Smart working o lavoro agile? È questo il dilemma

di Renzo Zonin ♦︎ Il Covid-19 ha imposto il lavoro da casa. Ma per farlo diventare efficace e soddisfacente occorrono strumenti e metodi adeguati. Accessibili anche alle pmi. Ne parliamo con Federico Carozzi, Head of Product Marketing Italia di Lenovo, col quale passiamo in rassegna le soluzioni della multinazionale dei pc e dei server. Ma non solo...

L’arrivo della pandemia ha preso alla sprovvista la maggior parte delle aziende, e ha fatto emergere una nuova buzzword: smart working. Non è un concetto nuovo, ci sono aziende che hanno adottato questa modalità operativa già da diversi anni, ma la congiuntura nella quale ci troviamo ha dato un deciso colpo di acceleratore all’adozione generalizzata di queste tecnologie. Di fatto, se non si faceva parte della ristretta élite di aziende che producono beni essenziali, l’unico modo per restare operativi era di adottare lo smart working. Ma… siamo sicuri che quello schema operativo, implementato in fretta e furia, con gli impiegati che lavorano da casa propria, sia davvero smart working? Perché c’è un’altra parolina, magari meno modaiola, che viene sussurrata da più parti. Quello che si sta facendo in Italia, bisbigliano in molti, è solo telelavoro.

«Il telelavoro non è altro che un lavoro svolto in un posto differente rispetto all’ufficio – spiega Federico Carozzi, Head of Product Marketing Italia di Lenovo – Per esempio io posso, come operatore di un call center, non essere seduto fisicamente in sede ma in una località differente, dalla quale però svolgo lo stesso identico lavoro, e le dotazioni aziendali (telefono, PC, cuffia), gli orari e quello che mi viene richiesto di fare sono esattamente la stessa cosa. Quindi è semplicemente una delocalizzazione fisica del lavoro regolare, non c’è una diversa fluidità in questo tipo di rapporto. Lo smart working invece è la possibilità di lavorare in maniera fluida all’interno di quelle che sono le regolamentazioni del contratto di lavoro che il lavoratore ha con l’azienda. Gli orari possono cambiare, nel senso che posso lavorare nei momenti in cui serve; cambia il luogo di lavoro perché non ho un unico posto fisico, ma lavoro in diverse location a seconda dei momenti e di cosa devo fare in quel momento. E cambia soprattutto il rapporto che ha il lavoratore con l’azienda, perché invece di essere un rapporto tipicamente gerarchico, basato sul classico “devo lavorare X ore”, diventa più un rapporto di fiducia e di delega che si deve stabilire fra il dipendente e l’azienda stessa, un rapporto molto più focalizzato sui risultati e meno sul tipo di orario che svolgo per l’azienda stessa. Queste sono le principali differenze. Ovviamente quando si parla di telelavoro si parla di una cosa che si è fatta molto di più in passato, quando si parla di smartworking parliamo di una cosa molto più complessa e anche culturalmente differente».







 

Non è solo telelavoro

Federico Carozzi, Head of Product Marketing Lenovo

Già analizzando questa prima definizione dello smart working si intuiscono i problemi che la tipica azienda italiana avrà nel mettere in pratica questi principi, visto che in genere il dipendente nel nostro Paese viene misurato sull’orario di lavoro e non per obiettivi o su altri KPI. Senza contare i lacci sindacali sugli aspetti operativi veri e propri. «Ci sono due aspetti di cui tenere conto per implementare correttamente lo smart working. Uno è di tipo culturale, legato a un approccio completamente diverso su come va pensata l’azienda e come strutturare il rapporto con il dipendente. L’altro è di tipo tecnologico, ovvero la capacità di innovare nell’hardware, nei servizi e nel software necessari per attivare lo smart working – perché una cosa è volerlo fare e una cosa è farlo effettivamente. Se analizzo questi aspetti applicati alle nostre realtà economiche, vedo la differenza fra grandi e piccole aziende. Penso a Lenovo, o alle aziende che collaborano con noi come Microsoft, aziende che hanno investito da tanto tempo in modalità operative di lavoro che facilitano lo smartworking. Negli uffici di queste realtà, per esempio, non c’è un numero di posti che permetta a tutti i dipendenti di stare contemporaneamente in sede, perché sono pensati a monte per avere una percentuale di persone che lavorano in smartworking. Inoltre tutte le persone in azienda sono dotate delle tecnologie che permettono loro di lavorare in qualsiasi posto si trovino, tipicamente notebook con connettività 4G oggi, 5G in futuro, capaci di connettersi facilmente con tutti i software aziendali, cosa non banale. Io devo essere sicuro di poter accedere dall’esterno dell’azienda a tutte le strutture di informazione interne in maniera completamente sicura. Noi per esempio siamo rimasti a casa tra la fine di una settimana all’inizio della successiva, ma tutti eravamo già dotati di ciò che serviva e abbiamo avuto una totale continuità di business, senza interruzione. Citando un dato un po’ più ampio, due aziende su tre della Fortune 500 sono già attivate per la capacità di lavorare in smartworking. Questo denota come le grandi aziende abbiano già l’atteggiamento culturale e le infrastrutture tecnologiche per lo smartworking. Situazione diversa nelle PMI, e qui è un tessuto produttivo che se vado a declinarlo in Italia sono 3 o 4 milioni di piccole imprese, dove al contrario c’è un atteggiamento – un po’ culturale ma anche legato agli investimenti – che non facilitano l’adozione dello smart working, perché c’è una volontà di “controllare” in un certo senso ciò che fa il dipendente, e la modalità di controllo più semplice è misurare quanto tempo lavori. Mentre in realtà in molte delle attività che facciamo oggi, anche vedendo quanto è cresciuto il settore dei servizi, è più importante l’efficenza e la produttività piuttosto che quante ore faccio». Per la piccola azienda si tratta dunque prima di tutto di superare un gap culturale. Ma si sconta anche un ritardo tecnologico relativo alle dotazioni informatiche.

 

Implementare il modello

«Oggi c’è una forte richiesta da parte dei dipendenti di avere dispositivi che permettano di svolgere lo smart working, ma dall’altra parte c’è una resistenza da parte delle aziende. È anche vero che per esempio tante aziende sono ancora dotate di PC desktop. In queste ultime settimane abbiamo notato una fortissima richiesta di PC notebook, segno evidente che molte aziende non ne erano provviste e hanno dovuto dotarne i dipendenti perché potessero lavorare in modalità remota. Poi, una cosa è implementare un piano di smartworking in condizioni di emergenza, e una cosa è adottarlo come piano strategico aziendale per ottenere maggiore produttività, cosa che forse alcune aziende medio piccole, non avendo un ufficio IT capace di fornire una visione più ampia, fanno più fatica a implementare».

Viene da chiedersi se il problema sia solo “culturale” o se ci siano costi di implementazione tali da spaventare le Pmi e dissuaderle dal modello smart working per favorire quello “tradizionale”. «Gli investimenti di tipo hardware sono abbastanza equivalenti, i costi non presentano differenze particolari. I prezzi della connettività, sia da casa con linea fissa e Wi-fi, sia in remoto con il 4G, si sono abbattuti e non ci sono costi extra rilevanti. Poi però bisogna ripensare la struttura informatica dell’azienda, perché un conto è dire che voglio che le persone lavorino in remoto e un conto è essere pronti a farlo. Ho esempi di persone che lavorano in aziende non piccolissime, che hanno ricevuto tutti il notebook ma poi non se ne facevano nulla perché non avevano una VPN. Quindi non avevano la possibilità di accedere in modalità sicura alle risorse aziendali. Quindi non basta dare un PC portatile perché il dipendente lavori da remoto, è necessario che l’azienda ripensi i sistemi informativi (e lì l’investimento è più ampio) in modo da permettere al dipendente di accedere dall’esterno a risorse interne dell’azienda che, per ovvie ragioni, hanno requisiti di riservatezza e quindi vanno protette in modo efficace. Anche quanto è successo in queste settimane enfatizza il fatto che l’investimento necessario è molto più basso rispetto a quella che è la resa di questa tipologia di lavoro. Anche perché, anche indipendentemente da quello che sta succedendo adesso, la modalità operativa in smart working alla fine riduce le spese complessive dell’azienda, perché il maggiore investimento nella fase di implementazione porterà poi a una riduzione della spesa operativa. E questo perché basteranno spazi per uffici più piccoli e perché una dotazione più flessibile mi darà una maggiore produttività, eccetera».

Gli smart worker in Italia nel 2019. Fonte Osservatorio della School of Management del Politecnico di Milano

Supponiamo dunque che le aziende abbiano imparato la lezione di queste settimane. E che decidano, una volta passato il periodo caotico dell’emergenza, di dare il via a un serio progetto di smart working. Come dovrebbero procedere? «Ci sono tre aree principali sulle quali intervenire. La prima è la dotazione hardware, quindi avere PC che consentano di lavorare con la giusta autonomia e leggerezza in continuità, e che abbiano una serie di caratteristiche che sono spesso sottovalutate ma che quando mi trovo a lavorare da remoto diventano fondamentali. Per esempio, noi stiamo lavorando con i PC da casa e dobbiamo usare moltissimo le videoconferenze. Ora, io non ho mai collegato una cassa o un microfono al notebook, perché l’audio del PC – sia come altoparlante sia come microfono – è adeguato per fare una call e si sente benissimo. Sembra scontato, ma se mi trovassi a parlare ma la voce si percepisse male, fosse presente rumore di fondo eccetera, il lavoro rallenterebbe. Quindi l’hardware deve essere di una certa tipologia e robustezza. La seconda cosa è il software, che dividerei in due categorie. Una è la parte di comunicazione: devo disporre di programmi che mi permettano di comunicare con gli altri in remoto. Noi per esempio usiamo Teams di Microsoft in maniera estensiva. Qualunque cosa dobbiamo fare, facciamo una call di Teams e da lì condividiamo fogli di lavoro, invitiamo persone, scambiamo documenti. Ovviamente il programma di comunicazione deve essere semplice e intuitivo, deve funzionare senza doverci perdere tempo, noi lo stiamo mettendo a dura prova ma funziona tutto. Mentre l’altra parte è il software di infrastruttura dell’azienda stessa, che deve permettermi, quando sono in remoto, di fare le stesse cose di quando sono in sede. Quindi, io da remoto posso accedere a ogni sistema informativo aziendale, dove ho il repository con le informazioni sui prodotti, o l’andamento delle vendite, e posso scaricare i dati che mi servono. Ma posso anche inserire e gestire azioni come le ferie e i permessi; queste sono attività non strettamente legate al core business, ma se non riesco a gestire tutto il lato human resource direttamente online diventa più difficile parlare di smart working».

E poi, naturalmente, per partire nel viaggio verso lo smartworking c’è sempre da tenere presente quel discorso “culturale”, che presenta risvolti anche inaspettati. «Sembra una cosa banale però sappiamo di un’azienda medio grande, una società internazionale, nella quale i dipendenti non avevano la possibilità di andare in VPN e il problema era che il capo dell’azienda era contrario allo smart working. Torniamo quindi al discorso che il management deve andare in una certa direzione. Anche se penso che gran parte delle aziende di oggi abbia un management illuminato, che capisce che questo è un fatto positivo. Tra l’altro oggi abbiamo una forza lavoro sempre più giovane e quindi abituata a lavorare con certi dispositivi. E lo smart working diventa perciò un elemento per attrarre talenti: mentre in passato il semplice salario e la posizione come riconoscimento sociale erano elementi importanti, oggi la persona giudica più positivamente la flessibilità dell’azienda nella modalità di lavoro, la possibilità di muoversi o di differenziare gli orari, quindi lo smart working diventa un elemento di incentivo molto forte per legare il dipendente all’azienda».

Una videata di Microsoft Teams: semplice e intuitivo, è stato scelto da molte aziende e scuole per agevolare il lavoro da remoto e l’e-learning in tempo di Covid

Pronti, via!

Assodato che un piano per lo smart working degno di questo nome richiede una gestazione ponderata e non si può improvvisare dall’oggi al domani, soprattutto in mancanza di un radicale cambio di prospettiva culturale da parte del management, resta il fatto che molte aziende si accontenterebbero oggi di avviare nel migliore dei modi un’infrastruttura base per il telelavoro. E il primo dubbio, neanche a farlo apposta, è sul tipo di client: notebook o tablet? Elaborazione in locale o tecnologie VDI? «Lenovo ha in catalogo linee di tablet sia Windows sia a base Android, che si possono sfruttare se l’azienda dispone della piattaforma software necessaria a questo tipo di interazione. Però quanto sta succedendo in queste settimane ha riaffermato la centralità del PC, e del notebook in particolare. Sono anni che si dice che il PC stia morendo, ma appena c’è stato un momento critico come questo, dove serve concentrarsi su cose importanti, la richiesta forte che ci è arrivata dal mercato è stata di notebook. Perché, se devo lavorarci, il notebook è la soluzione con cui posso fare tante cose. I tablet invece li vediamo molto bene in ambienti verticali. Per l’order entry nei ristoranti, il car sharing, le consegne, e per tante altre applicazioni verticali stiamo avendo dai tablet riscontri molto positivi, dove non contano le limitazioni di potenza, dimensioni dello schermo eccetera, ma per l’uso lavorativo il PC ha riaffermato la sua centralità».

Lenovo Yoga 5G

Dopo il client, il secondo problema da risolvere è quello della connettività. In questo periodo, il traffico sulle reti dati è aumentato a dismisura, arrivando in alcuni casi a far scricchiolare l’infrastruttura. In futuro quali saranno le connessioni migliori da adottare? «A breve termine quelle che sono disponibili. Nel medio termine, il 5G sarà sicuramente una rivoluzione, perché non sarà solo una rete che va un po’ più veloce, sarà un salto quantico in termini di prestazioni e permetterà di fare delle cose di cui nemmeno ci rendiamo conto oggi. Pensate a quanto lo smartphone abbia cambiato la nostra modalità di interagire, di guardare le notizie eccetera, probabilmente il 5G avrà un impatto similare. Quando è arrivato lo smartphone nessuno pensava a un impatto così forte. Il 5G permetterà proprio la massima capillarità della mobilità, perché si sarà connessi a velocità elevatissima sempre e dovunque, il luogo dal quale mi connetto non farà più differenza perché sarò sempre connesso nel modo migliore. Lenovo ha anche presentato il primo notebook con il 5G integrato al mondo, dal punto di vista tecnologico i prodotti sono già pronti, ovviamente dobbiamo aspettare che anche le reti siano operative perché inizi la diffusione di massa, ma sarà un punto di rottura molto importante. Perché poi, è vero che ci deve essere da parte delle aziende la volontà di investire nello smartworking, ma è anche necessario che le tecnologie e le infrastrutture siano al passo con quello che si vuole realizzare. Quello che abbiamo oggi permette già di fare lo smartworking. In futuro diventerà ancora più scontato, e probabilmente questo periodo, che sta facendo vedere alle aziende quanto sia importante lo smartworking unito ad altre tecnologie che ci sono o che stanno arrivando, darà un’ulteriore accelerazione all’adozione di questi paradigmi».

Dormite preoccupati

In effetti, la situazione contingente ha messo sotto gli occhi di tutti un dato di fatto, ovvero che, a parte le aziende che producono generi di prima necessità, possono operare solo due tipi di aziende: quelle che già erano in smart working e quelle che sono riuscite a passare allo smart working. E fra i tanti rischi che le aziende prendono in considerazione quando stilano i Business Continuity Plan, ora appare chiaro che il rischio pandemia è altrettanto concreto del rischio incendio, del rischio terremoto, del rischio attacco hacker. E quindi va preso in considerazione, e non come “non-recurring-event”. Diversi esperti, sia dell’OMS che di istituti di ricerca privati e pubblici, sono convinti che eventi di questo tipo potrebbero ripetersi con maggiore frequenza e viralità. Come si tradurrà dunque questa nuova presa di coscienza del rischio? Le aziende si stanno preparando a un futuro fatto, ovunque possibile, di smart working?

«In questi casi mi piacerebbe avere la sfera di cristallo. Quello che abbiamo visto nel breve termine è una fortissima domanda di dispositivi. Tante aziende si sono trovate dall’oggi al domani a mettere in pratica uno smart working “rattoppato”, diciamo così. Non so cosa succederà nelle prossime settimane, ma nel medio termine ci sarà un forte investimento verso questa tipologia di soluzioni. Da una parte perché questo evento ha evidenziato quanto sia importante disporre di soluzioni di questo tipo, e dall’altra perché le aziende si renderanno conto che alla fine l’investimento vale la candela. È molto più alto il costo di rimanere su una soluzione vecchio stile che investire in una soluzione di smartworking, che magari nell’immediato mi dà costi leggermente maggiori, ma nel medio termine mi dà benefici enormi: permette alle persone di avere una modalità operativa che aumenta la produttività aziendale in modo rilevante. Abbiamo degli studi interni e ricerche esterne che mostrano come la produttività aziendale salga di qualche punto, oltre al beneficio di avere dei dipendenti che sono più soddisfatti perché magari possono fare una cosa spostandola all’interno della giornata come preferiscono, rispettando quindi gli impegni di lavoro, ma senza stare in ansia perché magari devono recuperare il figlio a scuola o fare una commissione personale. È un grosso beneficio rispetto a dover andare in ufficio 8 ore restando legati a determinati orari. Alla fine, si torna sempre al vecchio detto “chi più spende meno spende”. Ci vuole un po’ di capacità e di lungimiranza strategica da parte del management, che deve comprendere come il piccolo investimento per implementare lo smartworking si ripaghi sul medio-lungo termine. Come dicevamo prima, è un discorso legato all’approccio culturale».

Pro e contro dello smart working. Fonte Osservatorio della School of Management del Politecnico di Milano

Un futuro smart, se ci arriviamo

Per il dopo-pandemia ci aspetta quindi un futuro lavorativo basato sullo smartworking? È possibile, anzi probabile per tutta una serie di mansioni – pensiamo all’office automation e alla burocrazia in genere – dove le necessità operative non richiedono interazioni con colleghi o clienti che non possano essere trasferite su videocall. È quindi probabile che, nei prossimi mesi, si assista a un incremento dei fatturati (e delle quotazioni di borsa) delle aziende che forniscono soluzioni attinenti al telelavoro e allo smartworking, come sta già succedendo a titoli come Zoom, in controtendenza rispetto al drastico calo degli indici di queste settimane. C’è un solo dubbio per quanto riguarda questo scenario, in particolare per la realtà italiana: se la quarantena dovesse allungarsi ancora per varie settimane, molte aziende la cui operatività è stata bloccata inizieranno a chiudere. Aiuti di Stato in drammatico ritardo, soldi promessi sulla carta ma di fatto non erogabili, tasse differite di qualche mese ma non cancellate provocheranno nei prossimi mesi un prosciugamento praticamente totale della liquidità in molte realtà aziendali, che saranno costrette al fallimento. Il principio di Darwin, ovvero che gli animali che sopravvivono ai cambiamenti ambientali sono quelli che si adattano più velocemente alle nuove condizioni, vale anche per le aziende. Quelle che erano già pronte, e quelle che sono state rapide a cambiare pelle, adottando telelavoro e smartworking, avranno più probabilità di sopravvivere. Le altre dovranno rivedere le loro strategie e la loro impostazione operativa, in un periodo di crisi economica e con liquidità probabilmente ridotta all’osso. It will be no picnic, come dicono gli inglesi.














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