Arriva il nuovo Codice della crisi d’impresa! Che fare? Che cambia?

di Marco de' Francesco ♦︎ Analisi precoce dello stato di difficoltà dell’azienda e salvaguardia della capacità imprenditoriale. Sono questi i due obiettivi principali del decreto, in vigore da febbraio 2021. Per centrarli, le società si devono dotare di un risk manager che tenga sotto controllo tutti i possibili pericoli. Ne abbiamo parlato con Alberino Battagliola, consigliere Anra

Dopo quattro anni di elaborazione, il nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza entrerà in vigore nel febbraio 2021. La norma è rivoluzionaria: si intende dar vita a sistemi premiali di allerta per anticipare l’emersione degli squilibri finanziari e alleviarne le conseguenze.

Le aziende però, ora devono dotarsi per legge di sistemi informativi, piattaforme e assetti organizzativi in grado di rilevare tempestivamente lo stato di crisi.







È proprio il lavoro del risk manager: questi è una figura interna all’azienda ma indipendente dalle altre funzioni e dagli altri dipartimenti, dai quali riceve segnalazioni di ogni tipo, che sono centralizzate ed elaborate. Si tratta di mettere sotto controllo tutti i possibili pericoli: solo con una gestione integrata dei rischi si può offrire un valido supporto al presidio dei processi aziendali. Anche perché l’emergenza dalla quale può scaturire la crisi può non avere, direttamente, un’origine finanziaria: un prodotto difettoso, un incendio, un’alluvione possono produrre lo stesso effetto. La riforma, dunque, è destinata a conferire al risk management una posizione strategica in azienda. Sul punto, abbiamo intervistato il consigliere Anra (Associazione nazionale risk manager e responsabili assicurazioni aziendali) Alberino Battagliola.

 

D: Qual è il portato del decreto “Crisi d’Impresa”?

Alberino Battagliola, consigliere Anra

R: «Si è data vita ad un vero è proprio nuovo codice della crisi e dell’insolvenza, con revisione organica della disciplina delle procedure concorsuali. Due le principali finalità: anzitutto consentire una diagnosi precoce dello stato di difficoltà dell’azienda, per anticipare l’emersione della crisi e per contenerne l’aggravarsi; e poi, salvaguardare la capacità imprenditoriale di coloro che vanno incontro alla crisi, in termini di conseguenze personali. A mio avviso questo codice è assai vantaggioso, non solo per il singolo imprenditore, ma per tutto il mondo che ruota attorno all’azienda: creditori, fornitori, dipendenti e relative famiglie. Anche perché è prevista una forte riduzione dei costi e dei tempi del procedimento».

 

D: Si è creato un sistema di allerta. Come funziona?  

R: «Anzitutto il codice individua degli indicatori della crisi, e cioè degli squilibri di carattere patrimoniale, finanziario e reddituale, che vanno però parametrati all’attività e alle caratteristiche dell’impresa. In generale, va valutata la sostenibilità dei debiti per almeno sei mesi, nonché le prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso, o per i sei mesi successivi qualora, al momento della valutazione, l’esercizio duri meno di un semestre. Tra gli indicatori, ad esempio, i debiti per retribuzione scaduti da 60 giorni, quelli verso i fornitori esigibili perché il termine è spirato da almeno quattro mesi, i ritardi nei pagamenti. Qualora sussistano questi indizi, nascono due obblighi di segnalazione: uno interno, a carico degli organi di controllo societari, del revisore contabile e della società di revisione, che devono informare subito l’Oicri, l’organismo di composizione della crisi di impresa, e fornirgli ogni elemento utile; e l’altro esterno, che riguarda invece i creditori pubblici qualificati, come l’Inps, l’agenzia delle entrate e l’agente di riscossione delle imposte. L’allerta interna può essere attivata anche dall’imprenditore, che così eviterà pesanti sanzioni. E anzi, qualora di propria iniziativa presentasse tempestivamente istanza o domanda di ammissione a una delle procedure giudiziali di regolazione della crisi o dell’insolvenza, godrebbe di misure premiali, come la riduzione degli interessi legali sui debiti fiscali dell’impresa, il dimezzamento delle sanzioni sui debiti tributari, la proroga del termine fissato dal giudice per il deposito della proposta di concordato preventivo pari al doppio di quella che questi può concedere, e infine vantaggi penali, sia in caso di bancarotta semplice che fraudolenta».

 

D: E che ruolo svolge l’Oicri?

Il risk management

R: «Sono organismi costituiti in Camera di commercio. In caso di allerta, sentono il debitore, in via riservata e confidenziale. Il collegio, peraltro, può arrestare il procedimento con l’archiviazione, nel caso in cui la crisi non sussista o quando ci siano crediti dimostrabili da mettere in compensazione. Se invece la crisi viene accertata, allora l’organismo può indicare le misure per risolverla. Insomma, se è possibile, si cerca di evitare la fase giudiziaria, che interviene quando non si può fare altrimenti».

 

D: Quanto tutto ciò sarà operativo?

R: «Doveva esserlo per Ferragosto 2020, ma gli Oicri saranno attivi sulle segnalazioni dal 15 febbraio 2021, secondo le ultime notizie. Di recente, infatti, è comparsa una proroga semestrale».

 

D: Peraltro, il termine “fallimento” è stato sostituito con l’espressione “liquidazione giudiziale”. È un beneficio psicologico, un effetto placebo per l’imprenditore nei guai?

R: «È una svolta culturale, in linea con quanto accaduto in Francia e in Spagna. Si cerca di evitare lo stigma, il disonore che in Italia accompagna il “fallito”. Che peraltro può essere finito in questa condizione al di là dei propri demeriti. Inoltre, la macchia e il discredito non favoriscono la ripresa delle attività economiche di chi intende ricominciare. Pertanto, si è utilizzata una locuzione più “dolce”».

 

D: Ma quel è il rapporto tra la nuova disciplina della crisi di impresa e il risk management?

Alessandro De Felice, presidente Anra e risk manager Prysmian

R: «Il legislatore ha colto l’esigenza di intervenire quando la crisi non si è ancora manifestata, ma quando se ne possono avvertire i possibili sintomi. E ha previsto che tutte le imprese si dotino di sistemi informativi, adeguate piattaforme e assetti organizzativi in grado di rilevare tempestivamente lo stato di crisi. Questo, nel risk management, si chiama compliance program. E poi, mica tutte le crisi derivano da un buco di bilancio».

 

D: Che cos’è il compliance program e perché un’azienda dovrebbe dotarsene? Che c’entra con il rischio di essere liquidata giudizialmente?

R: «Come dicevo, non si deve pensare che la liquidazione giudiziale debba necessariamente dipendere da problemi finanziari. O meglio: questi possono insorgere a causa di altri fattori. Si prenda il caso dell’azienda che abbia ignorato il rischio alluvione; se poi questo fenomeno si verifica, l’impresa chiude. Ma, più semplicemente, pensiamo al rischio-prodotto: se il tappo che deve contenere la candeggina non funziona bene, e il liquido si disperde cagionando danni, per l’azienda produttrice, ma anche probabilmente per il rivenditore, sono guai seri. Anche un pericolo apparentemente limitato può determinare la fine di una organizzazione. Dunque, cos’è il compliance program? È un piano complesso, che tende a porre sotto controllo tutti i possibili rischi. Riguarda la tutela dell’ambiente; la disciplina sulla prevenzione della corruzione; la sicurezza informatica; la privacy; i modelli di organizzazione, gestione e controllo; e modelli di autoregolamentazione per le società quotate. Da tutti i comparti dell’azienda provengono delle informazioni. Che vanno centralizzate ed elaborate. C’è un’autodiagnosi, una sorta di risk assessment che, partendo dalla situazione corrente evidenzia i gap e le azioni necessarie per adeguare gli assetti organizzativi, amministrativi e contabili».

 

D: Dunque il segreto è la prevenzione?

Il processo del risk management

R: «La prevenzione è una regola che vale anche al di fuori dell’azienda, anche per il privato. Fa parte dell’esperienza umana. Ma l’impresa è un mondo complesso, che presenta inevitabilmente molti fattori di pericolo. Si tratta di arrivare prima della crisi, di anticiparla; e quindi di evitarla. In questa visione, peraltro, il rischio non va più considerato come la probabilità di un accadimento negativo; diventa anzi una voce inserita nel controllo di gestione e dell’analisi dei risultati. Un fattore che va associato ad altri in vista della creazione del valore. La verità è che solo con una gestione integrata dei rischi si può offrire un valido supporto al presidio dei processi aziendali. E questo perché quando si evidenziano gli ostacoli alla riuscita di una attività in corso, si dà vita ad un sistema strategico di controllo».

 

D: Ma chi fa l’auto-diagnosi? Quali competenze e caratteristiche deve possedere?

R: «Il risk manager. Normalmente si stratta di una persona e di uno staff interno all’azienda, di cui deve conoscere il più piccolo meccanismo, di cui deve sapere tutto. Quanto dista il fiume, la discarica o la faglia geologica; che percorso fa la merce, per terra, per aria e per mare; che genere di prodotto si realizza e quali siano i problemi che il suo utilizzo può comportare; come sono strutturati i processi e come si svolge la supply chain. Il risk manager è un attento osservatore, un’alta figura professionale che ha come obiettivo primario la cura dell’azienda. Vive con il rischio dentro sé. Dev’essere interno, ma non deve essere una costola di questa o quella funzione. È una figura indipendente e riconosciuta, perché nei singoli dipartimenti si fa l’analisi costi benefici, e di conseguenza sarebbe poco finanziata.  Inoltre è difficile che chi vive nel compartimento abbia una visione di insieme; anzi, impegnato nella routine quotidiana, non riconosce neppure i rischi che riguardano la sua attività. Il risk manager deve essere autorevole e godere di luce propria. E infine deve essere anche un comunicatore, un divulgatore. Perché deve essere in grado di illustrare dei pericoli che non tutti vedono. Quanto alle competenze richieste, sono le più varie: da quelle amministrative a quelle tecniche, da quelle finanziarie a quelle economiche. Non è uno specialista di comparto, perché deve valutare fenomeni molto diversi tra di loro».

 

D: Perché non può essere affidata a terzi esterni all’azienda?

Il processo del risk management

R: «Personalmente, sono contrario: il servizio costerebbe molto e sarebbe svolto e diventerebbe una sorta di assicurazione: invece, deve essere un investimento sul capitale umano della società. E poi, ripeto, il valore aggiunto consiste nel conoscere l’azienda: piccoli particolari restano tali per chi vede le cose da fuori, ma possono consistere in vere e proprie minacce agli occhi di chi è al corrente delle relazioni tra i meccanismi propri di un’azienda particolare».

 

D: In Italia ma non solo da noi, le grandi aziende hanno team appositi che stimano il rischio e valutano strategie, le piccole no. Il 46% delle Pmi ha associato il Risk Management ad una qualche funzione aziendale; l’80% delle restanti non intende fare nulla in proposito. Quali sono gli ostacoli?

R: «Anra porta avanti dal 1972 la cultura del rischio, lavorando per divulgarne l’importanza. Da allora, per molte aziende non è cambiato molto, purtroppo. Si fatica molto a trasmettere l’importanza dei metodi di risk management. Occorre una svolta: la valutazione del rischio va inserita in percorsi codificati per dar vita a metodi razionali di prevenzione. Bisogna anche ammettere che il budget conta: le imprese piccolissime faranno sempre molta difficoltà, sia a reperire il capitale che le risorse umane da destinare alla funzione. Credo che però per la maggior parte delle aziende quella finanziaria sia una scusa, almeno al di sopra di certe dimensioni molecolari».














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