Industria: il prezzo dell’energia aumenterà ancora. Alberto Clò spiega perché

di Marco De' Francesco ♦︎ Il calo del prezzi dell'energia sbandierato dalla von der Leyen non ci sarà. Anzi: attendiamoci aumenti nel medio lungo termine. La causa? Le politiche UE che hanno affossato gli investimenti nell'oil&gas. Che ancora rappresentano l'82% della produzione energetica. L'impatto delle tensioni geopolitiche sul prezzo del gas? Quasi nullo. L'industria? Deve prepararsi a un periodo di incertezza

«Il mondo industriale, la manifattura, certamente non devono attendersi il calo dei prezzi dell’energia sbandierato dalla von der Leyen in vista delle prossime elezioni. Anzi: a medio e lungo termine, è lecito attendersi un loro aumento, trascinato dal costo del petrolio».  Lo pensa Alberto Clò, economista, accademico, e già ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato ai tempi del governo tecnico di Lamberto Dini (1995-96). Negli Anni Ottanta è stato membro del Cda di società quotate come Eni, Finmeccanica, Snam e Italcementi, e ha diretto la rivista Energia, fondata insieme a Romano Prodi.

Per Clò, il costo dell’energia è destinato ad aumentare a causa delle politiche (soprattutto EU) che hanno ridotto gli investimenti nell’industria petrolifera e del gas. Questo ha portato a una contrazione dell’offerta e a un aumento della domanda, contribuendo all’aumento dei prezzi. Inoltre, la crescita della richiesta di derivati del petrolio e la crisi della raffinazione in Europa aggravano la situazione, portando a un ulteriore incremento dei prezzi dell’energia nel lungo periodo. D’altra parte, non ci libereremo facilmente delle fonti fossili. Secondo McKinsey (Global Energy Perspective, 2022) nel 2050 si assisterà a livello globale ad un raddoppio della domanda di energia; che, per un terzo, sarà ancora coperta dagli idrocarburi.







In questo contesto, il Green Deal non aiuta; anzi, peggiora la situazione. A fronte di investimenti giganteschi, il conto del green è salato: ai costi diretti di produzione vanno aggiunti quelli necessari a costruire centrali che suppliscono alle rinnovabili quando non c’è vento o sole, quelli di adattamento delle reti elettriche, quelli per l’aggregazione delle partite al dispacciamento, quelli per gli accumulatori e altro. E l’incidenza sui consumi energetici è, a livello globale, molto bassa. Secondo il New Energy Outlook (Neo, del 2022), l’analisi di scenario a lungo termine di BloombergNef, per la decarbonizzazione globale occorre un investimento pari all’astronomica cifra di 194,2 trilioni di dollari, pari al Pil mondiale. Secondo la Fondazione Enel e The European House – Ambrosetti, una strategia nazionale “Net Zero”, e cioè un piano di radicale decarbonizzazione al 2050 di industria, trasporti, power, building e infrastrutture, si può realizzare con investimenti pari alla cifra “monstre” di 3.3 miliardi di euro; quasi il doppio del Pil italiano.

Peraltro, gli obiettivi del Green Deal sono sempre più improbabili. Per Clò, l’Europa dovrebbe adottare politiche climatiche più graduali, razionali e pragmatiche, considerando attentamente le implicazioni economiche delle sue decisioni.

Secondo la Fondazione Enel e The European House – Ambrosetti, una strategia nazionale “Net Zero” si può realizzare con investimenti pari alla cifra “monstre” di 3.3 miliardi di euro; quasi il doppio del Pil italiano.

D: Dice la von der Leyen che l’anno scorso, durante la crisi energetica, sono stati fatti molti investimenti. Una grande ondata di nuovi progetti di esportazione di Gnl (gas naturale liquefatto) sta arrivando sul mercato. E presto potremmo passare da una carenza globale di Gnl ad un’abbondanza di Gnl. Di conseguenza, ci aspettiamo un calo dei prezzi del gas. Accadrà?

R: Diciamo che già attualmente i prezzi del gas naturale manifestano maggiori condizioni di equilibrio: sono assai inferiori alle punte del 2023, ma ancora superiori ai prezzi tendenziali pre-crisi. Sotto questo profilo, va sottolineato un aspetto molto importante: la sostanziale irrilevanza, nella dinamica dei prezzi, delle tensioni geopolitiche.

D: Le tensioni geopolitiche non stanno influenzando la dinamica dei prezzi?

L’economista Alberto Clò.

R: Non stanno incidendo quasi per niente, almeno rispetto alla sensibilità storica. Dopo l’aggressione di Hamas del 7 ottobre, c’è stato un impatto limitato e temporaneo sul gas, ma nessuno sul petrolio. Venti anni fa le cose sarebbero andate diversamente.

D: E allora, quali fattori influenzano la dinamica dei prezzi dell’energia?

R: Ora, è vero che il prezzo del greggio sta aumentando, ma ciò è dovuto alle scellerate politiche energetiche specie europee e dell’Agenzia di Parigi che sostenevano non vi fosse più necessità di investire nell’oil&gas; che le disponibilità accertate erano in grado di coprire la domanda attesa e altre amenità. Da qui la decisione delle imprese di ridurre di molto i loro investimenti nella ricerca mineraria e nella estrazione. Si assiste così ad un aumento della domanda – che va conoscendo nuovi massimi storici – e ad una contrazione dell’offerta potenziale. Nel lungo periodo il petrolio aumenterà sempre di più, perché in questo contesto c’è grande bisogno di suoi derivati: prodotti chimici (solventi, lubrificanti, fertilizzanti, e polimeri), per l’edilizia (asfalto per strade e tetti, nonché vernici e isolanti) e per la cosmesi (creme, lozioni e shampoo). Sempre in questo contesto, in Europa assistiamo alla crisi della raffinazione, che viene svolta ormai in Paesi lontani.

D: Se la quota di energia green è in aumento, perché il prezzo dell’energia non cala?

R: Le politiche climatiche europee hanno costi enormi, ma non hanno peso sulla dinamica dei prezzi. Si assiste, peraltro, ad una narrazione del tutto divergente dalla realtà dei fatti.

D: E qual è la realtà dei fatti?

R: A livello globale, l’82% dell’energia è realizzata con le fonti fossili: alla fine, non è cambiato molto rispetto a 40 anni fa. A fronte di investimenti di migliaia di miliardi nel green, non si è verificato alcun impatto sui prezzi. Negli ultimi 10 anni le rinnovabili sono aumentate dal 2,2% al 7,4% sui consumi, e quindi del 5,2%. Di questo passo, per la completa decarbonizzazione del mondo, occorrerebbero 160 anni: la transizione richiede tempi lunghissimi, che non coincidono per niente con le aspettative tanto diffuse dai media. Il mondo rimarrà collegato alle fonti fossili ancora per decenni.

Negli ultimi 10 anni le rinnovabili sono aumentate dal 2,2% al 7,4% sui consumi, e quindi del 5,2%. Di questo passo, per la completa decarbonizzazione del mondo, occorrerebbero 160 anni.

D: Quanto si è speso a livello globale in energia green?

R: Nel 2023, gli investimenti in infrastrutture per l’energia green sono stati pari a 1,77 trilioni (migliaia di miliardi) di dollari. Sono spese enormi per risultati effimeri. Si pensi allo sforzo dei carmaker per lo 0,5% di auto green a livello globale.

D: Ma anche in una prospettiva futura, il green non diminuirà i prezzi?

R: Il green funziona solo grazie agli incentivi: non è vero che costa di meno. Ai costi diretti di produzione dovremmo aggiungere quelli necessari a costruire centrali che suppliscono alle rinnovabili quando non c’è vento o sole, i costi di adattamento delle reti elettriche e via andare, Insomma, le rinnovabili costano molto di più, considerato tutto questo. E ciò segna una sostanziale differenza rispetto a passate transizioni. Il driver è sempre stato il mercato: penetrava una fonte che costava molto di meno e migliorava la qualità dei servizi energetici. Nel caso del green, invece, la transizione non poggia sul mercato, ma sulla mera politica. Le future generazioni rimpiangeranno amaramente le scelte della nostra sulle rinnovabili, visto che sono in mano alla Cina, che è il principale produttore mondiale di pannelli solari fotovoltaici. Le sue aziende dominano il mercato globale. E la Cina è anche un player importante per le turbine eoliche, e detiene una posizione dominante nella produzione e nell’estrazione di terre rare, controllando circa l’80-90% della produzione mondiale. Infine, è anche un importante produttore di altri metalli chiave per la transizione green, come il litio, utilizzato nelle batterie dei veicoli elettrici, e il cobalto. Insomma, si pone un problema, perché la dipendenza da un’unica fonte di approvvigionamento può rendere vulnerabili le industrie e le economie globali. E poi, prima o poi in molti si renderanno conto che rispetto alla Cina i Russi del gas sono come i boy scout.

D: La “summa” delle politiche energetiche europee è il Green Deal. Quale effetto sta avendo sull’economia?

R: Il Green Deal, oltre che avere costi enormi per l’economia europea, ne riduce la competitività. Peraltro, tutte le decisioni politiche che hanno contribuito alla sua definizione mancano del criterio democratico della trasparenza: i cittadini europei non ne sapevano niente, e sono venuti a conoscenza delle decisioni della Commissione o del Parlamento a cose fatte. Si pensi alla circostanza che saranno costretti a disfarsi della caldaia a gas per installare la pompa di calore, o si pensi in generale alla direttiva Case Green che potrebbe costare ad ogni famiglia dai 70mila ai 100mila euro per appartamento, nell’impossibilità spesso di disporne. Si sta innalzando un ostacolo sociale al Green Deal.

Secondo il New Energy Outlook (Neo, del 2022), l’analisi di scenario a lungo termine di BloombergNef, per la decarbonizzazione globale occorre un investimento pari all’astronomica cifra di 194,2 trilioni di dollari, pari al Pil mondiale.

D: In che senso si sta generando un ostacolo sociale al Green Deal?

 

R: La gente non ne può più, e ovunque sorgono movimenti anti-ambientalisti. Lo scorso settembre Frans Timmermans, il padre e il principale architetto del Green Deal, ha scelto di abbandonare la sua posizione di vicepresidente della Commissione Europea per correre come candidato alle elezioni olandesi, guidando la lista congiunta dei Socialdemocratici (PvdA) e dei Verdi (GroenLinks). L’obiettivo era sfidare la destra per la leadership del governo de L’Aia. Ecco, nonostante il ritiro del moderato Mark Rutte, nella verde olanda Timmermans è stato sonoramente “trombato”: ha vinto la destra nazionalista di Geert Wilders.  Gradualmente, alle elezioni politiche di tutta Europa i cittadini inizieranno a premiare i partiti con posizioni più moderate sull’ambiente, a discapito degli estremisti.

D: Cosa deve aspettarsi l’industria?

R: È difficile prevederlo, perché penso che molti Paesi, come la Francia, inizieranno a fare un passo indietro rispetto alle politiche green. La Francia terrà accese due centrali a carbone fino al 2027. In Germania, il piano per costruire 9.700 chilometri di rete per il trasporto dell’idrogeno è stato posticipato al 2037. Nelle istituzioni europee, però, la retorica verde va sempre per la maggiore, e fioccano le fandonie sulla decarbonizzazione in tempi brevi. Più si sospetta che ciò non sia possibile, più si alza l’asticella degli obiettivi. Ci accorgeremo presto di quale forza prevarrà. Certo, tutto questo genera una situazione di enorme incertezza per l’industria, che quando non sa cosa fare si ferma. Anche in Italia non si capisce come finiranno certe vicende, in questa guerra fra concretezza e astrazione.

Secondo McKinsey (Global Energy Perspective, 2022) nel 2050 si assisterà a livello globale ad un raddoppio della domanda di energia; che, per un terzo, sarà ancora coperta dagli idrocarburi.

D: A cosa si riferisce, quanto all’Italia?

R: Davide Tabarelli, uno dei tre commissari di Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria (gli altri due sono Giovanni Fiori e Giancarlo Quaranta), ha affermato che Taranto è l’acciaieria “più pulita del mondo”. Lo ha dichiarato pubblicamente, sottolineando la necessità di affrontare le sfide ambientali, partendo dalle bonifiche. A tutti è venuto in mente il piano di Enrico Bondi che, dopo aver salvato Parmalat, nel 2013 era stato nominato commissario dell’allora Ilva. Bondi aveva pianificato una trasformazione significativa del ciclo produttivo dell’acciaieria, passando dall’utilizzo del carbone fossile al gas naturale. Questo cambiamento avrebbe coinvolto l’adozione della tecnologia del preridotto, un semilavorato contenente principalmente ferro metallico, incluso il rottame. Si prevedeva un calo del 63% delle emissioni di anidride carbonica se il passaggio al preridotto fosse stato completamente realizzato. Inoltre, nella prospettiva più radicale di produrre solo preridotto, senza più altiforni in funzione, si sarebbero eliminate le cokerie, riducendo al minimo gli idrocarburi policiclici aromatici come il benzopirene. Come noto, Bondi, che aveva le idee giuste, fu bloccato dalla politica, con la nomina a commissario di Piero Gnudi. Comunque sia, non si capisce cosa intenda fare e come intenda farlo Tabarelli.

D: C’è qualcosa che l’Europa e il Governo possono fare per l’industria?

R: Bisogna rendere più graduali, razionali, pragmatiche le politiche climatiche, avendo bene a mente le conseguenze economiche delle decisioni che si adottano. Tanto gli obiettivi non saranno mai raggiunti nei tempi previsti dall’Europa. Sotto questo profilo, è già un fallimento. Si pensi alle auto green: per realizzare le politiche verdi, bisognerebbe vendere un milione di macchine all’anno a zero emissioni, contro le 50 mila dello scorso anno. In sintesi, dobbiamo adottare un approccio più realistico per garantire una transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio, senza compromettere nel frattempo la competitività economica e il benessere sociale del Paese.














Articolo precedenteTutto sulla Transizione 5.0 nell’evento di Telmotor e Siemens al Kilometro Rosso (Bergamo, 8 maggio)
Articolo successivoWeerg, in arrivo il servizio di tintura per la stampa 3D






LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui