito andranno in difficoltà, e concederanno nuovi prestiti solo ad aziende particolarmente solide: peraltro solo queste potranno accedere al mercato dei capitali o emettere bond.

D: Quale percentuale di aziende rischia di saltare?

R: Diciamo che salteranno quelle aziende hanno un Ebitda inferiore al 5% e si sono imbottite di debito durante il Covid (che infatti avevo definito una gigantesca ipoteca sul futuro).

Crisi d’impresa: i tavoli aperti al Mise

D: Un dato allarmante.

R: Alcune tra queste riusciranno a salvarsi ugualmente, ad esempio quelle in cui c’è la famiglia ricca che ci mette il capitale. Realisticamente, direi che oltre il 30% delle aziende salteranno.

D: Sembra una prospettiva complicata.

R: In realtà no. Nel senso che tante aziende, finite “in pancia” alle banche, saranno cedute a prezzo stracciato ad imprese industriali più grandi, quelle solide con Ebitda superiori al 15%. Che potranno sfruttare un’occasione storica di crescita dimensionale, per allinearsi agli standard continentali e mondiali.

D: Si è tanto parlato di aggregazioni nell’industria – fenomeno che non ha mai riscosso particolare successo in Italia. In questo caso avverrebbero in via quasi forzosa.

R: Il panorama industriale è destinato a cambiare faccia rapidamente. Ma non è detto che siano le Pmi a scomparire. Come si diceva, la sopravvivenza dipende dalla solidità finanziaria, e ci sono anche grandi aziende che hanno piedi di argilla, da questo punto di vista. In realtà, la solidità finanziaria diventerà il parametro di riferimento anche nella ricostituzione delle filiere.

D: Perché la solidità finanziaria diventerà un parametro di riferimento per la ricostituzione delle filiere?   

R: In questa situazione, l’Oem non si impegna con il supplier che rischia di saltare; né il fornitore con l’Oem che potrebbe non avere i soldi per remunerare beni e servizi acquisiti. La bontà di bilancio è il pillar attorno al quale si creeranno nuove relazioni industriali.

La disruption della supply chain ha avuto effetti letali in tutte le economie, ma è l’Eurozona ad essere stata maggiormente colpita. Fonte Wmf

D: In sintesi, cosa deve attendersi l’industria per il 2023?

R: Una torta più ampia, forte crescita – ma con meno fette e più grandi. Chi si affretta a cogliere opportunità prenderà le migliori aziende in difficoltà. Da questo punto di vista non c’è molto tempo da perdere per le aziende sane.

 

(Ripubblicazione dell’articolo pubblicato il 19 dicembre)














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