Tutti i se e i molti ma delle Rete Unica in Italia

di Marco de' Francesco ♦︎ Per concretizzare il progetto per la banda ultra-larga è necessario mettere insieme la rete secondaria di Tim e quella di Open Fiber, contando sulle risorse di Fastweb e Kkr. Ma c’è l’incognita di AccesCo, per la quale l’Antitrust della Commissione Europea potrebbe bloccare tutto. E ci sono anche altri ostacoli e dubbi. Ne abbiamo parlato con Antonio Capone, docente al Polimi

«Occorre un incastro magico», un miracolo, perché la Rete Unica vada a buon fine. Così come è stato delineato, il percorso per la banda ultra-veloce gestita da un solo soggetto è irto di ostacoli. Se una sola tessera non trovasse spazio nel delicato puzzle di fusioni che si intende realizzare, per i lavori di infrastrutturazione sarebbe lo stop. Una fermata pericolosa per l’industria italiana, che conta sulla nuova dorsale per la propria trasformazione digitale. E se anche le cose andassero per il meglio, un’accelerazione nella costruzione della rete non è per niente scontata. Lo pensa il docente di telecomunicazioni al Politecnico di Milano Antonio Capone. Vediamo perché.

L’altro giorno è stata siglata una lettera di intenti dai Cda Tim e Cassa depositi e prestiti. L’ex monopolista e Open Fiber (di cui Cdp ha il 50%) sono attualmente i due principali attori nella realizzazione della rete. Il terzo, FlashFiber, è una joint venture tra Tim e Fastweb. Si tratta anzitutto di realizzare FiberCop, società veicolo che associa il primo e il terzo operatore. La maggioranza assoluta delle quote spetterà a Tim, mentre più di un terzo di loro sarà acquisito dal fondo americano Kkr. Il secondo passaggio prevede la fusione tra FiberCop e Open Fiber, con la nascita di AccessCo. In pratica, si tratta di mettere insieme la rete secondaria di Tim e quella di Open Fiber, contando sulle risorse di Fastweb e Kkr.







Ma c’è un ostacolo che si staglia grosso come un iceberg sulla rotta definita dalla lettera di intenti. Il 50,1% di AccessCo spetterebbe a Tim, che non è un operatore all’ingrosso: vende servizi a privati e aziende. Per questa ragione, l’Antitrust della Commissione Europea potrebbe bloccare tutto, e a quel punto sarebbe il caos. Inoltre, l’altro proprietario alla pari di Open Fiber, Enel, dovrebbe, secondo lo schema, vendere la sua parte al fondo australiano Macquarie. Può accadere, ma anche no. Mesi fa, l’ad di Enel Francesco Starace, aveva fatto sapere che non c’era nessuna fretta. Ancora, Open Fiber ha chiuso il 2019 con una perdita di esercizio di 117 milioni, mentre nello stesso anno i ricavi di Tim si sono contratti del 5,1%. Non è detto, secondo Capone, che insieme possano fare di più di quanto non abbiano fatto finora isolatamente. Anzi. Occorrerebbero risorse imponenti, ad esempio quelle del Recovery Fund. Ma sono soldi vincolati, e anche qui peserebbe il giudizio dell’Europa sull’operazione. Insomma, ci sono più “se” che certezze. Così la pensa Capone, che abbiamo intervistato.

     

D: Quanto conta la banda ultraveloce per l’industria?

Il docente di telecomunicazioni al Politecnico di Milano Antonio Capone

R: «Molto. Oggi quasi tutto ciò che riguarda le linee produttive è cablato o sta per esserlo. La fabbrica è anzitutto collegata alla linea portante, con tutti i suoi robot pure. E sarà sempre così. E con la rete Ftth, e cioè quella interamente in fibra, si può ottenere, potenzialmente, una capacità di trasmissione di 1 Gigabit al secondo, assai più rilevante della Fttc, quella in fibra ma con l’ultimo tratto in rame, che si ferma a 100,200 Megabit; e ancora più consistente dell’Adsl, che non supera i 50 Megabit. E un passaggio davvero cruciale, quello alla banda ultraveloce, anche perché grazie ad essa si possono implementare nuove applicazioni in Cloud, soluzioni intelligenti e pay-per-use che consentono peraltro di ridefinire il modello di relazioni con i clienti e con i fornitori. Se la connessione è lenta, invece, all’azienda non resta che ricorrere ad un datacenter interno, con costi considerevoli soprattutto quanto a personale dedicato. Va ricordato che la situazione italiana è un po’ particolare, a causa della parcellizzazione del tessuto industriale, diffuso in tutto il Paese, anche in zone remote e lontane dalle aree urbane».

 

D: Nel mondo industriale la banda ultraveloce è in competizione con il 5G, soluzione wireless?

R: «No di certo. Dove si può arrivare con il cavo, si utilizza quest’ultimo, che è più veloce. Le “antennine” del 5G si appoggiano alla banda larga, e servono a collegare tutti gli oggetti mobili, quelli che appunto non possono essere cablati: dai robot autonomi ai dispositivi di protezione sensorizzati dei lavoratori. Il 5G troverà una crescente applicazione nella mobilità, nella logistica e nel tracciamento dei prodotti. Ma la linea di produzione vera e propria resterà cablata».    

 

D: Qual è la situazione dei lavori della banda ultralarga in Italia?

Agcom copertura fibra in verde

R: «Nelle zone bianche, quelle non urbane, con una bassa densità abitativa, Open Fiber ha vinto più gare, con contratti di concessione ventennali. In un bando, si è impegnata a collegare con la banda ultralarga 4,6 milioni di unità immobiliari dietro 675 milioni di euro messi a disposizione da Infratel Italia, società in-house del Ministero dello Sviluppo Economico. Nelle zone nere, quelle urbane, si stanno costruendo due reti, quella Open Fiber tutta in fibra e quella Tim, in fibra fino all’armadietto e poi in rame fino a casa. Nelle aree grigie, dove è prevista una sola rete, Open Fiber aveva previsto, mesi fa, un’attività di ampliamento della copertura. Poi si è assistito, negli ultimi mesi, a forti sollecitazioni nella direzione della Rete Unica, con un solo ente gestore all’ingrosso, che metta insieme la rete secondaria di Tim e quella di Open Fiber. Solo che c’è un problema: lo schema potrebbe non piacere all’Antitrust della Commissione Europea».

 

D: Sollecitazioni governative?

R: «L’indirizzo dell’esecutivo sembra evidente».

 

D: Cosa accadrebbe se l’Antitrust europea dicesse no?

Agcom copertura rame adsl

R: «Sarebbe un bel guaio. Se si avvia il processo che dovrebbe portare alla rete unica AccessCo, e poi si blocca tutto, non solo non ci sarebbe la possibilità di realizzarla, ma anche si rallenterebbe il processo di infrastrutturazione già in corso, quello portato avanti da Tim e da Open Fiber, che tutto sommato è già ben avviato. Si assisterebbe ad un rallentamento di mesi, o forse di anni. Con un danno evidente per l’industria, ma direi per il Paese in generale».  

 

D: Ma ci sono dei rischi concreti che ciò accada?

R: «A mio avviso, è un’eventualità che non si può certo escludere. Se con la rete unica si creasse un soggetto terzo agli operatori di mercato, ovviamente nessuna questione sarebbe sollevata. Open Fiber non costituisce un problema, perché si occupa di realizzare la rete, che poi dà in gestione a terzi. Lavora all’ingrosso. Ma Tim è vende servizi al dettaglio, in concorrenza con altri operatori. E, secondo lo schema emerso giorni fa, avrebbe il controllo della rete unica, con il 50,1% delle quote di AccessCo. Personalmente, non sono certo che la Commissione Europea accetterà una cosa del genere. Il disegno appare in conflitto con le regole continentali».

 

D: E perché Tim non rinuncia a mantenere una posizione di controllo?

R: «Capisco e non giudico la posizione di Tim. Dal punto di vista economico e finanziario, non si può permettere di perdere la posizione di controllo o di vendere i propri asset. Ci perderebbe, e nessuna azienda può avere un obiettivo di questo genere».

 

D: E perché Open Fiber non ha deciso di fare tutto lei? Dopotutto, stava già implementando la rete Ftth, quella tutta in fibra. Qual è l’ostacolo?

Agcom copertura fibra rame

R: «È una questione complicata. Tecnicamente, Open Fiber ha le competenze per andare avanti da sola con l’infrastrutturazione. Il piano generale di Open Fiber, emerso l’anno scorso, prevede di cablare 20 milioni di unità immobiliare: occorrono investimenti miliardari. E Open Fiber, appunto perché è un operatore attivo esclusivamente all’ingrosso e che quindi non fornisce servizi ai clienti finali, può incontrare difficoltà nel ritorno degli investimenti, che non è così scontato. Si tratta anche di calcolare bene i tempi della redditività del capitale investito, visto che dopo un periodo predefinito deve restituire allo Stato la rete che ha realizzato. Per questo motivo, penso che abbia trovato plausibile il piano per la Rete Unica».     

 

D: Il piano è basato anche su una “aspettativa”, e cioè che Enel ceda il suo 50% in Open Fiber al fondo australiano Macquarie. Accadrà?

R: «Sinceramente non lo so. Tuttavia, l’impressione è che Enel sia della partita di Open Fiber perché, come società per azioni che ha come principale azionista lo Stato (il ministero dell’Economia e delle Finanze è a quota 23,6%; Ndr), non poteva esimersi di occuparsi di un tema di rilievo nazionale. Ma l’infrastruttura ultra-veloce non è il suo core-business, e così penso che potrebbe cedere la sua partecipazione per focalizzarsi esclusivamente sull’energia e sulle tecnologie avanzate che sta sviluppando in quel settore.  Ma la posizione di Enel è complicata, e gli sviluppi dipenderanno dalla strategia di impresa che la multinazionale guidata dall’ad Francesco Starace intende portare avanti».

 

D: C’è una ragione per pensare che la Rete Unica, quella gestita da un solo soggetto, possa portare ad una accelerazione del processo di infrastrutturazione della banda ultralarga?

Francesco Starace, ceo di Enel

R: «No. Non si riesce a reperire un motivo per pensarla così. Io, per lo meno, non sono in grado di rinvenirlo. Perché dovrebbero aumentare gli investimenti? Anzi, direi che tendenzialmente sul piatto ci sarebbero meno risorse, e ciò, considerati gli enormi costi dell’operazione, dovrebbe comportare una decelerazione del processo già in corso. Nella migliore delle ipotesi, le cose resteranno così come sono, nel senso che procederanno con la stessa velocità di evoluzione che si registra attualmente. A meno che l’esecutivo non abbia un asso nella manica: si potrebbero utilizzare le risorse del cosiddetto Recovery Fund (“Eu Next Generation”, fondo europeo dotato, a livello continentale, di una capacità finanziaria di 750 miliardi di euro. Per l’Italia, vale 209 miliardi, di cui 82 miliardi di sussidi e 127 di prestiti. Ndr). Dopotutto, tra i pilastri del Fund non ci sono solo gli strumenti a sostegno della ripresa post-Covid e le misure volte a stimolare gli investimenti privati: il terzo pillar riguarda il rafforzamento dei programmi strategici dell’Eu, anche in vista della transizione digitale».

 

D: Perciò, il Recovery Fund potrebbe determinare uno sviluppo importante

R: «Potrebbe. Ma anche qui, si ritorna alle ragioni dell’Europa. Le risorse del fondo non sono prove di condizionalità, e se la direzione generale della concorrenza della Commissione Europea dicesse “no” al progetto, non ci sarebbe modo di utilizzare fondi continentali».         

 

D: Dunque, ci sono molti “se” in questa vicenda

R: «Proprio così. Se tutte le cose andranno lisce, se i tanti “se” si trasformeranno in sì, allora, forse, si assisterà ad una progressione dell’infrastrutturazione della linea ultra-veloce. Ma se solo uno dei passaggi intermedi richiesti per l’impresa non andrà a buon fine, allora osserveremo il rallentamento di tutto il sistema. E questo, per l’industria, sarebbe un guaio. In realtà, per la progressione occorre un “incastro magico”. Speriamo solo che chi gestisce il dossier disponga di tutte le leve per governare la situazione: solo così il puzzle potrà essere completato».  














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