I progetti futuri di Cassa depositi e prestiti nell’area del venture capital

di Laura Magna ♦︎ La view dell'ad Fabrizio Palermo. Le prossime mosse del Fondo Nazionale Innovazione diretto da Enrico Resmini e l'utilizzo dei 200 milioni di finanziamento stanziati dal Decreto Rilancio. La collaborazione con Innois. E che cosa dovrebbe fare il Paese per usare questa potente leva di crescita

Il venture capital può diventare un asset portante dello sviluppo economico italiano. Ma servono due ingredienti imprescindibili: investimenti massicci – anche pubblici – per raggiungere massa critica e una nuova cultura del fallimento che in Italia (ma anche in Europa) è visto come uno stigma sociale. Mentre è l’anticamera di ogni impresa di successo. Sul fronte del capitale disponibile molti passi avanti sono stati compiuti. A inizio 2020 è partito ufficialmente il Fondo nazionale innovazione (tramite la creazione di Cdp Venture capital Sgr, partecipata al 70% da Cdp equity e al 30% da Invitalia) con un patrimonio iniziale di un miliardo di euro da investire in innovazione attraverso i veicoli del venture capital. Il 23 novembre scorso è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto attuativo del Mise che regola l’impiego degli ulteriori 200 milioni di euro destinati dall’articolo 38 del decreto Rilancio a favore del veicolo di Cassa Depositi e Crediti. Il ruolo di Cdp è quello di fare da cabina di regia di questo nuovo corso dell’innovazione in Italia con «l’obiettivo di riunire e moltiplicare risorse pubbliche e private dedicate al tema». Il fondo ha investito a oggi 140 milioni di euro su oltre 240 progetti.

«Quello su cui è necessario lavorare ora è una nuova cultura di impresa, che si rifletta anche sul vc: in Italia appaiono entrambi eccessivamente avversi al rischio», dice Enrico Resmini, Amministratore Delegato e Direttore Generale del Fondo Nazionale InnovazioneCdp Venture Capital Sgr. «Se non si accelera su questo fronte culturale rischiano di trasformare non solo l’Italia, ma tutta l’Europa in un museo, mentre il resto del mondo avanza ed evolve», secondo Martìn Varsavsky, tra i più importanti venture capitalist al mondo, professore e imprenditore seriale che ha fondato otto società negli Stati Uniti e in Europa negli ultimi 30 anni. Tra cui, nel 2015, Prelude Fertility/Inception, ora la più grande catena di cliniche per la fertilità negli Stati Uniti (di cui è tuttora presidente). O, nel 2017, Overture Life, incentrato sull’automazione del laboratorio di embriologia.







 

La R&S si sposta sempre più oltre i confini della corporate (ma non in Europa)

Enrico Resmini, Amministratore Delegato e Direttore Generale del Fondo Nazionale Innovazione – Cdp Venture Capital Sgr

I due protagonisti hanno parlato di questi temi nel corso di un webinar nato dalla collaborazione tra Innois e Cdp Venture Capital Sgr – Fondo Nazionale Innovazione. E le conclusioni che hanno tratto sono lezioni da tenere a mente per lo sviluppo futuro dell’ecosistema dell’innovazione nel Vecchio Continente. «Le grandi imprese italiane ma anche le grandi corporation europee hanno l’atteggiamento di costruire da dentro le innovazioni, abitudine che per esempio l’Asia ha ribaltato negli ultimi 15 anni. Anche per le corporate consolidate, per esempio la giapponese Toyota: la cui R&S era interamente interna e oggi è al 70% open innovation», dice Resmini. «Ed è una necessità determinata dal mutamento del ciclo tecnologico dei prodotti: fino a dieci anni fa era lungo e le imprese avevano tutto il tempo di studiare, sviluppare e ripensare tutta la tecnologia, oggi le disruption tecnologiche arrivano con un ciclo vita rapidissimo e per stare al passo in maniera sincronizzata si deve investire o partecipare a programmi di incubazione e accelerazione. Gli strumenti sono tanti a disposizione delle aziende. Finora sono mancati i fondi per investire, ma temo che in Italia ci sia un tema culturale di avversione al rischio».

 

La generazione del dopoguerra mai eguagliata: perché?

Ed è proprio l’avversione al rischio che fa sì che «la generazione di imprenditori geniali italiani del Dopoguerra non abbia avuto seguito», sostiene Varsavsky. «C’è un tema di fondi, perché all’estero ci sono tanti imprenditori italiani che sono riusciti a realizzare i loro business trovando investitori che in Italia non c’erano. Ma anche per altre ragioni. Prima fra tutte il sistema regolatorio: le leggi non sono efficaci sul mondo start-up. E poi c’è un tema di rapporto tra datore di lavoro e impiegato che non è fluido ma ingessato. Le start-up sono un sistema invece estremamente dinamico di trial and error. Ci sono poche persone disposte a rischiare tutto per fare queste prova. E tuttavia è più probabile che un investitore punti su qualcuno che ha provato e non è riuscito che in uno che ha già provato». Quello che in Italia non mancano sono invece le competenze tecnico scientifiche.

 

Italia: una macchina da guerra che ha paura del fallimento

Fabrizio Palermo, amministratore delegato di Cdp

«L’Italia produce più di 120mila pubblicazioni scientifiche all’anno, siamo il terzo paese al mondo per pubblicazioni accademiche. Una macchina da guerra, ma il ricercatore vede la sua vita inquadrata in una carriera accademica e difficilmente va oltre», sostiene Resmini. «Fare l’imprenditore è una cosa diversa, ma incentivare quel tipo di carriera bisogna creare la cultura del rischio anche presso i ricercatori. Poi certamente i tradizionali fondi italiani dedicati al trasferimento tecnologico avevano un aum da 50-70-80 milioni: che, per esempio nelle life science, non bastano. Oggi almeno sul fronte pubblico le cose sono cambiate: c’è a disposizione mezzo miliardo per il trasferimenti tecnologico e noi stessi abbiamo lanciato fondo dedicato da 200 milioni. Serve anche altro però: creare delle storie di chi ce l’ha fatta ma anche di chi ha fallito. In Italia esiste un forte stigma sociale sul fallimento ed è qualcosa che andrebbe rimosso».

 

La creazione di start-up somiglia al processo di scoperta scientifico

Perché il fallimento è alla base delle storie imprenditoriali di maggior successo. E allora, come si crea una cultura del fallimento? Innanzitutto rimuovendo lo stigma sociale: spiega Varsavsky che «per fallire bene bisogna avere una legge sul fallimento. Lo stigma sociale in Italia dipende dal fatto che se si fallisce sul piano personale si diventa dei perseguitati, ma se accade durante il processo di fondazione di una start-up è un vantaggio. Le idee che non vanno bene lasciano in eredità idee che possono essere usate per il successo». L’esempio è tratto dalla realtà: Daniel Lubetzky, il miliardario messicano di origine lituana che ha fondato la società degli snack salubri Kind, venduta nel corso di quest’anno a Mars per 5 miliardi di dollari. Nei venti anni precedenti ha lanciato prodotti che sul mercato non sono andati bene. «Allora i cinque miliardi li ha guadagnati quando ha venduto la sua start-up o nei venti anni precedenti? Si impara più dalle cose che non vanno bene che da quelle che vanno bene. La cultura italiana è meno preparata, per la connotazione quasi criminale sul fallimento. Si deve capire che non è quello. Il fallimento di chi fa impresa è simile a quello di chi fa scienza: fai esperimenti che non funzionano e ne fai oggetto di paper che ispira ulteriori evoluzioni». Pensiamo anche all’ultimo premio Nobel per la chimica assegnato a Emmanuelle Charpentier e Jennifer A. Doudna per la tecnologia Crispr-Cas9 nell’ambito dell’ingegneria genetica: la tecnologia è utilizzata nei laboratori di tutto il mondo dal 2012. Ci sono voluti otto anni di errori per arrivare sul tetto del mondo.

 

Anche i vc sono avversi al rischio

Martìn Varsavsky, venture Capital e imprenditore seriale, ceo Prelude Fertility/Inception

Ma in Italia, suggerisce Resmini, «non solo gli imprenditori hanno paura di fallire ma anche gli investitori che tengono in vita l’investimento anche quando è chiaro che non ha un futuro. Si dice che un fondo di vc per almeno il 30-40% debba fallire, e per una quota equivalente finisce in pareggio: solo il 20% fa il ritorno esponenziale che lo rende redditizio. Eppure quando parlo con i nostri venture, ho l’impressione che loro continuino a investire nell’intero portafoglio perché le partecipazioni sono tutte buone».

La resistenza al fallimento è in realtà «propria degli investitori europei – aggiunge Varsavsky – ed è interessante perché i tassi di risparmio sono alti, in particolare in Germania (come in Italia) dove questo dato si scontra con la mancanza di investitori e tanti fondi Usa investono in Germania perché hanno trovato un vuoto, lasciato dagli investitori tedeschi che hanno tanto capitale e paura di perdere. È una psicologia mutuata dalla guerra, probabilmente». Che si riflette nell’approccio. Il caso Tesla è emblematico in questo senso. Tesla oggi vale 520 miliardi di dollari, mentre l’insieme delle case auto europee, tra cui Fca, Peogeuot, Bwm, 370 miliardi. Che cosa vedono gli investitori? «Dipende: quelli Usa vedono che l’automotive ancora dominato dagli europei, è destinato a cambiare. E possono scommettere e aspettare dieci anni. Gli investitori in tecnologia pensano a quello che accadrà tra dieci anni. È un tipo di immaginazione che manca dappertutto in Europa e siamo noi che dobbiamo cambiare e immaginare questo futuro perché se non lo facciamo l’Europa diventa un museo. È vero che in Italia i Musei vanno bene, ma si tratta di costruire il futuro», spiega Varsavsky.

Il tema è certamente legato alla maturità del sistema. «Il venture negli Usa è molto maturo e gli investitori hanno i nervi saldi», conclude Resmini. «Tesla in perdita, anche se costruisce il futuro, da disinvestire gli europei; gli americani invece pensavano fosse questione di tempo. Crea una cultura del Vc è una delle missioni del Fni. Da un lato dobbiamo trovare le startup giuste e i fondi giusti in cui investire e dall’altro generare consapevolezza, contribuire a questa nuova forma di imprenditorialità, per far sì che gli investitori che guardano all’Italia, non lo facciano solo con gli occhi di chi vede il Paese del food e dei musei appunto, ma anche al Paese delle 12mila start-up nella quali si può trovare valore».














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