Caro energia: il price cap sul gas è davvero la soluzione?

di Barbara Weisz ♦︎ Dopo mesi di trattative e discussioni, l'Ue ha approvato un tetto al prezzo del gas. Il governo Meloni esulta, ma quale impatto avrà questa misura? Sarà in grado di frenare la speculazione oppure rischia solo di creare un disallineamento fra domanda e offerta? Ne abbiamo parlato con Alberto Clò, Michele Polo e Marco Fortis

La risposta fondamentale all’industria sul fronte delle politiche per contrastare il caro energia, più che dalla Legge di Bilancio è arrivata dall’Europa, con l’accordo sul tetto al prezzo del gas a 180 euro al megawattora. Anche in manovra ci sono stati dei correttivi rispetto alla versione iniziale del disegno di legge approvato dal Governo, l’iter parlamentare ha portato a una parziale correzione della tassa sugli extraprofitti (che però solo in minima parte va incontro alle richieste della manifattura), mentre resta il giudizio sostanzialmente positivo, delle imprese e anche degli economisti, sul fatto che la finanziaria si concentra sul caro energia.

Anche perché, come ha sottolineato il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, presentando in Parlamento le linee guida del suo dicastero, «per la sola manifattura l’aumento dei prezzi delle materie prime energetiche aumenterebbe la bolletta annuale di 43 miliardi di euro, portando la bolletta totale a oltre 70 miliardi di euro». Sono due i principali fattori d’incertezza: cosa succederà dopo il primo trimestre (le proroghe degli incentivi, compresi i crediti d’imposta, sono previste fino a marzo 2023). E l’attesa per una riforma del mercato elettrico, argomento su cui comunque il Governo dimostra disponibilità. Analizziamo tutte le risposte legislative, italiane ed europee, alla crisi energetica cercando di capire se e come vanno incontro alle esigenze del mercato e delle imprese, e quali sono i punti maggiormente critici. Il price cap in realtà divide gli economisti e gli addetti ai lavori.







Era una delle richieste fondamentali di Confindustria, presentata dal presidente, Carlo Bonomi, in sede di audizione parlamentare sulla manovra. Ma «entra in vigore il 15 febbraio, un anno dopo lo scoppio della guerra» segnala Alberto Clò, economista dell’Università di Bologna, ex ministro dell’Industria (Governo Dini 1995-1996) e fra i massimi esperti di energia in Italia. Che prosegue: «Se la commissione europea anzichè inseguire questo famigerato price cap si fosse adoperata per evitare l’impennata dei prezzi per le scorte e i nuovi contratti, avrebbe svolto meglio il proprio compito». Marco Fortis, economista dell’Università Cattolica di Milano e presidente della Fondazione Edison, e Michele Polo, Eni Chair in Energy Markets alla Bocconi, sottolineano entrambi come il segnale politico arrivato dall’Europa sia buono, ma a loro volto propongono rilievi critici nel merito. Il punto fondamentale è il seguente: la crisi energetica drena risorse, non a caso in manovra ci sono 21 miliardi contro il caro energia, su un totale di 35 miliardi di risorse stanziate dall’intera Legge di Bilancio.

 

Il tetto al prezzo del gas

Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso

Partiamo dal tetto al prezzo del gas, misura su cui le istituzioni italiane si sono particolarmente spese, con una linea di continuità fra il precedente Governo guidato da Mario Draghi e l’attuale esecutivo presieduto da Giorgia Meloni, e che potrebbe avere l’impatto maggiore sulla crisi energetica (e sui conti delle imprese in generale, e dell’industria in particolare). Il price cap si applica a partire dal 15 febbraio 2023. Il tetto è fissato a 180 euro al megawattora e scatta in presenza delle seguenti variabili: superamento per almeno tre giorni, con una forbice rispetto al prezzo del Gnl, il gas liquefatto, pari almeno a 35 euro. Rappresenta un passo avanti rispetto ai 275 euro a MgWh di cui si parlava nelle ultime settimane, e che Bonomi aveva definito inaccettabile. Le istituzioni esprimono soddisfazione, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, parla di un «primo passo verso una soluzione che ci permetta di far calare il sistema bollette». Il presidente di Arera, Stefano Besseghini, commenta all’insegna della prudenza: «sicuramente è più basso di quello con cui si era cominciata la discussione. Rimane un prezzo alto rispetto a quello industriale. Un prezzo deve inevitabilmente confrontarsi con i mercati internazionali, con il Gnl, ci sono tutta una serie di parametri. Trovare un equilibrio non era facile. Vediamo quale sarà l’evoluzione». Qui, emergono due considerazioni: il prezzo industriale resta comunque più alto. E bisogna vedere cosa succederà sui mercati dopo che la misura sarà operativa.

 

Le analisi degli economisti

Alberto Clò, economista dell’Università di Bologna, ex ministro dell’Industria (Governo Dini 1995-1996) e fra i massimi esperti di energia in Italia

Alberto Clò sul price cap esprime un parere «totalmente negativo». Non solo perché l’accordo Ue arriva tardi. «C’erano altri problemi più importanti su cui la Commissione poteva incidere». Per esempio: «a metà anno abbiamo cominciato a preoccuparci delle scorte, e quindi sono stati fissati obiettivi di stoccaggio, prima all’80 e poi al 90 per cento. Tutti i Paesi sono corsi ad approvvigionarsi, facendosi concorrenza fra loro per accaparrarsi le forniture. L’espressione era whatever it costs, a qualunque prezzo». Se invece l’Europa, che «paradossalmente nello stesso momento prospettava una piattaforma di acquisto comune, avesse coordinato i Paesi, non ci sarebbe stata l’impennata dei prezzi». Questo è un concetto su cui l’economista insiste parecchio: «tutti i Governi europei, dall’esecutivo italiano guidato da Mario Draghi a quello tedesco di Olaf Scholz, hanno cominciato a fare il giro delle sette chiese per cercare nuove forniture: si è innescata una concorrenza fra i Paesi Ue a offrire di più». Risultato: sono saliti i prezzi del gas. «Molto dell’impatto negativo della crisi è dovuto alla Commissione di Bruxelles». Il vero problema sono le infrastrutture e l’eccessiva dipendenza dalla Russia. «Le importazioni da Mosca si sono drasticamente ridotte, ma restano consistenti. A dicembre siamo ancora al 14%». Questo significa che nei prossimi mesi una variabile importante sarà determinata dalla risposta della Russia. Terzo elemento su cui riflettere, il prezzo a 180 euro. «Mi dovrebbero spiegare perchè ora è stato fissato a 180 euro, mentre si parlava di 275 euro (era la proposta della commissione Ue in ottobre, ndr). Ma oggi, in Italia, il prezzo del gas sulla piattaforma italiana è a 105 euro». Clò invita a riflettere sulle forti oscillazione degli ultimi mesi, i prezzi che oggi sono intorno ai 100 euro «a fine agosto erano tre volte superiori». I prezzi sono calati perché si è abbassata la domanda da una parte ed è aumentata l’offerta dall’altra (Gnl dagli Usa).

Michele Polo, Eni Chair in Energy Markets alla Bocconi

Ma se il price cap fosse stato fissato prima sarebbe stato meglio? «Poteva essere ancora peggio, dipendevamo dalla Russia per il 40%. Italia e Germania in particolare». Infine, il meccanismo del price cap dinamico è complicato. Su questo punto, gli esperti sono tutti d’accordo. «Il tipo di meccanismo, a mio avviso, non avrà dei grossi effetti – premette Michele Polo – Se si infrangono le soglie (ovvero i 180 euro per tre giorni e i 35 euro oltre la quotazione del Gnl, ndr) fissando un prezzo inferiore rispetto al mercato, si crea una squilibrio. C’è più domanda che offerta. Bisognerebbe riuscire a ridurre la domanda, come peraltro è previsto dal piano Ue». Ma si tratta di una misura sicuramente difficile da attuare nell’immediato. In alternativa, «se la riduzione di domanda è insufficiente, occorre che ci sia un’offerta al prezzo cappato, altrimenti il mercato non si equilibra. Potrebbe essere un regolatore Ue a farla, ma oggi non esiste». E se pure esistesse, si inserirebbe un problema di coordinamento con il price cap. «Se il regolatore acquista gas a un prezzo superiore al cap, e rivende al prezzo bloccato, si crea un onere. Che prevedibilmente andrà spalmato su diverse categorie di utenti». Un altro punto critico: il meccanismo agisce solo sui mercati regolamentati, ma c’è una parte consistente di scambi (over the counter) che avviene unilateralmente. E quelli non li vede nessuno, dunque è difficile condizionarli. Lo squilibrio fra domanda e offerta si crea sempre in caso di price cap o è un rischio in questa situazione specifica? «In generale, succede quando si mette un cap che impone un prezzo più basso di quello di equilibrio. Ora siamo a stoccaggi pieni, riscaldamento appena iniziato, industria che flette. E questo spiega perché il prezzo spot è sceso da ottobre in poi. Quando inizieremo a riempire di nuovo gli stoccaggi, in primavera, magari con Putin che potrebbe chiudere nuovamente i rubinetti, sarà possibile che si verifichino tensioni in grado di far aumentare il prezzo». In realtà, il price cap a 180 euro è alto rispetto ai prezzi attuali. «Ma ad agosto si transava oltre i 300 euro. Non si fa fatica a raggiungere il tetto – continua Polo – è molto difficile sperare di modificare il prezzo di mercato con una misura amministrativa. E soprattutto se non si predispongono strumenti regolatori adeguati, che non ci sono».

Marco Fortis, economista dell’Università Cattolica e direttore della Fondazione Edison

Come si esce dalla crisi energetica? Qui Clò propone una considerazione fondamentale: la crisi energetica era già iniziata prima della guerra in Ucraina, che ha aggravato la situazione. Ed è stata provocata da «un aumento di domanda di energia e quindi di metano, che non ha trovato un’offerta adeguata. All’origine, c’è la scarsità di offerta del metano». Quindi, anche se finisse la guerra, «la scarsità di metano continuiamo a ritrovarcela. Le compagnie petrolifere hanno ridotto drasticamente gli investimenti minerari». In parole semplici, «la crisi è strutturale». Nei piani del Governo ci sono investimenti per aumentare la produzione interna. Ma «è da un anno che si parla di aumentare la produzione interna di metano, e non è ancora successo nulla». Alle rinnovabili non ci crede? «Ci credo a due condizioni, che camminino sulle loro gambe (sono già stati dati troppi incentivi), e che non ci facciano dipendere troppo dalla Cina, come in passato è successo con il gas russo. In Ue deve svilupparsi un’industria sulle batterie, sulle materie prime. Servono rinnovabili più europee e meno cinesi». Polo fa presente che «per eliminare la dipendenza dal gas russo ci vuole tempo. Bisogna predisporre fonti alternative, e queste saranno più costose del gas. Quindi, bisogna riconoscere che gli imput energetici costeranno di più». Alla fine, «con l’affrancamento dalla Russia, rinunciamo a un gas poco costoso e sicuro per una situazione che è diversa». Intendiamoci, l’economista condivide «pienamente» l’esigenza di questa strategia, ma ne sottolinea le implicazioni. Nel frattempo, «realisticamente, non è che si possa inventare molto. Oggi si cerca di schermare gli utenti finali da aumenti della materia prima, e questo si può fare. Ma c’è un impatto forte sui bilanci». In effetti, è quello che è successo con la manovra italiana: le misure che proteggono famiglie e imprese dal caro energia «costano infatti due terzi della manovra».

 

Crediti d’imposta e sconti Iva per le imprese

Le principali che riguardano le imprese sono le seguenti:

  • credito d’imposta per bar, ristoranti ed esercizi commerciali: fino al 31 marzo 2023, al 35% (aumentato ripsetto al 30% previsto nel 2022);
  • credito d’imposta per le imprese energivore e gasivore: sempre fino al 31 marzo 2023, al 45% (aumentato rispetto al 40% previsto nel 2022);
  • credito d’imposta per l’acquisto di carburanti per attività agricola e pesca: pari al 20%, si applica alle spese sostenute fino al 31 marzo 2023;
  • Iva sul gas naturale: ridotta al 5% (è una proroga, l’agevolazione è stata già applicata nel secondo semestre del 2022);
  • Iva sul teleriscaldamento: ridotta al 5%;
  • Iva sui pellet: ridotta al 10%.

Come detto, molte di queste misure sono una proroga di incentivi già previsti nel 2022, con una serie di incrementi. Ecco lo storico in un prospetto elaborato dalla Corte dei Conti:

Corte dei conti

In base ai calcoli della Banca d’Italia, i crediti d’imposta per le imprese valgono 10 miliardi. La Corte dei Conti presenta anche calcoli scorporati per ognuno dei crediti d’imposta:I commenti delle imprese sono sostanzialmente positivi. I rilievi riguardano soprattutto le incertezze sui semestri successivi al primo. Secondo Fabrizio Balassone, capo del Servizio Struttura economica della Banca d’Italia, «si può stimare che, qualora gli interventi a favore di imprese e famiglie dovessero essere rinnovati fino alla fine dell’anno alle stesse condizioni previste per il primo trimestre, il costo complessivo sarebbe dell’ordine del 3,5% del Pil (sostanzialmente in linea con quello del 2022). In questo scenario sarebbe importante rendere le misure ancora più mirate e selettive nonché finanziarle prioritariamente ricorrendo a risparmi di spesa o a maggiori entrate». Quest’ultima considerazione è condivisa dall‘Ufficio parlamentare di Bilancio: «considerata anche la necessità di ridurre al minimo l’impatto sui conti pubblici, eventuali nuovi interventi dovrebbero essere caratterizzati da una maggiore selettività, come richiesto anche dalla UE, con una più decisa concentrazione degli aiuti sulle famiglie più bisognose e le imprese che più vedono erosa la propria competitività».«Le misure sono quelle che si possono fare con le risorse disponibili» segnala Fortis, che a sua volta mette l’accento sull’impatto sui conti pubblici. «L’Italia è un paese che si appresta ad avere un 2023 estremamente sfidante sul debito pubblico, la Banca d’Italia ha quasi 700 miliardi di debito pubblico in pancia nell’ambito degli acquisti dell’eurosistema, con al politica della Bce. Questa politica adesso non continua. Abbiamo un rifinanziamento costante dei titoli in scadenza, ma le emissioni d’ora in poi vanno sul mercato. Lo stato italiano deve affrontare un 2023 in cui deve collocare parecchi titoli. Non lo faceva più da tempo grazie al polmone Bce». Risultato, «non è che si possano spendere cifre colossali neanche per il caro energia». Infine, una critica, condivisa da molte associazioni imprenditoriali, sul fatto che non è stato prorogato l’azzeramento degli oneri di sistema in bolletta per le utenze superiori ai 16,5 kW. Confartigianato sottolinea che questo penalizza in particolare «la piccola manifattura artigiana nei settori di eccellenza del made in Italy, che vanno dal tessile alla ceramica, dalla meccano-plastica al legno».

 

La tassa sugli extraprofitti

La risposta fondamentale all’industria sul fronte delle politiche per contrastare il caro energia, più che dalla Legge di Bilancio è arrivata dall’Europa, con l’accordo sul tetto al prezzo del gas a 180 euro al megawattora. Anche in manovra ci sono stati dei correttivi rispetto alla versione iniziale del disegno di legge approvato dal Governo, l’iter parlamentare ha portato a una parziale correzione della tassa sugli extraprofitti (che però solo in minima parte va incontro alle richieste della manifattura), mentre resta il giudizio sostanzialmente positivo, delle imprese e anche degli economisti, sul fatto che la finanziaria si concentra sul caro energia

La misura contro il caro energia in manovra più criticata dalle imprese è la tassa sugli extraprofitti delle imprese energetiche, come Eni, Enel, Edison, A2a, Hera. E’ un prelievo straordinario previsto per il 2023, pari al 50% del reddito Ires 2022 che supera per almeno il 10% la media dei redditi complessivi determinati ai sensi dell’imposta sul reddito delle società conseguiti nei quattro periodi di imposta antecedenti a quello in corso al 1° gennaio 2022. Se la media dei redditi complessivi è negativa, si assume un valore pari a zero. Il contributo straordinario non può essere superiore a una quota pari al 25% del valore del patrimonio netto alla chiusura dell’esercizio 2021. Si applica solo alle società con almeno il 75% di ricavi da energia. Questa è una modifica introdotta in sede di dibattito parlamentare, che pur riducendo la platea non soddisfa le richieste del mondo produttivo. Andrea Rossetti, presidente di AssopetroliAssoenergia (sistema Confcommercio), segnala che il prelievo straordinario non esclude il settore della distribuzione, composto prevalentemente da piccole e medie imprese. Altro rilievo: «un incremento dell’utile superiore al 10%, rispetto al quadriennio orribile 2018/2021, non dimostra la sussistenza di extraprofitti», in considerazione del fatto che gli anni del confronto sono stati caratterizzati dalla pandemia.Erano più ampie anche le richieste di Confindustria: «il nuovo contributo, calcolato sui profitti 2022, non sostituisce ma si aggiunge a quello già versato in base al saldo dei dati IVA, senza contare che gli stessi profitti sono già stati ridimensionati in virtù dell’obbligo di restituzione laddove generati dalla produzione di energia rinnovabile e saranno, inoltre, oggetto dell’ordinaria tassazione», rileva Bonomi, che in audizione parlamentare chiedeva di conseguenza «un intervento di coordinamento sui versamenti effettuati in attuazione del contributo 2022». Oltre che una maggior selettività del contributo, escludendo settori come la distribuzione elettrica, in cui «l’aumento dei ricavi coincide con un aumento dei costi di approvvigionamento», e l’oil, in cui «sussiste la possibilità finanziaria di attenuarlo attraverso transazioni estero su estero». Bankitalia sottolinea a sua volta come il differenziale previsto dalla tassa «potrebbe non riflettere in modo preciso la dinamica dei profitti delle imprese, in quanto potrebbe essere influenzato da altri fattori come ad esempio la realizzazione di operazioni straordinarie di riorganizzazione aziendale».

 

Altre misure in manovra contro il caro energia

Per completezza, elenchiamo le altre misure previste dalla Legge di Bilancio contro il caro energia che riguardano le imprese (ricordiamo che ci sono anche consistenti misure per le famiglie, a partire dalla proroga per il primo trimestre dell’azzeramento degli oneri di sistema in bolletta).

  • Tetto a 180 euro al megawattora per il prezzo dell’energia prodotta dagli impianti alimentati a carbone, olio combustibile e fonti rinnovabili
  • Eliminati dagli oneri di sistema delle bollette elettriche i costi del decomissioning degli impianti nucleari
  • Stanziamento di 400 milioni per il definitivo smantellamento delle centrali nucleari non più in uso.
Gilberto Pichetto Fratin, ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica

Restano insoddisfatte, oltre a quelle già citate, altre richieste delle imprese. Bonomi insiste su una «riforma dei mercati elettrici, che punti a un meccanismo deciso di disaccoppiamento tra prezzo del gas e tariffa elettrica finale, e che sia affiancato da uno strumento finanziario comune per il bilanciamento tra diversi mix energetici nazionali che determinano cospicui svantaggi per imprese e famiglie italiane». Su questo stanno lavorando sia il Governo italiano sia l‘Europa. Dopo l’accordo sul price cap, spiega Gilberto Pichetto Fratin, «il prossimo passo è la riforma del mercato elettrico dato che la Commissione si è impegnata a presentare a marzo una proposta sul disaccoppiamento del prezzo dell’elettricità dal prezzo del gas». Cna lamenta «la totale assenza di interventi in grado di sostenere il potenziale delle Pmi in termini di realizzazione di un ampio piano di interventi di autoproduzione, colmando il gap che ancora non consente alle piccole imprese di partecipare pienamente al percorso di transizione energetica», e propone di mutuare «il meccanismo del credito d’imposta al 50% già previsto per l’edilizia residenziale» che «consentirebbe, nell’immediato, di coinvolgere circa 200mila piccole imprese nell’installazione di impianti medio-piccoli (fino a 200KW), generando nuova potenza installata pari a 8.700MW».

(Ripubblicazione dell’articolo pubblicato il 22 dicembre)














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