Federacciai: produzione torna ai livelli pre-Covid. +6,1% rispetto al 2019

Il presidente Alessandro Banzato fa il punto della situazione, toccando anche temi come l'ex Ilva, Piombino e Terni. E lancia un monito: «Attenzione però che le recenti impennate dei costi del gas e dell’energia elettrica potrebbero frenare, se non compromettere, il trend positivo dell’economia italiana ed europea»

Alessandro Banzato, presidente di Federacciai

Il settore siderurgico in Italia si è ripreso alla grande dalla dura crisi scatenata dal Covid. Nei primi 8 mesi dell’anno sono state prodotte 16,3 milioni di tonnellate di acciaio, con una crescita del 27% rispetto al precedente anno. Il dato più interessante è quello a confronto con lo stesso periodo del 2019: con una crescita del 6,1%, la produzione è tornata ai livelli pre-Covid, superandoli.

A livello mondiale, invece, la produzione da gennaio ad agosto è cresciuta del 10,6%, evidenziando gli aumenti più significativi in India (+25,6%), Brasile (+20,9%), Stati Uniti (+19,5%), Turchia (+16,7%) e Giappone (+17,0%).







«Oggi ci troviamo di fronte ad una congiuntura positiva. I primi segnali di ripresa c’erano già stati nella seconda parte del 2020 e la situazione è migliorata quest’anno con una esplosione della domanda che ha trainato la crescita dei volumi a livello sia nazionale che internazionale. Quello che stiamo vivendo è un ciclo espansionistico su scala europea destinato a durare per qualche anno, un trend positivo che si rafforzerà ulteriormente soprattutto quando si tradurranno in cantieri e investimenti i fondi PNRR in Italia e negli altri Paesi europei», ha dichiarato Alessandro Banzato, presidente di Federacciai.  «L’aumento dei volumi è stato accompagnato da una forte crescita dei ricavi trainati dalla tonicità della domanda e dal forte aumento di costo delle materie prime e delle altre principali voci di spesa. Attenzione però che le recenti impennate dei costi del gas e dell’energia elettrica potrebbero frenare, se non compromettere, il trend positivo dell’economia italiana ed europea».

LA SFIDE E I PROBLEMI DEL SIDERURGICO

Nel 2020 la Cina ha prodotto 1 miliardo di tonnellate di acciaio, il 56,7% della produzione mondiale (1,878 mld) e la sua escalation è stata rapida e costante passando nel giro di 15 anni dal 15% al 50% della produzione mondiale. La nuova geografia dell’acciaio vede dunque la posizione preminente della Cina e l’avanzare di IndiaTurchia e Iran, Paesi emergenti che hanno una spiccata vocazione alle esportazioni, dato anche il tenore dei consumi interni, e una attenzione alle problematiche di sostenibilità ambientale e sociale non certo paragonabili a quelli europei.

«E’ pertanto facilmente comprensibile che la tendenza in atto in Europa – il Green Deal – potrebbe generare asimmetrie competitive che, se non gestite in tempo, porterebbero alla sparizione della siderurgia continentale o alla progressiva delocalizzazione della stessa in aree del mondo soggette a meno vincoli. I processi di cambiamento in corso devono pertanto essere accompagnati da misure di difesa e sostegno che consentano alla siderurgia europea non solo di sopravvivere, ma anche di mantenere quelle marginalità che occorrono per continuare a investire e raggiungere gli ambiziosi obiettivi dati», prosegue Banzato.

«Oltre alle misure difensive per gestire il transitorio è quindi soprattutto necessario attivare azioni di politica industriale che accompagnino, a condizioni competitive salvaguardate, gli ambiziosi obiettivi che la transizione energetica sta già ponendo. Mi riferisco in particolare alle discussioni sul cosiddetto “Fit for 55″ (il nuovo pacchetto climatico dell’UE che propone di raggiungere entro il 2030 gli obiettivi del Green Deal, ovvero la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra del 55% rispetto ai livelli del 1990, con proposito di raggiungere la “carbon neutrality” per il 2050).
Chiarisco subito che la direzione dell’Europa è indubbiamente quella giusta, discutibile è invece la quantificazione quasi ideologica di alcuni obiettivi. A livello globale l’Europa è responsabile di meno del 10% delle emissioni di Co2 complessive. Fare i primi della classe quando gli altri, che emettono molto più di noi, non imboccano percorsi virtuosi, guadagnandone in competitività, metterebbe a rischio la tenuta industriale e sociale dell’Europa e del nostro Paese.

«Sappiamo tutti che la transizione energetica avrà un costo industriale e sociale molto elevato. Se la transizione non sarà guidata in modo omogeneo fra Europa e Stati membri, e soprattutto se non ci saranno poderose misure di accompagnamento, il rischio non è solo quello di mettere in crisi irreversibile il sistema industriale, ma anche quello di arrivare a forti tensioni sociali.  Del resto lo stiamo vedendo in questi giorni con l’andamento dei costi del gas e dell’energia elettrica: alla fine chi paga sono i cittadini che oltre a vedere le bollette più pesanti si ritroveranno a pagare di più per tanti prodotti e servizi di prima necessità.  Per tali ragioni serve a mio avviso una maggiore gradualità che dia il tempo sia per sviluppare soluzioni tecniche e consolidarle che per adottare azioni di politica industriale attraverso interventi ad hoc per la transizione per sostenere e accompagnare le imprese.

Il Governo ha dato segnali molto importanti con il Pnrr che, per quanto ci riguarda, interviene soprattutto sul piano della domanda, fattore importantissimo per consolidare la ripresa finalmente agganciata. Mi riferisco in particolare al piano di investimenti sulle infrastrutture e alle azioni in corso per sbloccare e velocizzare i cantieri. Per quanto riguarda la decarbonizzazione, l’impulso da dare alle rinnovabili e all’idrogeno, quanto previsto dal Pnrr è invece solo – concedetemi la battuta – un ‘corposo antipasto’.

«Le principali leve individuate per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione sono: la cattura della Co2 che potrebbe essere stoccata o riutilizzata, l’accelerazione dell’elettrificazione dei processi e l’utilizzazione di combustibili verdi come il biometano e l’idrogeno. Progetti che devono tenere conto del progressivo consolidamento delle tecnologie e anche dei costi che, solo per i produttori italiani dei settori Hard to Abate, sono stimati in 15 miliardi di euro nei prossimi 10 anni. E’ evidente che un percorso di questo tipo non può essere sostenuto solo dalle imprese, ma servono sostegni europei e nazionali la cui certezza sia coerente con la determinazione degli ambiziosi obiettivi prefissati.

Oltre a garantire la sopravvivenza competitiva dei settori energivori, tali interventi avrebbero peraltro un effetto indiretto positivo sia in termini di PIL (stimati 10 miliardi) che in termini di posti di lavoro qualificati (150.000).

Dai dicasteri interessati abbiamo già ricevuto attenzione e contiamo si proceda in una logica di partnership orientata a mettere al primo posto la sicurezza e il bene del nostro Paese. Si potrebbe ad esempio pensare ad un fondo per la decarbonizzazione dei settori Hard to Abate, sulla scorta di quanto fatto da altri Paesi europei. Ma la battaglia a Bruxelles sarà comunque durissima ed è per questo che dobbiamo proseguire uniti e in modo molto determinato. Anche perché se l’Europa non dovesse essere in grado di sostenere il proprio tessuto produttivo e, al contempo, non dovesse avere la forza di trascinare il resto del mondo verso la stessa direzione, la nuova geografia dell’acciaio ci travolgerà minando irreversibilmente la nostra autonoma capacità industriale e produttiva. Se invece il Governo e l’Europa saranno in grado di accompagnare la trasformazione in atto in modo tempestivo ed efficace, noi, come sempre, saremo in grado di fare la nostra parte e onorare al meglio gli impegni condivisi»..

Il tema della decarbonizzazione pone però importanti questioni anche all’interno della nostra comunità siderurgica sia nazionale che, soprattutto, europea e internazionale.

Su questo Banzato ha precisato: «È ormai acclarato che il processo più complesso e a rischio è quello a ciclo integrale, dove la componente Co2 è molto più elevata rispetto alla produzione da forno elettrico. In Italia la produzione nettamante predominanate è quella a ciclo elettrico, a differenza di altri paesi come Germania, Francia, Austria, Olanda e Belgio dove prevale il ciclo integrale. Come Federacciai vigileremo dunque e ci impegneremo perché chi ci rappresenta a livello europeo, Eurofer, sia in grado di portare avanti in modo equilibrato e giusto le istanze di tutta la siderurgia europea, ivi comprese quelle del forno elettrico che rappresentano percentualmente poco meno della metà della produzione continentale.

Sempre come ‘elettrosiderurgici’, abbiamo poi la preoccupazione legata alle soluzioni tecniche che si stanno profilando per la decarbonizzazione dei processi a ciclo integrale. Al netto delle ipotesi di “carbon capture”, le soluzioni che al momento si intravedono sono sostanzialmente tre: la conversione a idrogeno, che sicuramente ha tempi di implementazione medio lunghi; vari accorgimenti tecnici tra i quali l’aumento della carica di rottame nei convertitori che trasformano la ghisa di altoforno in acciaio (si parla di passare dall’attuale 10/15% ad un massimo del 30%); la sostituzione di una parte di altoforni con forni elettrici alimentati a preridotto.

Comunque vada è evidente che uno dei perni del cambiamento sarà il rottame e questo potrebbe creare forti tensioni sul mercato, soprattutto italiano. Il rottame è generato sul territorio nazionale per un quantitativo di circa 15 milioni di tonnellate e il resto del fabbisogno, mediamente pari a 4/5 milioni di tonnellate, viene importato sia da Paesi UE che Terzi. L’Unione europea nel suo complesso è invece un esportatore netto, con un trend in crescita negli ultimi anni. Le esportazioni di rottame dell’UE a 27 sono pari a circa 18 milioni di tonnellate».

«Gli scenari legati alla decarbonizzazione in corso rendono pertanto sempre più urgente quello che come Federacciai richiediamo da anni, ovvero l’adozione a livello europeo di misure che consentano di mantenere il rottame nel continente, evitando un drenaggio di risorse a vantaggio di Paesi Terzi che, oltre a non garantire i nostri standard ambientali e di sostenibilità, non hanno vincoli di riduzione della CO2 comparabili a quelli europei», conclude Banzato.

 

ENERGIA

Il problema dei siderurgici italiani è sempre stato quello di avere un costo dell’energia più elevato rispetto a quello dei principali competitor europei. Negli ultimi anni si sono trovate soluzioni che hanno consentito una tendenziale parità di allineamento, restituendo al sistema servizi in termini di sicurezza rete e nuove interconnessioni. «Questa è la strada segnata che difendiamo e difenderemo apportando, se servono, le modifiche necessarie in funzione dell’evoluzione delle tecnologie e dei mercati», sottolinea Banzato. 

«In termini di strumenti tesi ad allineare i costi italiani a quelli europei, scontiamo invece un preoccupante ritardo per quanto riguarda la Compensazione dei costi indiretti ETS, misura prevista dall’ordinamento europeo e già applicata da almeno uno o due anni da Germania, Francia, Spagna, Belgio e Lussemburgo. Con una decisione del 9 luglio scorso la DG Competition della Commissione europea ha approvato il piano presentato dal Governo italiano, ma ad oggi non abbiamo ancora avuto notizie della sua attuazione. Ai rappresentanti del Governo segnaliamo pertanto l’urgenza di arrivare in tempi brevissimi all’adozione della misura anche perché, come accennato, rispetto ai nostri principali concorrenti, siamo già in ritardo di diversi anni».

CRITICITÀ AZIENDALI APERTE

Durante la sua relazione, il Presidente di Federacciai, Alessandro Banzato è poi intervenuto su:

EX ILVA

«Come già fatto un anno fa in questa occasione ribadisco oggi che nonostante le resistenze psicologiche che derivano dalla storia della siderurgia di Stato, siamo consapevoli che ci sono momenti storici in cui la presenza transitoria dello Stato è possibile e necessaria se il fabbisogno di investimenti per il rilancio, in costanza di perdite, porta a tempi di esecuzione e ritorno che sono insostenibili per un investitore privato. Tutto questo assume una valenza ancora maggiore se si pensa alle sfide imposte, nel breve e medio termine, dalla decarbonizzazione che non può che essere gestita, come detto, solo attraverso importanti misure di accompagnamento pubbliche, siano esse nazionali o europee.

Serve quindi uno Stato che può svolgere una funzione determinante nel risanare e rilanciare gli assets per poi ricollocarli, valorizzati, sul mercato. Questo ragionamento però deve comunque essere sempre di mercato, ovvero vanno salvaguardati gli assets realmente strategici. Per l’ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia, saremo finalmente arrivati ad un punto di svolta se il nuovo piano troverà un punto di equilibrio fra la sostenibilità tecnica ed economica, quella ambientale (soprattutto ritrovando una intesa con il territorio) e infine la sostenibilità sociale (e quindi in accordo con le Organizzazioni Sindacali che rappresentano i lavoratori). Tutta la filiera ha bisogno dell’ex Ilva e aspetta che questa ritorni a maggiori livelli produttivi. I problemi che si sono avuti anche negli ultimi mesi sul mercato dei coils sono la prova del nove della strategicità di Taranto, Cornigliano e Novi».

PIOMBINO

«Diverso e più complesso è il caso di Piombino. A scanso di equivoci ribadisco la mia stima per Sanjan Jindal, imprenditore siderurgico di primordine che ha fatto grandi cose in India sia dal punto di vista tecnologico che per quanto riguarda i risultati in termini di sostenibilità e profittabilità. Non capisco però cosa vuole fare veramente a Piombino, anche perché in tre anni non abbiamo mai avuto, come Federacciai, l’occasione di incontrarlo e di confrontarci, nemmeno con i suoi collaboratori. Quello che posso dire però è che l’evocazione di un coinvolgimento di Invitalia desta in tutti noi grande preoccupazione. Se guardando solo alle problematiche sociali lo Stato dovesse investire anche su assets obsoleti e non più strategici, ci troveremmo di fronte a quel modello di industria pubblica che hanno giustamente osteggiato i nostri padri, ovvero a quei carrozzoni che producevano in perdita facendo concorrenza sleale a chi fa sacrifici e corre grandi rischi per investire sulle proprie fabbriche. I problemi sociali, ribadisco, vanno rispettati e per farlo seriamene vanno abbandonate le attività fuori mercato e indotte nuove intraprese produttive che rispondano alle esigenze reali della domanda».

TERNI

«Del resto in questi giorni la cronaca ci ha confermato che se un asset è strategico ha mercato e gli imprenditori italiani sono disposti a rischiare investendo cifre molto considerevoli. Mi riferisco evidentemente alla AST di Terni per l’acquisizione della quale abbiamo visto partecipare e giocarsela fino alla fine due importanti imprenditori del nostro settore, Arvedi e Marcegaglia, che ringrazio oggi entrambi per la sfida raccolta».

«La risoluzione positiva della questione di Terni non fa però venir meno la necessità – più volte ribadita sia da noi che dalle Organizzazioni Sindacali – di avviare un confronto con il MISE su un Piano Strategico della siderurgia del nostro Paese». Il Presidente Banzato, rivolgendosi in particolare al Ministro Giorgetti, ha quindi concluso: «Noi siamo sempre pronti e aperti ad affrontare una discussione franca e senza pregiudizi e le chiediamo pertanto di avviare finalmente un confronto anche perché altrimenti a fare il Piano, se non subentreranno interventi di “doping” distorsivi della concorrenza, sarà il mercato senza guardare in faccia nessuno».














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