Quattro motivi per cui l’Italia è (ancora) in crisi nerissima

di Marco Scotti ♦︎ Le misure messe in campo dall’esecutivo si scontrano con quattro problemi enormi: scarsa tempestività, recessione troppo profonda, necessità di più tempo per essere efficaci, evasione fiscale da record. Serve mettere mano in modo diverso al portafoglio, o i ristori tanto sbandierati saranno un nuovo buco nell’acqua

Il rapporto deficit/pil, artatamente posto per obbligo al 3% dagli accordi di Maastricht, quest’anno si chiuderà – per l’Italia – al 10,8%, e poi scenderà al 7% l’anno prossimo. Che cosa significa? Che il governo ha messo in atto misure immediate di spesa pubblica che si sono tradotte in un incremento sostanziale degli esborsi correnti. Questo meccanismo è stato reso necessario dalla pandemia da Coronavirus, che ha bloccato l’economia causa lockdown.

Ma c’è un enorme “ma” che aleggia su qualsiasi provvedimento dell’esecutivo, proprio ora che si parla di forme di ristoro per tutte quelle attività – dai bar alle palestre fino ai teatri – che dovranno restare serrate in questo regime di chiusure “light” che dovrebbe durare fino al 24 novembre. Prima di tutto: se le previsioni – per altro in peggioramento – di una caduta del pil si attestano tra il 9 e il 10% (ma c’è chi dice che andrà anche peggio) si aprono quattro scenari differenti. Che le misure adottate non sono state commisurate alle reali esigenze; che il calo sarebbe stato molto peggiore senza ristori; che serve ulteriore tempo per vedere l’efficacia delle iniezioni di liquidità; che l’evasione fiscale che ogni anno vale almeno 110 miliardi di euro continua a fare danni.







Nel primo caso, è evidente che il governo non avesse la possibilità di garantire le stesse entrate a tutti i settori colpiti, mantenendo inalterate le prospettive di reddito. Perché l’Italia, piaccia o meno, si muove in un sistema complesso come l’Europa che ci tutela dal punto di vista dei titoli di stato e dell’inflazione, ma che rende più complicato qualsiasi scostamento di bilancio anche in caso di catastrofi economiche come quella in corso.

Carlo Bonomi, presidente di Confindustria.
Carlo Bonomi, presidente di Confindustria

Il secondo punto è lapalissiano ma non del tutto soddisfacente: se il governo non avesse messo mano al portafoglio il numero di persone a rischio povertà sarebbe stato molto superiore. Esclusi i comparti che non si sono fermati, infatti, la quasi totalità dei lavoratori – specie gli autonomi – ha dovuto fronteggiare una riduzione di fatturato. In questo caso, però, ci si scontra con alcune lungaggini burocratiche come la lentezza nell’erogazione della cassa integrazione (che alcuni ancora attendono) e degli incentivi a fondo perduto per i lavoratori dei settori turismo, spettacolo e ristorazione. Da questo punto di vista, c’è un po’ di preoccupazione per quanto annunciato dal governo: mentre si disponevano le nuove chiusure fin da subito, si rimandava a un provvedimento – seppur rapido – per il ristoro dei mancati guadagni. Anche in questo caso, quanto bisognerà attendere? E in che misura saranno decisi i rimborsi? Il meccanismo automatico per chi ha già percepito i redditi di emergenza nei mesi scorsi verrà davvero confermato?

Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha giustamente ricordato – seppur con toni fin troppo accesi – che il merito della ripresa del manifatturiero non va ricercato nell’opera del governo, ma in quella degli imprenditori che hanno saputo anticipare la cassa per mantenere attivi stabilimenti e livelli occupazionali. In realtà, Bonomi si scaglia contro una norma – quella del blocco dei licenziamenti – che ha fin qui impedito di assistere a tensioni di piazza che solo ora iniziano a intravedersi, oltretutto cavalcate da criminalità organizzata al sud e neofascisti al nord.

Servirà ulteriore tempo per vedere l’efficacia delle misure del governo? Su questo decisamente sarei più tiepido. Non solo e non tanto perché chi riceve i soldi oggi non necessariamente li spende almeno fino a che non raggiunge una certa sicurezza finanziaria. Ma soprattutto perché gli italiani, spaventati, hanno preferito ammassare nei conti correnti oltre 1.600 miliardi di euro, il pil dell’Italia, invece che tornare a spendere. Non è povertà, è paura dell’ignoto e di un domani che non si sa se e quanto sarà “normale”.

Infine c’è l’ultimo punto, quello che non conviene dire perché non piace, ma che è anche il più vero. Che i consumi in Italia si fondano ancora molto sull’evasione, nonostante l’opera continua e costante messa in atto da Equitalia. Non si parla soltanto di quei pochi contribuenti a zero che poi sfrecciano su supercar, ma di quei furbetti – e ce ne sono milioni – che non sempre fanno la fattura o che la fanno per un importo inferiore. E questi sono i lavoratori più colpiti dalla crisi del Covid: perché le loro dichiarazioni dei redditi molto più basse del reale hanno portato loro ristori inferiori a quanto sarebbe spettato se avessero sempre fatturato tutto in modo corretto. Così il governo fa debito, ma non a sufficienza per coprire le magagne di chi ha scelto, per anni, di frodare la collettività. E forse è anche qui che va ricercata la mancata ricchezza che oggi viene sbandierata da tutte le parti. Un cancro, quello dell’evasione fiscale, che è già nocivo in tempi normali ma che diventa ancor più mortifero in queste occasioni. Sarà la volta buona?














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