Ecco perché i cobot stanno conquistando il mondo

di Chiara Volontè ♦︎ Seppur ancora minoritari sul totale delle installazioni (meno del 5% complessivo), i robot collaborativi sono cresciuti a doppia cifra lo scorso anno. Entro il 2030 il mercato varrà quasi 12 miliardi se si considera solo il valore dell’hardware o 24 miliardi contando anche l’indotto. I motivi? Flessibilità, riduzione dei costi, facilità d’impiego. Vizi (pochi) e virtù (moltissime) spiegati da Alessio Cocchi, country manager Italia di Universal Robots

Tecnici robotici che svolgono in fabbrica le mansioni più ripetitive e noiose, per lasciare ai colleghi umani gli incarichi più divertenti e ad alto valore aggiunto… No, non è un plagio del Ciclo dei robot di Isaac Asimov e delle celeberrime “Tre leggi della robotica” partorite dalla mente dello scrittore, bensì lo scenario sempre più comune degli stabilimenti industriali, dove è sempre maggiore la presenza dei cobot a fianco del lavoratore. Si tratta di robot collaborativi, piccoli bracci sensorizzati in grado di interagire fisicamente con gli esseri umani in spazi di lavoro condiviso, che grazie a telecamere e sistemi anticollisione coordinano la propria azione con quella degli operatori. Per il momento si tratta di una “nicchia” di mercato che vale poco meno del 5% del totale delle installazioni (ne parliamo qui), ma che registra un costante trend di aumento della diffusione, diversamente dalla robotica tradizionale che già prima del Covid aveva iniziato a dare segni di stanchezza con una flessione del 12% per quanto concerne il numero di nuove installazioni.

I cobot sono dunque un vero e proprio esercito, ancora piccolo ma destinato a crescere, secondo il Research and Markets di Dublino, a un ritmo medio annuale del 39,8% fino al 2027, e che sta già rivoluzionando l’automazione di fabbrica, tanto da rappresentare un fattore anticiclico. Nel 2019, infatti, a fronte del brusco calo delle vendite globali dei robot industriali (dovuto in primis ai problemi dell’automotive, mercato di maggior sbocco), i cobot hanno registrato un incremento dell’11%. Il mercato dei cobot diventerà sempre più importante nei prossimi dieci anni. Un’analisi della società di consulenza Abi Research rileva che le vendite di bracci robotici collaborativi raggiungeranno gli 11,8 miliardi di dollari entro il 2030, con un significativo aumento rispetto ai 711 milioni di dollari del 2019. Un valore che lievita ulteriormente se si tiene in considerazione anche delle entrate legate al software e agli accessori Eoat end-of-arm tooling, utensili da presa e lavorazione per montaggio su braccio). Con questa definizione più ampia del mercato, l’ecosistema dei cobot vale poco più di 1 miliardo di dollari nel 2019 e varrà 24 miliardi di dollari entro il 2030, con una crescita media annua del 28,6%. Ed è solo l’inizio, perché fra pochi anni i cobot saranno molto, ma molto, più intelligenti e non avranno bisogno di un linguaggio di programmazione specifico. Si va dunque sempre più verso un’ottica “Plug and play” in cui il tempo di installazione si riduce sempre di più.







«Il cobot è flessibile, implementabile in poco tempo e aiuta le imprese manifatturiere ad essere competitive e ad automatizzare i propri processi. Unisce il meglio dei due mondi: l’uomo che è presente e che sfrutta le sue qualità di analisi complessa, problem solving, creatività e il robot che lo aiuta in alcune attività sollevandolo dai compiti più ripetitivi e pesanti. Ma un cobot è molto più di un aiutante: non solo può essere utilizzato in modalità collaborativa, di fatto vicino all’uomo, ma anche in quella completamente automatica, in zone non presidiate dall’operatore, che vi accede ogni tanto. Il robot collaborativo rende possibile entrambe le modalità». A parlare è Alessio Cocchi, country manager per l’Italia di Universal Robots, player della robotica specializzata unicamente in cobot, che ci conferma quanto dicono i numeri: la robotica in fabbrica è ormai un trend irreversibile e inarrestabile. E non adeguarsi ai nuovi standard è sempre più rischioso per le aziende, che rischiano di non riuscire più a recuperare il gap con le realtà più all’avanguardia. Ma, si sa, automatizzare un plant è costoso e nonostante gli incentivi non sempre la piccola e micro impresa riesce a far fronte ai costi. Ed è qui che i cobot tornano protagonisti: costi contenuti di installazione e facilità di programmazione fanno del robot collaborativo il vessillo dell’automazione democratica.

Con i cobot entrano in scena macchine la cui prerogativa è la flessibilità, grazie anche alla semplicità con cui è possibile programmare questi oggetti. Normalmente, una macchina utilizzata in cicli di verniciatura o di saldatura all’interno di una grande catena di montaggio veniva programmata per un certo tipo di sequenza fino all’esaurimento del ciclo di vita. La robotica collaborativa è invece per lo più pensata per integrare operazioni di lavoro diversificate, per tipologia e per volumi

Cobot, vessillo dell’automazione democratica

Il cobot Ur16e di Universal Robots. Per il momento il cobot rappresenta una “nicchia” di mercato che vale poco meno del 5% del totale delle installazioni, ma che registra un costante trend di aumento della diffusione

Sicuramente il cobot è pensato – anche – per aiutare le pmi a robotizzare il plant, per renderlo più flessibile con delle spese facilmente gestibili. «Sono convinto che saranno i cobot a rendere più democratica l’automazione – ci spiega Cocchi – Noi abbiamo inventato il cobot nel 2005 quando Universal Robots è stata fondata, e all’epoca più che di collaborativo si parlava di robot flessibile adatto alle pmi: è questo il nostro concetto di robot. L’estrema semplicità del software e la capacità di autoapprendimento erano proprio mirate ad aiutare la imprese più piccole che non avevano grande capacità di automazione: né di acquistarne, né di averne una più snella, semplice e gestibile che gli consentisse anche maggior ricavi e un Roi più breve. Nel nostro mercato la maggior parte delle unità vendute sono state implementate nelle piccole e medie imprese. Abbiamo tante unità robot installate anche nei settori automotive, food e pharma: si tratta di industry con maggior budget disponibile, in grado di utilizzare massivamente i robot, dotate di linee che integrano parecchie decine di cobot. Ma abbiamo anche tanti clienti, specialmente qui in Italia, che hanno tra i 10 e i 15 dipendenti e che hanno voluto acquistare un cobot: in questi casi viene usato perlopiù come strumento di produzione flessibile, che aiuta l’azienda a ottenere produttività ed essere più competitiva a livello di costi e efficienza dei processi produttivi».

Infatti il cobot oltre a sgravare il collega umano dalle incombenze più meccaniche e noiose garantisce anche più qualità, perché ripete un task in maniera costante: quindi se opportunamente programmato fa sì che anche il prodotto ne benefici. Ma non sono solo i costi contenuti a fare del robot industriale uno strumento di automazione democratica perché, come abbiamo accennato all’inizio, uno dei plus indiscussi di questo strumento di lavoro è la facilità di programmazione: è l’operaio stesso che diventa programmatore, rendendo la cobotica alla portata di tutti. Basta formare l’operatore, coinvolgendolo tramite training e corsi, e il gioco è fatto. Infatti il cobot sfrutta una modalità semplificata di programmazione, paragonabile all’approccio della lean robotica: non devo avere già un’automazione ottimale con il cobot, ma inizialmente mi accontento, per esempio, di ridurre il tempo di una determinata mansione. In questo modo si favorisce la velocità di installazione e di produttività, alla ricerca della condizione ottimale che può essere raggiunta evolvendo in corso d’opera. Ma almeno sono partito, e porterò il mio cobot a pieno regime migliorando i processi in corso d’opera. E in futuro, tramite il “teach by doing”, il robot collaborativo apprenderà dall’esempio umano, osservando il comportamento degli operatori. Semplice, no?

 

UR: che cosa fa davvero un robot collaborativo e come si installa

L’Italia sta subendo il fascino dei cobot?

Qbox, celle ad alta automazione dove il controllo qualità – su componenti di piccola, media e grande dimensione, tipicamente in plastica, lamiera e fibra di carbonio – viene eseguito con dispositivi di scansione manipolati da robot e cobot

Secondo manifattura in Europa – dopo la Germania – e settima al mondo, l’Italia vive d’industria e di eccellenze industriali. Ma siamo sicuri che tutte le imprese abbiano capito la portata, in termini di benefici economici e di qualità della produzione, dell’automazione e della cobotica? «Siamo sicuramente un Paese di automazione – chiosa Cocchi –  con una grande tendenza a vedere le novità, ad essere informati sulle innovazioni. Ma poi l’imprenditore cerca sempre di restare nella propria zona di comfort». Rispetto al suo vero potenziale, la cobotica non è che agli albori: ad oggi si sta lavorando per entrare nel ciclo di maturità della tecnologia, ma alcuni approcci culturali sono duri da abbattere, devono essere svecchiati e aggiornati. «Il numero di cobot pro capite in Paesi a più bassa capacità industriale del nostro, come per esempio quelli nel nord Europa, è elevato di quello italiano – prosegue Cocchi – Abbiamo un gap da recuperare, ma gli imprenditori italiani sono molto più illuminati rispetto a qualche anno fa, ora vedono finalmente l’opportunità generata dall’automazione di fabbrica. Anche l’operatore vede che l’apporto umano viene valorizzato, e che il cobot lo sgrava dalle mansioni di basso valore». Il mercato della cobotica nel nostro Paese è sempre più in espansione, le aziende che hanno investito in automazione sono sane e sono cresciute, hanno assunto di più e reso le fabbriche maggiormente flessibili e sicure. Si è affermato il messaggio che il cobot è un aiuto imprescindibile all’interno del plant, e che, a fronte di qualche posto di lavoro perso – quelli a minor valore aggiunto – sul medio e lungo periodo porta benefici.

 

Il cobot in fabbrica

È importante che l’azienda che introduce il cobot vada a stabilire quali sono gli obiettivi: che cosa far fare al robot e quali mansioni lasciare all’operatore. Sarebbe un errore pensare che l’automazione, sia robotica che cobotica, possa sopperire a qualsiasi incarico. Più una fabbrica è robotizzata, più l’attività deve essere pianificata in maniera preventiva. Infatti, i vantaggi che un cobot può apportare alle aziende non risiedono nella semplice collaborazione con gli operatori. Se il tool viene utilizzato per allungare una chiave inglese ad un operaio o per afferrare un componente e sistemarlo in una scatola, di per sé il valore aggiunto del device è molto limitato. Se invece viene inserito in un contesto che consenta ad un tecnico di liberarsi di incombenze ripetitive per svolgere un insieme di attività significative, anche attinenti a questioni di cui non si era mai occupato, allora l’azienda guadagna in flessibilità e produttività. Per far ciò, però, occorre una seria ripianificazione dei processi, un’analisi delle attività di fabbrica. Conviene procedere per segmenti, esaminando l’attività che viene normalmente eseguita nelle diverse fasi, e focalizzando la propria attenzione su tutte le operazioni a basso o a zero valore aggiunto svolte dal personale.

Così, ci si accorge che un operatore compie un insieme di azioni, ad esempio spostare dei componenti, raccogliere degli utensili e inserire guarnizioni di gomma, che possono essere eliminate, o meglio, realizzate da una macchina. Una volta identificate le fasi “deficitarie”, occorre fare altre valutazioni. Ci sono, ad esempio, attività routinarie che il cobot potrebbe svolgere solo se assistito da costose tecnologie, come i sistemi di visione 3D. Bisogna vedere se l’attribuzione di tali task al robot collaborativo sia economicamente conveniente. A questo punto, si può ridisegnare i processi, sia in vista delle qualità del cobot che di quelle della persona. Quanto al robot collaborativo, è riprogrammabile, funziona a 220 volt e pesa poco. Se ne può, cioè, immaginare l’uso in contesti diversi, e si può anche studiare una strategia che preveda una temporanea operatività in una fase (ad esempio, il pick&place), per poi essere utilizzato in un’altra (ad esempio, manipolazione di componenti). Quanto all’umano, essendo intelligente può intervenire in più contesti che richiedano conoscenze non trasmissibili al robot, o anche doti decisionali o creative. Si deve cercare di sommare i vantaggi di una duplice flessibilità, quella materiale della macchina e quella intellettuale della persona. Si tratta di una metodologia che cambia tutto, dall’organizzazione ai flussi di materiali e agli approvvigionamenti sulla linea.

UR: vista e udito dei Cobot e le loro conseguenze sull’industria

Cobotica e industry

Gli utilizzi dei cobot Universal Robots. Il cobot è flessibile, implementabile in poco tempo e aiuta le imprese manifatturiere ad essere competitive e a automatizzare i propri processi. L’uomo è presente e sfrutta le qualità di analisi complessa, problem solving, creatività, e il robot lo aiuta in alcune attività sollevandolo dai compiti più ripetitivi e pesanti

II primo a interessarsi ai cobot è stato il settore automotive, grazie alla maggior possibilità di budget e di investimenti e all’attenzione verso le ultime tecnologie. «Ad oggi il mercato della cobotica non è ancora maturo, se lo si considera a livello globale, ma rappresenta una nicchia in forte e continua espansione». Un vero e proprio boom dei cobot, non solo perché sempre più aziende hanno accesso a questo tipo di automazione, ma anche perché ormai anche a livello culturale chiunque lavori in ambito industriale conosce i cobot, e questo fa sì che ci siano sempre più richieste di implementazione. «Universal Robots cerca di agevolare le imprese che desiderano dotarsi di cobot – continua Cocchi – anche tramite strumenti finanziari come il noleggio operativo e il leasing, che consentono anche alle pmi, grazie a condizioni finanziare agevolate, di ottenere i cobot attraverso piccole rate mensili».

E una spinta alla cobotica, e in generale all’automazione di fabbrica, è arrivata anche da quel cigno nero che lo scorso anno ha stravolto il mondo del lavoro, imponendo quel distanziamento sociale che ha favorito l’utilizzo del robot industriale: perché nello spazio in cui prima del Covid potevano lavorare due dipendenti, ora magari lì può operare solo uno. Ed ecco che il cobot diventa l’unica soluzione, nonché il solo collega, indistintamente per ogni industry. In questo momento i cobot aiutano con le distanze sociali ma, stando a quanto riporta Gartner, i robot collaborativi saranno anche un vantaggio per la produttività post-pandemia. Senza dimenticare che l’incertezza produttiva legata al Coronavirus ha fatto sì che imprenditori e manager abbiano automatizzato i processi produttivi per essere più pronti e autonomi qualora ci fossero necessità anche di mantenere la fabbrica produttiva e controllata da remoto. Proprio la pandemia ha evidenziato a determinati comparti l’utilità dei cobot, come per esempio all’e-commerce, a cui Covid-19 ha dato un enorme impulso. Spinta che ha dato anche alle aziende di beni di consumo, che hanno aumentato le scorte di riserva di circa il 5%. Per contrastare questo problema, le aziende stanno acquistando cobot da utilizzare nei magazzini, realizzati da aziende come GreyOrange e Kiva (che Amazon ha acquisito nel 2012 per supportare la realizzazione dell’e-commerce).

 

Come cambia la sicurezza se ci sono i cobot in fabbrica?

Alessio Cocchi, country manager Italia di Universal Robots

Il cobot è entrato prepotentemente nelle agende di tutte le industrie che vogliano garantire sicurezza ai propri lavoratori sia in ottica di distanziamento sociale, sia per quanto concerne la gestione di uno shopfloor in cui minimizzare le occasioni di infortunio. La sicurezza, d’altronde, è uno dei temi focali che hanno dato vita ai cobot stessi, che sono per definizione meno performanti e meno efficienti dei robot industriali, ma che garantiscono un’interazione sempre più efficace tra operatore e macchinario. L’approccio collaborativo, dunque, è a tutto tondo, in cui la sicurezza del lavoratore deve essere garantita a prescindere e senza l’ausilio di dispositivi esterni. Se con l’avvento di Industria 4.0 si è cercato di rendere definitivo questo nuovo paradigma, l’accelerata definitiva è arrivata “grazie” al Covid. Il cobot è intrinsecamente sicuro in quanto ha dei controlli duali che permettono di monitorare i movimenti del tool, e inoltre l’utente può configurare la sua sicurezza in relazione alle mansioni che il robot collaborativo deve svolgere.

Il cobot Coral di Fraunhofer Italia

«Tutte le applicazioni si devono affrontare partendo dall’analisi dei rischi – afferma il numero uno di UR in Italia – quindi va analizzato non solo quello che il robot fa, ma la cella nel suo complesso considerando che – anche se il cobot è sempre collaborativo – integrare un utensile al polso può comportare rischi per l’operatore che vanno opportunamente gestiti programmando le safety native. Eventualmente si possono aggiungere device di sicurezza esterna, come ad esempio laser scanner o sensori». Il cobot si basa sul concetto di dinamica: percepisce l’urto perché possiede il tatto che un robot industriale non ha, è in grado di avvertire un urto passivo in caso di contatto contro un’attrezzatura o contro una persona. In questo caso, tramite algoritmi di controllo, il cobot si ferma immediatamente senza di fatto arrecar danno all’operatore. «Io posso programmare l’intensità dell’urto – conclude Alessio Cocchi – dal più forte al più soft sono io che imposto la sensibilità del mio cobot a seconda di come voglio che lavori». Dunque, se situato in un’area della fabbrica dove non c’è personale, il robot collaborativo può lavorare con performance maggiori di processo: in questo caso un urto con un operatore sarebbe sicuramente brusco. Mentre dove è frequente che si trovi l’operaio, il robot può essere programmato con dei livelli di sicurezza più fini, tali per cui anche con pochi grammi di pressione si possa fermare.














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