Una grande bugia: la proposta del salario minimo legale. Ma il lavoro ben pagato e di qualità si può creare…

di Filippo Astone ♦︎ Gli stipendi sono bassi perché in Italia produciamo poca ricchezza. Rispetto a ciò, il salario minimo legale è inutile. Una beffa. Per creare lavoro di qualità occorre aumentare la produttività del capitale e del lavoro stesso, con nuovi investimenti in tecnologie, in ricerca, in industria. Ci vogliono politiche industriali, sviluppo, formazione; riforme. Bisogna puntare su automazione, robotica, Intelligenza Artificiale, Big Data e Ict, industria aerospaziale. Ma di tutto questo non si parla mai. Perché i progetti a lungo termine non danno dividendi elettorali

Manca poco al 12 di di ottobre, quando il presidente del Cnel Renato Brunetta dovrebbe presentare la propria relazione sul salario minimo legale. Nel frattempo, il 5 ottobre è stato approvato un primo documento di analisi, dal quale emerge l’orientamento a bocciare la proposta per la sua inefficacia, visto che per salvaguardare le pochissime categorie interessate viene ritenuto preferibile agire sui contratti nazionali ed essere maggiormente severi sui contratti pirata. Lo stesso giorno (il 5 ottobre) in cui la prima bocciatura del salario minimo era sulle prime pagine dei quotidiani nazionali, nelle pagine interne del Sole 24 Ore (e solo su quello) veniva data la notiza del piano di assunzioni da parte di Accenture Italia: 4000 persone da reclutare nei prossimi 12 mesi, con competenze in Intelligenza Artificiale, Big Data, Cloud, Infrastrutture IT e Cybersecurity. Notizia molto importante (sia in assoluto, sia per quello che significa), ma enfatizzata sostanzialmente da nessuno. La proposta del salario minimo legale. Il Pd di Elly Schlein, i 5 Stelle di Giuseppe Conte e La Repubblica di Maurizio Molinari la invocano come cura efficace della piaga italiana del lavoro povero e malpagato. E con la bocciatura da parte del Cnel, l’argomento tornerà protagonista ovunque. Sarà oggetto di dibattiti nei talk show e nei vari programmi tv. Verranno pubblicati centinaia di articoli, anche molto seri, su tutti i giornali e le riviste cartacee e online che esistono o che fanno finta di stare al mondo. Ci saranno migliaia di post su Facebook, Twitter, Linkedin, Twitch. Perfino su Instagram e Tiktok. Se ne discuterà alla Camera, al Senato, nei consigli regionali, provinciali, comunali e di quartiere.

Non si parlerà d’altro.







La proposta del salario minimo legale rappresenta una gigantesca presa per i fondelli, inutile a tutto. In Italia salari – e non solo quelli del lavoro povero – sono bassi perché la produttività del lavoro e del capitale è bassa; certo, ci sono tanti casi virtuosi, quelli che finiscono sui giornali, ma nel complesso si investe poco in ricerca, sviluppo e istruzione; si innova poco, il Paese si sta deindustrializzando e il pil è fermo da anni. Per uscire da questi impasse tragici sarebbe necessario un piano a medio-lungo termine di politiche industriali, di innovazione e di istruzione. E non certo una finta contesa sociale con i datori di lavoro, promettendo di aumentare i salari per legge, perdipiù attraverso una proposta che, se anche attuata, non cambierebbe niente. Ci sono almeno quattro aree su cui bisognerebbe puntare, e nel quale l’Italia può vantare dei centri di eccellenza in termini di know-how e capacità produttiva, potenzialmente ottime piattaforme per uno sviluppo significativo: automazione, robotica, macchinari e tutte le tecnologie abilitanti l’industria; Intelligenza Artificiale e il mondo dello sviluppo software avanzato; Big Data, supercalcolo e quantum computing; tutto l’ambito dell’aerospaziale. Forse si potrebbe sperare di far leva anche tutto il settore delle batterie “verdi” e della generazione di energia green, ma il ritardo rispetto ad altri – a cominciare dalla Cina – è talmente ampio che sembra quasi impossibile da recuperare. Senza contare che a livello accademico e scientifico quasi non ci sono nel nostro Paese eccellenze rilevanti in questo campo.

Elly Schlein, segretario del Partito Democratico.
Manca poco alla metà di ottobre, quando il presidente del Cnel Renato Brunetta dovrebbe presentare la propria relazione sul salario minimo legale. Proposta che il Pd di Elly Schlein, i 5 Stelle di Giuseppe Conte e La Repubblica di Maurizio Molinari invocano come cura efficace della piaga italiana del lavoro povero e malpagato. Così, l’argomento tornerà protagonista ovunque

Mentre la Cina ambisce a diventare la maggior potenza mondiale in ambito supercalcolo, Intelligenza Artificiale e robotica, con un ambizioso piano di investimenti, noi ignoriamo questi argomenti e stiamo a discutere di un ipotetico salario minimo legale che, come vedremo, aiuterebbe significativamente solo lo 0,2% dei lavoratori. Per carità, nessuno vuole continuare a far vivere nell’indigenza gli operai florovivaisti e le guardie giurate non armate, le due categorie di lavoratori sfruttati che più sarebbero beneficiate dall’ipotetico salario minimo legale, ma ci sono altre soluzioni per dare loro il sacrosanto diritto a una vita decente. Soluzioni praticabili senza illudere le altre categorie o battere la grancassa sul nulla. Insomma ci vorrebbe la capacità di pensare in grande, di sognare. L’ambizione di uno scatto in avanti decisivo. Ma non ne parla nessuno, perché essendo qualcosa a lungo termine non darebbe dividendi elettorali. Meglio portare avanti proposte-bandiera che sembrano risolutive anche se sono delle prese in giro, ma che potrebbero, forse, se qualcuno ancora ci crede, acchiappare qualche consenso. Così, il centro-sinistra propone il salario minimo, ancora i bonus, il reddito di cittadinanza. Il centro-destra propaganda impossibili tagli delle imposte, che comunque non avrebbero alcun effetto in termini di crescita economica. Siamo convinti (e non solo noi, c’è una letteratura sterminata al riguardo) che solo con l’industria, la ricerca, l’istruzione e le tecnologie si possa produrre quella ricchezza che poi genera – sempre – anche salari migliori. E per questo vorremmo che se ne parlasse. Vorremmo serietà. Questi temi, tra l’altro, sono la ragion d’essere di Industria Italiana e il grande interesse professionale attorno al quale ruotano almeno gli ultimi 15 anni di vita dell’autore di questo articolo.

L’Italia, come tutto il resto del mondo, sta vivendo una nuova rivoluzione industriale, che porterà cambiamenti sociali ed economici della stessa portata di quelli che si sono verificati diciottesimo secolo. Le nuove tecnologie abilitanti – dall’intelligenza artifificiale alla robotica e a tutte le forme evolute di automazione – hanno un potenziale enorme di creazione di valore economico. Per le aziende che la sapranno cavalcare: più fatturato e migliori margini. Per i lavoratori, potenzialmente più opportunità e con maggiori retribuzioni. Tuttavia, perché questi impatti benefici si verifichino sull’intero sistema economico, sono necessari adeguati investimenti. E serve un grande piano per la formazione dei giovani, ma anche (forse soprattutto) di quelli che già lavorano. Se investimenti e formazione non arrivano, si rischia che la rivoluzione, in Italia, distrugga valore invece di crearlo. Perché il valore andrà altrove, andrà da chi è stato pronto a reagire. In questo momento storico, il grande discorso da fare sul lavoro deve essere quello sugli investimenti e la formazione nelle nuove tecnologie.

 

In Italia il tema della povertà e dei bassi stipendi è drammatico e riguarda tutte le categorie, non solo i poverissimi

I bassi stipendi italiani, per tutte le categorie, alimentano una nuova emigrazione, che coinvolge soprattutto giovani istruiti che vanno a lavorare in Francia, Germania e Gran Bretagna. Nel 2020, cioé prima della pandemia che ha arrestato momentaneamente il flusso, si sono iscritte all’Aire, cioé al registro degli italiani all’estero, ben 130 mila persone, il 37% dei quali sotto i 34 anni di età, il 23% laureati. Nel decennio 2010-2021 si sono trasferiti all’estero 208 mila italiani laureati

Il salario minimo legale sembra una proposta importante (sembra) perché in Italia il tema della povertà e dei bassi stipendi è drammatico. L’Istat calcola che circa il 20% della popolazione sia in condizioni di grande precarietà economica o a forte rischio di trovarcisi. E anche chi non è messo così male, ormai fatica a vivere di stipendio. I salari italiani, come vedremo meglio dopo con cifre alla mano, sono tra i più bassi d’Europa. Nelle grandi città del Nord, con uno o due stipendi “normali” (cioé fra 1000 e 1500 euro, cifra pari anche al 50% di quello che a parità di mansione si nei Paesi sviluppati europei) è impossibile vivere dignitosamente, se non si hanno aiuti dalla famiglia di origine o non ci si accolla l’inferno di trascorrere due-quattro ore al giorno a pendolare con piccoli centri meno costosi. I salari sono particolarmente bassi per i giovani, che purtroppo accedono a contratti di lavoro penalizzanti rispetto a quelli dei loro padri e madri.

Le reazioni negative dei giovani sono perlopiù di due tipi. Ci sono quelli che restano, e continuano a lavorare in modo passivo e demotivato. Appena suona la campanella, staccano e pensano a realizzarsi in altro modo. Oppure ci sono i più ambiziosi che emigrano. Negli anni recenti, dall’Italia c’è una nuova emigrazione paragonabile, per numeri, a quella del primo Novecento o del Dopoguerra, che era motivata dalla povertà estrema. Adesso a partire non ci sono solo i poverissimi (che anzi sono sempre men) ma i giovani qualificati che vanno altrove perché in Italia l’ascensore sociale è fermo e l’accesso a una vita soddisfacente sembra impossibile, rendendo vani gli sforzi sui libri e poi nel lavoro. Nel 2020, cioé prima della pandemia che ha arrestato momentaneamente il flusso, si sono iscritte all’Aire, cioé al registro degli italiani all’estero, ben 130 mila persone, il 37% dei quali sotto i 34 anni di età, il 23% laureati. Nel decennio 2010-2021 si sono trasferiti all’estero 208 mila italiani laureati. Quasi la metà degli espatriati, inoltre, viene da ricche regioni del Nord. Il 20% dalla Lombardia, il 12% dal Veneto. Il 78, 6% di loro va a vivere in soli tre Paesi: Germania, Francia e Gran Bretagna. La ragione è ovvia: il salario medio di un neolaureato italiano è (fonte: indagine Mercer) di 29 mila euro, contro i 52 mila euro tedeschi. Gli italiani residenti all’estero sono, in totale, circa 5,8 milioni e sono di meno dei circa cinque milioni di stranieri residenti in Italia. I 5,8 milioni appena citati comprendono solo gli iscritti all’Aire, ma siccome centinaia di migliaia di emigrati non lo fanno, la cifra reale di espatriati è sicuramente assai superiore. In questo scenario, la proposta di un salario minimo legale sembra – e la parola sembra va sottolineata – molto risolutiva. Perché suona molto bene. Il salario è basso? Allora ci vuole un minimo legale dignitoso imposto dall’alto, per combattere lo sfruttamento. Et voilà! Il problema è risolto.

Il salario minimo legale sta al lavoro povero e malpagato come i monopattini elettrici che infestano le grandi città stanno alla tutela dell’ambiente e all’economia circolare: in entrambi i casi, sembrano una soluzione semplice, un uovo di colombo molto visibile. Anche se poi, nella realtà dei fatti, non servono a nulla di nulla. E inquinano molto il dibattito, alimentando la confusione della testa delle persone. L’idea primitiva alcuni hanno dell’inquinamento è data dai vecchi motori diesel dai quali usciva molta fuliggine. Allora, per risolvere il problema che si fa? Si introduce un veicolo elettrico che svolazza in giro e che non inquina. Peccato che la realtà sia diversa. Peccato che gli ultimi motori diesel inquinino quasi zero, e che la pressoché totalità degli utenti di monopattino non sia costituita da persone che grazie al nuovo mezzo lasciano l’autovettura a casa, ma da studenti, ragazzi e, in generale, individui che l’automobile proprio non ce l’hanno e forse mai la comprerebbero. Comunque. Ma la realtà non importa. Non interessa.

 

Nel discorso pubblico italiano, la Realtà è la Grande Assente. Protagonisti sono la rappresentazione, il “come se”, la finta soluzione immediata e facile da comunicare

Giorgia Meloni, presidente del Consiglio.
Ci sono almeno quattro aree su cui bisognerebbe puntare per far crescere l’economia italiana, sviluppando lavori di qualità: automazione, robotica, macchinari e tutte le tecnologie abilitanti l’industria; Intelligenza Artificiale e il mondo dello sviluppo software avanzato; Big Data, supercalcolo e quantum computing; tutto l’ambito dell’aerospaziale. Ma né l’opposizione né la maggioranza del Governo di Giorgia Meloni parlano di questi argomenti

In questo gioco di rappresentazioni e di consensi forse ottenibili facilmente, conta solo ciò che sembra. Ciò che è facile. Ciò che pare di immediata comprensione da parte di una folla elettorale che sembra inconsapevole e distratta, intontita da telefonini e social network.

Conta il “come se”.

E il salario minimo imposto per legge è appunto un “come se”. Un falso. Una presa per i fondelli. Ancora più grave perché tocca, illude e ferisce la parte più povera e fragile della popolazione.

Il 5 ottobre, La Repubblica di Maurizio Molinari ha dato forte enfasi alla prima bocciatura dell’obbligo di salario minimo legale da parte del Cnel, come se questa equivalesse, in toto, al rifiuto di dare dignità al lavoro. In questa gara di rappresentazioni false, di “Come se”, purtroppo Repubblica primeggia. Viene da chiedersi come si possa spiegare la scelta di cavalcare una proposta così vuota. Possibile che non vi siano competenze economiche in grado di farlo capire al direttore Molinari e ai capi del giornale? Difficile crederlo O vi sono altri interessi a ispirare questa battaglia alla Enrico Toti? E se vi sono, quali sono? L’illusione di conquistare lettori sostenendo in questo modo ridicolo il salario minimo o anche altro?

La proposta del salario minimo legale è una presa per i fondelli non solo perché, se applicata non cambierebbe quasi niente. In primo luogo, risolverebbe i problemi di basso stipendio di una parte estremamente esigua dei lavoratori: l’Inps li ha stimati nello 0,2% del totale impiegato a tempo pieno, prevalentemente operai florovivaisti, guardie private non armate, alcuni agricoltori e pochissimi altri. Il lavoro povero e poverissimo, infatti, sta soprattutto nei perimetri delle occupazioni in nero, precarie e intermittenti: situazioni che non sarebbero toccate in alcun modo dal salario minimo legale. Poi, rischierebbe di indebolire gli stipendi di tutti gli altri lavoratori, abbassando il potere contrattuale dei sindacati, che rischierebbero di trovarsi come base di discussione nei rinnovi contrattuali i famigerati 9 euro, ben più bassi dei minimi contrattuali di tutte le altre categorie. E infatti la stragrande maggioranza degli industriali – interpellati da Repubblica con gran squillo di Trombe in occasione del recente meeting Ambrosetti a Cernobbio – si è dichiarata favorevole al salario minimo legale. I contratti che costoro applicano nelle loro aziende sono tutti – tutti – ben al di sopra dei 9 euro orari! Perché dunque il salario minimo dovrebbe essere un problema per loro?

 

Produciamo poca ricchezza e quindi generiamo salari bassi

La stragrande maggioranza degli industriali – interpellati da Repubblica con gran squillo di Trombe in occasione del recente meeting Ambrosetti a Cernobbio – si è dichiarata favorevole al salario minimo legale. I contratti che costoro applicano nelle loro aziende sono tutti – tutti – ben al di sopra dei 9 euro orari! Perché dunque il salario minimo dovrebbe essere un problema per loro?

La presa per i fondelli va ben oltre. E sta nel voler far ignorare ai più un altro dato di fatto drammatico: in Italia i salari sono bassi – comunque bassi, anche se stanno al di sopra dei 9 euro orari – perché il Paese sta arretrando sempre di più da almeno un quarto di secolo. Produciamo poca ricchezza e quindi generiamo salari bassi. Eravamo competitor di Francia, Gran Bretagna, Germania e altri Paesi del Nord Europa, e adesso possiamo prendere a riferimento Spagna, Grecia, Portogallo, Malta e Cipro.

La produttività del lavoro (il fattore fondamentale per l’andamento dei salari) è ferma, e anche quella del capitale. Gli investimenti pubblici e privati sono ben al di sotto di ciò che servirebbe per sostenere una produttività del capitale e del lavoro tali da alimentare salari di livello europeo. Soprattutto, sono ancora insufficienti gli investimenti in ricerca e sviluppo, che sono i più importanti per la crescita economica. Per non parlare degli investimenti in innovazione, che potrebbero fare davvero la differenza, ma che in Italia sono di dimensioni ridicole. Il Paese sta progressivamente restringendo la sua base industriale, che è l’unica piattaforma di sviluppo di un’economia, soprattutto quando, come da noi, non si dispone di materie prime in loco. L’istruzione, soprattutto quella universitaria, è di scarsa qualità rispetto alle eccellenze internazionali e, in generale, non riesce a formare gli esperti di tecnologia, automazione, robotica e informatica di cui l’Italia avrebbe bisogno per partecipare alla competizione globale. Accanto ai lavori poveri, ci sarebbero molti lavori “ricchi”, ma non si trovano le persone che li potrebbero svolgere.

 

Salari bassi e povertà in Italia: dati allarmanti

Monopattini elettrici. Il salario minimo legale sta al lavoro povero e malpagato come i monopattini elettrici che infestano le grandi città stanno alla tutela dell’ambiente e all’economia circolare: in entrambi i casi, sembrano una soluzione semplice, un uovo di colombo molto visibile. Anche se poi, nella realtà dei fatti, non servono a nulla

Secondo gli ultimi dati Eurostat, aggiornati al 2021, la retribuzione media annua lorda dei lavoratori a tempo pieno e indeterminato italiani è di 21.500 euro all’anno. Cifra ben inferiore rispetto alla media europea della Ue a 27, che è di 24.500 euro e che viene calcolata anche includendo Paesi con salari bassissimi come Bulgaria, Cipro, Grecia. Anche la spesa per l’Istruzione, pari al 4,1% del pil, è inferiore alla media europea a 27, che è del 4,4%, Se si guardano i Paesi UE sviluppati e con una storia simile alla nostra i 21.500 euro italiani si confrontano con i 28.000 euro della Francia, i 32.000 euro della Germania, i 36.400 euro dei Paesi Scandinavi. Per non parlare dei 36.000 euro della Gran Bretagna, che però è fuori dall’Unione europea.

Secondo l’Ocse, l’Italia è il Paese con il più forte calo dei salari reale durante la pandemia, pari al 7,5%, contro una media Ocse del 2,2%. All’epoca del Covid, in Francia c’è stato addirittura un aumento dei salari reali pari all’1,5%, in Germania la flessione si è invece contenuta al 3,2%. Finita l’era della pandemia, è cominciata quella dell’inflazione. In base alle proiezioni Ocse, in Italia i salari nominali aumenteranno del 3,7% nel 2023 e del 3,5% nel 2024, mentre l’inflazione dovrebbe attestarsi al 6,4% nel 2023 e al 3% nel 2024.

Tornando all’Italia, occorre precisare che la cifra di 21.500 euro lordi si riferisce solo ai lavoratori a tempo indeterminato, che secondo l’Istat, nel gennaio 2023 erano pari al 65,8% dei 23,3 milioni di occupati che ci sono in Italia. Sempre secondo l’Istat, il 16,8% degli occupati lavora in modo intermittente e/o a termine. E ben il 12% di loro è in nero. Il lavoro povero, come si diceva prima, si annida quasi totalmente tra costoro. Secondo l’Inps, in Italia ci sono 871.800 persone definibili come lavoratori poveri, cioé con una retribuzione al di sotto dei 48,3 euro al giorno. Rappresentano il 6,3% del totale. E il 96,8% di loro è tale perché ha lavori precari o intermittenti.

Operai florovivaisti al lavoro. Sono tra le pochissime categorie che sarebbero realmente beneficiate dal salario minimo legale. Secondo alcune stime, le persone realmente beneficiate sarebbero lo 0.2% dei lavoratori

I lavoratori a tempo pieno e indeterminato che sono significativamente al di sotto dei 9 euro sono lo 0,2%. L’Inps, a differenza dell’Istat, ovviamente non considera il lavoro nero. E poi c’è la povertà, quella vera. Secondo l’Istat, nel 2022, il 20,1% delle persone residenti in Italia risulta a rischio di povertà (circa 11 milioni e 800mila individui) avendo avuto – nell’anno precedente l’indagine – un reddito netto equivalente, senza componenti figurative e in natura, inferiore al 60% di quello mediano (ossia 11.155 euro). Il 4,5% della popolazione (circa 2 milioni e 613mila individui) si trova in condizioni di grave deprivazione materiale e sociale, ossia presenta almeno sette segnali di deprivazione dei tredici individuati dal nuovo indicatore (Europa 2030). A fronte di ciò, qualcuno potrebbe obiettare: ma che cosa c’entrano i lavori ad alto contenuto di conoscenza tecnologica con le attività “povere” di florovivaisti, guardie giurate non armate, camerieri e agricoltori in nero e tutti coloro che sono in miseria o a forte rischio di finirci? C’entrano eccome. Perché l’investimento in queste aree produce ricchezza generale, che poi avvantaggia tutti, anche i più poveri e quelli che svolgono lavori semplici. E comunque, fra non molto, anche florovivaisti e guardie giurate non armate saranno coinvolte dalla rivoluzione digitale, e se non saranno istruiti abbastanza, perderanno anche quei lavori, e peggioreranno la loro condizione.

 

La produttività del lavoro e del capitale in Italia? Ferma da 26 anni

Secondo l’Istat, il 16,8% degli occupati lavora in modo intermittente e/o a termine. E ben il 12% di loro è in nero. Il lavoro povero, come si diceva prima, si annida quasi totalmente tra costoro. Secondo l’Inps, in Italia ci sono 871.800 persone definibili come lavoratori poveri, cioé con una retribuzione al di sotto dei 48,3 euro al giorno. Rappresentano il 6,3% del totale. E il 96,8% di loro è tale perché ha lavori precari o intermittenti. Nel 2022, il 20,1% delle persone residenti in Italia risulta a rischio di povertà. Il 4,5% della popolazione (circa 2 milioni e 613mila individui) si trova in condizioni di grave deprivazione materiale e sociale, ossia presenta almeno sette segnali di deprivazione dei tredici individuati dal nuovo indicatore (Europa 2030)

Tra il 2014 e il 2020 la produttività del lavoro in Italia è cresciuta ogni anno dello 0,5% rispetto all’1,2% della media dell’Europa a 27 e all’1% della Germania. Ma a preoccupare è il calo della produttività del capitale, che è stato, in media, dell’1,1% all’anno. Nello stesso periodo in cui noi facevamo -1,1%, in Francia la produttività del capitale è cresciuta dell’1,2% e in Germania dell’1,3%. Colpisce anche il dato sul valore aggiunto. In questo caso il periodo di riferimento è tra il 1995 e il 2020. In Italia la crescita media annua del valore aggiunto è stata appena dello 0,2%, mentre la media Ue è stata dell’1,5%.

Insomma, in Italia si investe poco, si cresce poco, ci si posiziona soprattutto in aree a minor valore aggiunto: la conseguenza sono salari bassi, nell’ambito di un processo di impoverimento progressivo.

Forse può essere utile ricordare che la produttività del capitale indica il grado di efficienza con cui tale fattore è utilizzato nel processo produttivo. Come scrive l’Istat, gli investimenti in tecnologie dell’informazione e della comunicazione permettono di introdurre nuove tecnologie nei processi produttivi e sono considerati un importante fattore di crescita della produttività, al pari degli investimenti in prodotti della proprietà intellettuale, come la ricerca e sviluppo. Nel periodo 1995-2020, nel nostro Paese la produttività del capitale ha registrato un calo medio annuo dell’1,1%, risultante da un aumento dell’input di capitale (+1,3%) superiore a quello del valore aggiunto (+0,2%). L’esame della produttività per tipologia di capitale evidenzia come la discesa riguardi tutte le tipologie di input: la componente relativa alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione è diminuita del 2,8%; la produttività del capitale immateriale non-Ict (che comprende la Ricerca e sviluppo) del 2,2%; quella del capitale materiale non-Ict dello 0,7%. I risultati più recenti, relativi al periodo 2014-2020, indicano anch’essi una diminuzione della produttività del capitale dell’1,1% in media d’anno. In questa fase, si osserva una crescita moderata dell’input di capitale (+0,3% in media d’anno) con un incremento molto più sostenuto del capitale Ict (+3,6%) e di quello immateriale non Ict (2,5%). Nel 2020, la forte diminuzione del valore aggiunto dell’11,8% associata al calo molto contenuto dell’input di capitale (-0,6%) determina una fortissima riduzione (-11,2%) della produttività del capitale.

 

Bassi investimenti in ricerca, sviluppo, innovazione

L’intelligenza artificiale, come le altre nuove tecnologie, può far nascere decine di migliaia di posti di lavoro gratificanti e ben pagati. Ma questo argomento è assente dal discorso pubblico italiano

Gli scarsi investimenti italiani in ricerca e sviluppo sono cosa ben nota, ma se ci si domanda come gli stipendi siano così bassi, forse può essere utile ricordare i numeri, che sono veramente impressionanti. Secondo Eurostat, nel 2022 in Italia sono stati investiti 12,6 miliardi in ricerca e sviluppo, il 68% da parte delle imprese e il resto dal settore pubblico. Gli investimenti della Francia sono stati di 18 miliardi e quelli della Germania di ben 48 miliardi. Sempre secondo Eurostat, la spesa totale in ricerca e sviluppo della UE a 27 è pari al 2,27% del pil, cifra comunque bassa rispetto ai competitor mondiali, che sono gli Stati Uniti (3,5% del pil) e la Cina (2,4% del pil). La Cina, in particolare, negli ultimi anni ha accresciuto gli investimenti annunciati con il piano “Made in China 2025” già qualche anno fa, finalizzato alla leadership mondiale nella manifattura avanzata, nella robotica, nel computing e supercalcolo, nell’intelligenza artificiale e nei semiconduttori.

Tornando all’Unione europea e alle cifre Eurostat, rispetto a una media UE del 2,27% del pil, l’Italia ha investito in ricerca e sviluppo l’1,5%, la Germania il 3,25% e la Francia il 2,1%. Superano l’Italia in termini percentuali anche la Slovenia, la Repubblica Ceca, l’Estonia, il Portogallo e l’Ungheria. In compenso, noi facciamo meglio di Grecia, Polonia, Spagna, Cipro e Bulgaria.

Le nuove tecnologie hanno un potenziale enorme di creazione di valore economico, alimentando lavori interessanti e ben pagati. Ma perché ciò avvenga, occorre un grande piano di investimenti e di formazione

Un altro dato importante sull’innovazione riguarda gli investimenti del venture capital, che sono fondamentali per alimentare la competitività dell’intero sistema, dato che poi molte start-up vengono comprate dalle grandi aziende, o comunque vendono le loro innovazioni a loro. Nel 2022 il venture capital italiano ha segnato il suo record di massimo storico, attestandosi a due miliardi di euro di totale di investimenti, per merito soprattutto di alcune grosse operazioni, che si sono concentrate proprio in quell’anno. Tale cifra si confronta con i 10 miliardi investiti in Germania, i 12,9 della Francia e gli addirittura 20 miliardi della Gran Bretagna. Il record italiano del 2022, peraltro, è solo episodico. Nella prima metà del 2023 gli investimenti sono stati di circa 496 milioni di euro, il che fa prevedere un 2023 al di sotto del miliardo di euro.














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1 commento

  1. Egregio dott. Astone vorrei sottoporle un mio dubbio (reale non speculativo) rispetto al suo articolo per molti versi condivisibile. Leggendo per lavoro articoli, statistiche, libri, ecc. sui temi da Lei affrontati, sempre meno riesco ad applicare una logica conseguenziale ad alcune relazioni classiche come ad esempio il rapporto tra produttività e salari. A me sembra che per certi aspetti il tema della produttività sta al salario come la visione a breve della politica sta al continuo incessante ciclo elettorale (ci sono mai più di sei mesi continuativi liberi da elezioni in questo benedetto Paese?) nel senso che pur essendo certamente collegati in realtà finiscono per rappresentare perfettamente solo reciproci alibi. Nella discussione sul tema del rapporto tra produttività e salari ad esempio credo che in parte siamo tutti condizionati da un relazione reale che ha attraversato l’ultimo secolo senza che vengano attenzionati alcuni aspetti dei cambiamenti strutturali intervenuti negli ultimi 20 anni in tema di produzioni e competitività da un lato e struttura dei consumi e investimenti dall’altro, cambiamenti che sono in continua accelerazione e che forse cambiano in modo radicale il rapporto tra produttività e salari e più estesamente tra produttività, salari e prezzi. Assumendo la sua ipotesi (che condivido) su dove collocare il posizionamento dell’industria italiana e quindi del suo sistema della ricerca e dell’innovazione, le chiedo non sarebbe interessare approfondire la discussione anche, e sottolineo anche, su altre dinamiche rispetto alla relazione tra produttività e salari? Ad esempio da cosa è determinato oggi il rapporto tra valore d’uso (e come questo può venir determinato) e prezzo di un prodotto? Qual’è oggi il luogo centrale della creazione del valore: la produzione, il consumo, l’investimento, la finanza? Qual’è la relazione tra costi di produzione e prezzo del prodotto visto che in alcuni settori manufatturieri questa relazione sembra veleggiare verso un “rapporto a variabile indipendente per il prezzo”? Perchè alcuni settori manufatturieri, quantitativamente affatto marginali, pur essendo a bassa produttività mostrano altissimi livelli di competitività e alti salari? Qual’è oggi la relazione tra consumi e investimenti e finanza e come i consumi per servizi sostituiscono quote di reddito in passato destinate ai consumi per prodotti? Il conflitto distributivo tra produttività e salari ha ancora la sua centralità nella crescita quantitativa dell’economia o la centralità assoluta di questa relazione che ignora altri fattori sta solo sospingendo da trenta anni l’equilibrio del nostro sistema produttivo verso un sentiero di stagnazione qualitativa delle produzioni e del lavoro? Quale combinazione diretta lega nelle analisi di lungo periodo la relazione che sembra emergere tra il ciclo di privatizzazioni e dismissioni di imprese pubbliche iniziato nei primissimi anni ’90 e l’andamento negativo della produttività dell’innovazione e dei salari italiani nello stesso periodo? Perchè dal 2000 il sistema industriale italiano ha continuamente perso terreno nei confronti dell’Europa, accumulando un ritardo via via maggiore sia in termini di valore aggiunto (27 punti percentuali in meno rispetto alla media dell’Eurozona tra il 2000 e il 2017) che di produttività del lavoro (28 punti percentuali), però il medesimo sistema industriale ancora nel 2020 era al settimo posto nel mondo (secondo in Europa) per livello assoluto di valore aggiunto prodotto, al quarto posto (dietro Cina, Stati Uniti e Giappone) per grado di diversificazione produttiva, al secondo posto dietro la Germania per competitività dell’export? Insomma senza farla troppo lunga non crede che oggi il peso della produttività nella creazione e nella ridistribuzione della ricchezza prodotta in azienda sia largamente sopravvalutato rispetto ad altri fattori che sono specifici della cosiddetta “fascia alta” della produzione soprattutto nei sistemi produttivi, di consumo e finanziari contemporanei?

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