Lavazza: lo sviluppo sostenibile diventa espresso

Espresso Lavazza
Espresso Lavazza

di Danilo Devigili  ♦ La sostenibilità ha smesso da tempo di essere un concetto etico per diventare una strategia di business totalmente finalizzata alla produzione di valore. Il suo rapporto con l’innovazione è molto stretto, come dimostra il caso Lavazza.

Era il 1987 quando è stato coniato  il concetto di sviluppo sostenibile dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (Wced) per volontà della vice presidente Gro Harlem Bruntland: “Uno sviluppo che soddisfa  i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri” (Wced,1987). Da allora, la cultura manageriale ha cominciato a confrontarsi sempre più col tema della responsabilità sociale d’impresa che ha dato una spinta all’innovazione dei modelli di business, dei prodotti e dei servizi.







Fase 1: la ricerca di una buona reputazione

Inizialmente le imprese, messe sul banco degli imputati per i danni che uno sviluppo indiscriminato comportava a società e ambiente, hanno risposto soprattutto con iniziative volte a riaffermare la legittimazione a operare e costruire una buona reputazione. Nel 1984 R. Edward Freeman pubblicava Strategic Management: A Stakeholder Approach, nel quale proponeva una visione dell’impresa non più dominata dagli azionisti, ma con responsabilità verso una serie di stakeholder (o portatori d’interesse) rappresentati da tutti quei soggetti impattati dall’attività economica: clienti, fornitori, finanziatori, collaboratori, gruppi di interesse locali, Ong, amministrazione pubblica, eccetera. Le innovazioni introdotte hanno interessato soprattuto i processi di comunicazione delle aziende, che hanno sviluppato forme di ascolto e dialogo con gli stakeholder, la pubblicazione dei primi rapporti ambientali o la costituzione di fondazioni d’impresa per restituire al territorio parte della ricchezza creata.

Green Economy
Green Economy

Fase 2 : la compliance normativa

Gli anni Novanta sono stati caratterizzati da un forte spinta normativa, obbligatoria e volontaria, per disciplinare processi e prodotti sostenibili con l’obiettivo di renderli più oggettivi e, quindi, certificabili. Nel 1992 è nato Ecolabel, il marchio europeo di qualità ecologica che oggi identifica oltre 36mila prodotti e servizi virtuosi dal punto di vista ambientale. È del 1993 Eco-Management and Audit Scheme (Emas): uno strumento volontario creato dalla Comunità Europea per valutare e migliorare  le prestazioni ambientali di imprese e organizzazioni. Nel 1994 è stata istituita l’Agenzia Nazionale per la Protezione dell’Ambiente. Nel 1996 è stata pubblicata la prima versione della norma Iso 14001, che fissa i requisiti per un sistema di gestione ambientale: nel 2014 erano 324.148 i certificati emessi a livello mondiale. In questi anni le imprese si concentrarono principalmente sull’innovazione di processo, per ridurre gli impatti connessi ai cicli produttivi, ottemperare ai requisiti imposti dai vari sistemi di gestione ambientale e ottenere le rispettive certificazioni.

Fase 3: la pianificazione della sostenibilità

Nel 2006 un guru del management aziendale come Micheal Porter è entrato nel dibattito. Con Mark Kramer pubblica su Harward Business Review un articolo intitolato The Link Between Competitive Advantage and Corporate Social Responsibility, in cui sottolinea i vantaggi in termini competitivi dell’integrazione tra questioni sociali e business. In questo articolo Porter propone un paradigma manageriale che si basa sulla mappatura degli impatti sociali lungo tutta la catena del valore, spingendo le imprese a integrare i propri piani strategici con pratiche in grado di sfruttare le opportunità derivanti da queste connessioni. Un esempio è costituito dagli sforzi per la riduzione dei packaging, che si traduce in risparmi per l’azienda e in minori rifiuti da smaltire. Oppure la riduzione dei consumi energetici, che abbassano i costi di produzione e le emissioni di Gas Serra o, ancora, in campagne di cause related marketing, che aumentano le vendite e sostengono cause sociali. Nel 2011 Porter ha sviluppato ulteriormente il ragionamento proponendo un nuovo concetto, la creazione di valore condiviso, il quale può essere definito come l’insieme delle politiche e le pratiche operative che accrescono la competitività di un’azienda e allo stesso tempo migliorano le condizioni economiche e sociali all’interno delle comunità in cui opera. Concretamente nelle imprese queste teorie si sono tradotte nella nascita di un nuovo ruolo, il Csr Manager, chiamato a sviluppare, pianificare, gestire e comunicare le politiche di corporate social responsibility, in una logica sempre più integrata coi piani strategici.

I risultati di questa evoluzione trovano riscontro in alcune recenti ricerche. Secondo il VII rapporto sulla Csr, in Italia otto imprese su dieci con più di 80 dipendenti hanno attivato politiche di responsabilità sociale d’impresa e gli investimenti nel 2016 hanno raggiunto 1,122 miliardi di euro, il dato più alto degli ultimi 15 anni. Infine, secondo uno studio condotto da EY su un campione di 110 aziende di medio grandi dimensioni, 48 pubblicano un report integrato o un bilancio di sostenibilità, mentre 12 inseriscono le informazioni di sostenibilità nella relazione di gestione.

Green economy
Green economy

Fase 4: la green ocean strategy

Tutto questo però non basta. Malgrado lo sviluppo che le politiche e i progetti di sostenibilità hanno conosciuto in questi ultimi trent’anni, il pianeta sta sempre peggio. Stefano Pogutz, docente ricercatore al dipartimento di Management e Tecnologia della Bocconi, in un recente articolo cita alcuni studi e ricerche in cui si sostiene la tesi che, per alcuni parametri con cui si monitora lo stato della Terra, si sono già superati i valori soglia. In particolare, per cambiamento climatico, perdita di biodiversità e ciclo dell’azoto, con l’insorgenza di rischi connessi alla riduzione della capacità di resilienza del pianeta. Questo accade fondamentalmente per due ragioni: lo sviluppo industriale che interessa nuove e vaste aree del pianeta, come Cina , India, Brasile, e la concentrazione degli sforzi per la riduzione degli impatti all’interno dei confini aziendali. Focalizziamoci su quest’ultimo aspetto. Secondo i dati riportati nell’articolo di Pogutz, appare evidente che l’attività manifatturiera è responsabile in minima parte degli impatti. Eclatante è il caso di Puma, dove solo il 6% degli impatti ambientali si genera nelle fasi di produzione e logistica gestite direttamente dall’azienda, mentre il 57 % è riconducibile all’estrazione e produzione delle materie prime (Meyers e Waage 2014). Per prodotti come gli shampoo e i detergenti, oltre il 65% degli impatti sono connessi alla fase di consumo e smaltimento.

Sfida Blu

La sfida, pertanto, si gioca a monte o a valle dei cicli produttivi, e per questo non basta più l’approccio per processi  secondo la catena del valore, è necessario un nuovo paradigma mutuato dalla Strategia Oceano Blu: la Green Ocean Strategy. In tale accezione la sostenibilità può diventare uno stimolo per l’Innovazione di Valore, colonna portante della strategia Oceano Blu spostando l’attenzione dalla battaglia per superare i concorrenti a quella per la creazione di nuovi spazi di mercato. Il punto di intersezione tra Oceano Blu e la sostenibilità , che li differenziano dalla visione strutturalista dell’approccio basata sul perseguimento del vantaggio competitivo, è nella comune convinzione che, confini di mercato e struttura di settore non sono dati, ma che possano essere ridefiniti e modificati dalle azioni e dai comportamenti dei soggetti che agiscono nel contesto. Anche lo sviluppo sostenibile per essere veramente incisivo deve ridefinire i modi con cui vengono soddisfatti i bisogni: per esempio, passando da una logica di produzione lineare a quella circolare, in cui i rifiuti non esistono, sono materia prima per un altro processo produttivo. Significa passare dalle energie fossili a quelle rinnovabili, oppure a concepire prodotti fatti per essere completamente riciclati, passare dalla logica del possesso a quella dell’uso o ancora sviluppare iniziative di Impact Entrepreneurship destinate a rendere accessibili prodotti e servizi ai consumatori del Sud del Mondo. Nei casi riportati di seguito troviamo alcuni esempi di innovazione di valore sostenibile

Progetto Caffè circolare
Progetto Caffè circolare

Il progetto Caffé circolare

Uno dei più recenti progetti di Lavazza dimostra lo stretto legame tra sostenibilità, innovazione e creazione di valore economico. Il caffè, con una produzione di circa 7 milioni di tonnellate, è ai primi posti come valore nel commercio internazionale, come il petrolio e l’acciaio (Fonte Osservatorio Internazionale Food –Beverage-Equipment). In un mercato maturo come quello Italiano, il settore del «porzionato» è cresciuto negli ultimi anni a doppia cifra (fonte Iri). Tutto questo dinamismo, se da un lato fa bene all’economia ha notevoli impatti ambientali, in quanto le capsule  esauste, se si ragiona in una logica lineare produzione-consumo-smaltimento, diventano un rifiuto destinato alla discarica o all’inceneritore. Applicando, invece, il principio dello zero waste dell’economia circolare, secondo il quale niente è rifiuto, ma torna a essere risorsa con grandi benefici per l’ambiente, Lavazza e Novamont hanno messo a punto una capsula che può essere raccolta con il rifiuto umido ed avviata al compostaggio industriale, dove capsula e caffè esausto vengono riciclati insieme in compost, concime naturale per i suoli. Questo è reso possibile grazie a Mater-Bi, famiglia di bioplastiche biodegradabili e compostabili sviluppate da Novamont grazie alla trasformazione di amidi, cellulose, oli vegetali e loro combinazioni. Il progetto è stato avviato nel 2008 con partner d’eccellenza come il Politecnico di Torino, l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e Novamont, e lavora sull’analisi dei fondi di caffè, rilevando come la loro composizione possa innescare un processo di rigenerazione che dà vita a nuovi materiali come biopolimeri, inchiostri, pellet, carta e funghi commestibili. Proprio i funghi sono stati la produzione cui, durante Expo, si è dedicata la sperimentazione di Lavazza e Novamont in collaborazione con Amsa, la municipalizzata milanese, e l’impresa sociale Il Giardinone. Il risultato è stato sorprendente: da settembre sono stati raccolti 1.500 chilogrammi di fondi di caffè Lavazza e prodotti 150 chilogrammi di funghi (Pleurotus ostreatus) di eccellente qualità.

La sperimentazione ora è passata alla fase industriale con lo sviluppo di una linea dedicata alla produzione di capsule compostabili che sono acquistabili in esclusiva sullo store online del sito Lavazza e compatibili con tutta la gamma di macchine A Modo Mio. La capsula compostabile è disponibile nelle due miscele 100% Arabica Ricco e Aromatico, certificate dall’Ong Rainforest Alliance.

Lavazza, Capsule riciclabili
Lavazza, Capsule riciclabili

Impacto positivo

Diverso, e complementare, il caso di E4Impact Foundation. Nel mondo ci sono alcuni miliardi di persone che si stanno affacciando all’economia di mercato per soddisfare i loro bisogni primari. Per andare incontro alle loro esigenze è necessario innovare i modelli di business rendendoli più accessibili, come per certi versi è accaduto in occidente con le società low cost. Questo rappresenta un’incredibile opportunità di crescita, sia per le imprese che per le persone le quali potranno migliorare sensibilmente la loro qualità di vita. È già accaduto nel settore bancario, grazie alla Grameen Bank del premio Nobel Muhammad Yunus, inventore del micro credito, modello adottato in tutto il mondo che ha contribuito a togliere dalla povertà centinaia di milioni di persone. Sta accadendo nel settore dell’energia con le microgrid, sistemi elettrici completi in miniatura, spesso basati su fonti rinnovabili (sole, biomasse, vento) in grado di servire piccole comunità o villaggi.

Joseph Nkandu di E4Impact
Joseph Nkandu di E4Impact

L’Africa, con una popolazione di circa 1,1 miliardi destinata a salire a quota 1,5 miliardi nell’arco di 20 anni e una classe media in forte crescita, alcuni settori sono già in grande sviluppo: agroalimentare, costruzioni, telecomunicazioni, servizi alle imprese. Inoltre, l’Africa è fonte di approvvigionamento di molte materie prime, in particolare alimentari come caffè, cacao, olio, come ben sanno i cinesi, che stanno acquistando chilometri quadrati di terra per assicurarsi un futuro alimentare. In questo promettente contesto, lo sviluppo del continente africano può avvenire in modo tradizionale, conoscendo le storture che noi stessi abbiamo sperimentato e che sono causa di problemi sociali e ambientali, oppure in modo sostenibile, generando valore economico e progresso sociale per la popolazione locale, contribuendo così a ridurre anche il fenomeno delle migrazioni.

Lo ha capito bene la Fondazione E4Impact, nata nel 2015 grazie alla partecipazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, della famiglia Moratti (Securfin), Mapei e Salini-Impregilo, con l’obiettivo di favorire lo sviluppo in Africa di attività economiche ad alto impatto sociale. E4Impact persegue la sua missione, attraverso il Global MBA in Impact Entrepreneurship, diretto a formare una classe imprenditoriale locale in grado di avviare o espandere il proprio business in modo sostenibile. In questo si avvale anche di imprese italiane interessate a esplorare i mercati africani, grazie alla partnership con un imprenditore locale che, frequentando l’Mba, aiuta l’impresa a realizzare i propri progetti di business mettendo a disposizione dell’azienda committente un business plan innovativo adattato alle condizioni del mercato. Sono già centinaia le aziende nate grazie a questo progetto operativo in sette Stati (Kenya, Ghana, Sierra Leone, Uganda, Costa d’Avorio, Senegal e Tanzania) e, visto l’obiettivo di arrivare a 15 Paesi entro il 2020, presto saranno migliaia, con un impatto sociale di cui beneficeranno milioni di persone. Le imprese  si caratterizzano per elementi distintivi che declinano in modo concreto il concetto di sviluppo socio ambientale, come Nucafe, National Union of Coffee Agribusiness and Farm Enterprises, che ha riorganizzato la produzione di caffè mettendo in rete i coltivatori di 19 distretti dell’Uganda, assicurando un incremento di reddito attraverso una migliore qualità del prodotto e la sua trasformazione prima dell’esportazione.

Lezione di business in Africa
Lezione di business in Africa

Imprese modello

Farmer’s Hope è, invece, un’impresa ghanese che produce fertilizzante biologico a prezzi accessibili. Il concetto di accessibilità è alla base anche del modello di Innovation Eye Center , un’azienda di servizi sanitari che offre assistenza e cure oculistiche di alta qualità e a prezzi accessibili alle comunità delle regioni sud-occidentali del Kenya.

Già diverse imprese italiane hanno compreso le potenzialità di questo approccio, non solo multinazionali come Eni o Bracco, ma anche le tradizionali aziende manifatturiere che rappresentano la spina dorsale del nostro sistema industriale: tra queste Sipa, azienda del gruppo Zoppas, specializzata nella produzione di macchine per la creazione di preforme, contenitori in Pet e intere linee di imbottigliamento, Host, impresa che produce detergenti e sanificanti, Sivam, azienda zootecnica, Cst Consulting, impresa di consulenza informatica e Ica, leader nella produzione di macchine automatiche per il confezionamento.

* Senior Manager Climate Change and Sustainability Services at EY














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