Covid e crisi strutturale indeboliscono la Germania: che cosa succederà alla manifattura italiana?

di Laura Magna ♦︎ Con un pil in calo del 5%, anche Berlino ha sofferto la pandemia. Pessima notizia per l’industria nostrana: i tedeschi sono il nostro primo partner commerciale. Il valore dei beni esportati verso il Paese teutonico dall’Italia rappresenta il 12,5% del totale del nostro export. L’automotive e i nuovi mercati di sbocco per la meccanica. Ne parliamo con i professori Carlo Altomonte (Università Bocconi), Marco Taisch (PoliMi), Luca Beltrametti (Università di Genova)

La locomotiva d’Europa perde quota e rischia di trascinare con sé l’Italia. La Germania ha chiuso il 2020 con il Pil in calo del 5% e ha aggiornato al ribasso (dal +4,4% al +3%) le stime sulla crescita del 2021, indebolita dalla recrudescenza del virus e dal secondo severo lockdown. È una pessima notizia anche per la nostra industria e per il nostro Pil. Berlino è il nostro primo partner commerciale: i sistemi di produzione italiano e tedesco sono fortemente interconnessi, in quanto l’Italia è un importante fornitore di prodotti intermedi e beni capitali alle imprese tedesche e foraggia anche l’export tedesco (un quarto del valore aggiunto esportato dall’Italia viene ri-esportato dalla Germania verso Paesi terzi e su questo valore si basa anche il surplus commerciale di Berlino). 

Il valore dei beni esportati verso la Germania dall’Italia rappresenta il 12,5% del totale dell’export italiano e un quarto di quanto esportiamo in tutta l’Ue. Sull’export in generale si è basata la debole crescita del Pil italiano nell’ultimo decennio e l’export è ciò che ha impedito un tracollo peggiore della nostra economia nell’annus horribilis 2020. Tanto per avere un’idea del dato, basti ricordare che nel 2019 questa voce ha pesato per il 31,7% del Pil italiano. Ma forse in futuro non potrà più essere così: è probabile infatti che al di là del rallentamento contingente generato dal Covid, gli scambi commerciali con la Germania si riducano strutturalmente. Proprio per riequilibrare il saldo della bilancia commerciale: il surplus equivale al 9% del Pil e dunque si colloca ben oltre la soglia del 6% fissata dall’Ue e non è sostenibile all’infinito per l’economia europea. E se l’export italiano verso la Germania è destinato a ridursi strutturalmente, la nostra industria dovrà guardare a nuovi mercati per non perdere ulteriore terreno, in primis alla Cina (nel 2020 per la produzione industriale italiana l’Istat stima un calo dell’11,4% annui su anno).







Abbiamo analizzato lo status quo a partire dai numeri degli istituti di statistica nazionali italiano e tedesco e della Camera di Commercio italo tedesca e abbiamo parlato dei possibili sviluppi futuri con Carlo Altomonte, professore di Politica economica europea dell’Università BocconiMarco Taisch, docente della School of Management del Politecnico di Milano e di Sistemi di Produzione Automatizzati e Tecnologie Industriali presso lo stesso ateneo e con Luca Beltrametti, professore di politica economica dell’Università di Genova.

Berlino è il nostro primo partner commerciale: i sistemi di produzione italiano e tedesco sono fortemente interconnessi, in quanto l’Italia è un importante fornitore di prodotti intermedi e beni capitali alle imprese tedesche e foraggia anche l’export tedesco

I nuovi numeri del Pil tedesco

Partiamo dai numeri. Dopo che l’Fmi aveva già ridotto le sue previsioni sulla ormai ex locomotiva d’Europa, al 3,5% (-0,7% rispetto a ottobre), anche il governo nazionale tedesco si è allineato. L’attesa è che il Pil cresca solo del 3%, dal 4,4% individuato come target lo scorso autunno. Ed è un numero, quello tedesco, che si fa più pesante per l’Italia anche alla luce delle previsioni già non rosee per il nostro Paese. Sia l’Fmi ha tagliato le stime, di ben 2,2 punti percentuali sul nostro Paese, al 3%, dopo il crollo del 9,2% calcolato per il 2020. Secondo Bankitalia il Pil non crescerà oltre il 3,5% con «rischi ancora elevati», dall’evoluzione della pandemia all’indebitamento delle imprese. Allarme per il debito delle imprese arrivato anche dal Centro Studi di Confindustria nell’ultima Congiuntura flash. «I prestiti alle imprese sono al +8,1% annuo; tuttavia, la domanda “emergenziale” rimane limitata a finanziare il capitale circolante», non i nuovi investimenti, e «le prospettive per il 2021 restano fosche», scrive Confindustria. Secondo cui una vera ripresa si potrà avere solo da metà 2021 se i vaccini abbatteranno l’emergenza sanitaria e faranno ripartire fiducia e domanda.

La quota di mercato dell’Italia sulle esportazioni mondiali è stabile al 2,84%, ma dai numeri si scorgono importanti potenzialità: in 9 dei 15 mercati principali di import mondiale (cfr. in rosso nel grafico sottostante) la quota italiana è inferiore alla quota di mercato media dei nostri prodotti nel mondo. Sono quindi chiare le opportunità per l’Italia sia nei mercati internazionali di grandi dimensioni, come USA, Giappone e Canada, sia in mercati ad alta crescita come Cina, India e Corea del Sud

Il valore dell’interconnessione italo-tedesca

Il legame commerciale e industriale tra Italia e Germania si quantifica nell’interscambio tra i due Paesi che nel 2019 si era attestato a attestandosi sui di 127,7 miliardi di euro (-0,5%), secondo Istat. Il dato 2019 segnalava comunque un livello record per le esportazioni italiane verso la Germania: a quota 58,1 miliardi di euro (-0,1% rispetto al 2018) mentre il valore delle importazioni si era attestato a 69,6 miliardi di euro (-0,8% rispetto al 2018). Il 2020 ha visto finora invece numeri molto diversi. Fino a ottobre, l’export è ammontato a 46 miliardi e l’import a 49 miliardi con un calo rispetto ai nove mesi del 2019 rispettivamente del 7,2% e del 14,6%.

A fine 2019 la Germania resta il primo partner commerciale dell’Italia, con un interscambio bilaterale quasi pari alla somma degli interscambi dell’Italia con Francia e Spagna insieme. Analogamente importanti sono i rapporti nel campo degli investimenti e delle integrazioni e collaborazioni industriali. Si stima che la somma degli Investimenti Diretti Esteri italiani in Germania, e di quelli tedeschi in Italia, ammonti a quasi 100 miliardi di euro. Secondo la Camera di Commercio italo tedesca, i flussi principali riguardano i settori dell’automotive, dei macchinari, del chimico/farmaceutico e dell’elettrotecnica/elettronica: per esempio l’automotive vale l’11,4% dell’export italiano verso la Germania e il 16% di quello tedesco verso l’Italia. Le macchine occupano una fetta del 14,5% nel flusso Italia Germania e del 13,8% nella traiettoria inversa. Ancora, il pharma vale 14,4% nella via da Milano a Berlino e il 18,6% nella direzione opposta.

Il dato 2019 segnalava comunque un livello record per le esportazioni italiane verso la Germania: a quota 58,1 miliardi di euro (-0,1% rispetto al 2018) mentre il valore delle importazioni si era attestato a 69,6 miliardi di euro (-0,8% rispetto al 2018). Il 2020 ha visto finora invece numeri molto diversi. Fino a ottobre, l’export è ammontato a 46 miliardi e l’import a 49 miliardi con un calo rispetto ai nove mesi del 2019 rispettivamente del 7,2% e del 14,6%. Fonte Elaborazioni Ambasciata d’Italia su dati Agenzia ICE di fonte ISTAT

Gli effetti del rallentamento dell’export italiano verso la Germania

Secondo il professor Beltrametti, «per l’Italia l’export verso la Germania ha rappresentato finora, anche nell’anno drammatico del Covid, un freno alla caduta del Pil. Tra gennaio e ottobre 2020, rispetto all’analogo periodo del 2019, l’export italiano verso la Germania è calato del 7,2%, mentre l’export complessivo italiano è calato del 10,8%. Così se il Pil 2020 è caduto di oltre il 9%, l’export verso la Germania a fine 2020 rispetto a pre pandemia è sceso del 4,6%». Insomma, possiamo parlare di tenuta. Ma cosa succede se rallenta la Germania? In questo caso bisogna valutare, secondo il professore, se il rallentamento sia da ricondurre a una crisi di domanda interna tedesca o alla capacità tedesca di esportare. «Nell’export tedesco dell’Italia le componenti sono due e vanno ad alimentare appunto queste due anime: da un lato i consumi interni di agroalimentare e beni durevoli italiani, dall’altro la componente che alimenta l’export di Berlino, che è la componentistica, e dunque le grandi filiere dell’automotive e la meccanica. Per comprendere a pieno l’evoluzione della dinamica bisognerà attendere i prossimi trimestri. Ma di certo c’è che è difficile pensare che la Germania possa vivere per sempre solo di export, si dovrà immaginare un aggiustamento di qualche tipo. Non è solo il debito/Pil a creare disequilibri ma anche un avanzo permanente».

A fine 2019 la Germania resta il primo partner commerciale dell’Italia, con un interscambio bilaterale quasi pari alla somma degli interscambi dell’Italia con Francia e Spagna insieme. Analogamente importanti sono i rapporti nel campo degli investimenti e delle integrazioni e collaborazioni industriali. Si stima che la somma degli Investimenti Diretti Esteri italiani in Germania, e di quelli tedeschi in Italia, ammonti a quasi 100 miliardi di euro. Fonti Destatis; MAECI

 

L’export tedesco contiene sempre più prodotti italiani a valore aggiunto

Carlo Altomonte, professore di Politica economica europea dell’Università Bocconi

E la Germania come abbiamo accennato in apertura vive di disavanzo commerciale. Con un surplus aggregato delle partite correnti che vale permanentemente sopra il 6% in rapporto al Pil fissato dalla Ue come soglia superiore. Circa il 21% del valore aggiunto domestico esportato dai Paesi europei verso la Germania viene poi ri-esportato dalla Germania stessa. Per le esportazioni italiane l’effetto è particolarmente rilevante, anche perché è andato crescendo. «Nel 1995 sia Germania che Francia “veicolavano” verso paesi terzi circa il 14% delle nostre esportazioni. Mentre la quota è rimasta quasi invariata per la Francia, oggi circa il 25% del valore aggiunto italiano esportato verso la Germania viene poi veicolato verso paesi terzi», dice Altomonte che precisa che solo in presenza di un’economia forte questo sistema può reggere.

 

Gli indicatori sulla mobilità ci fanno vedere quanto rallenta l’economia

Ma oggi la Germania non è più forte. Continua Altomonte: «Il secondo lockdown non era nei numeri delle stime di ottobre, poiché Berlino riteneva che avrebbe gestito una seconda ondata meno violenta, cosa che è stata sconfessata dai fatti proprio in particolare in Germania e in Gran Bretagna». Per Italia, Francia e Spagna la seconda ondata è stata invece effettivamente meno violenta: il numero che Altomonte guarda per misurarla è l’indicatore di mobilità di Google che anche Ocse ha introdotto come parametro di valutazione. «A marzo e aprile 20202 per Italia Francia e Spagna, questo indicatore di mobilità era sceso dell’80% rispetto alla norma; con l’estate restava sotto solo del 15% e poi con il lockdown autunnale si è attestato al -30%. Per la Germania che la prima volta si era fermata a -65%, oggi ha perso il 40%- ma potrebbe peggiorare ancora in vista di ulteriori restrizioni».

È proprio l’approccio con cui si affronta la pandemia la causa del rallentamento europeo e di quello tedesco in particolare oggi, secondo Altomonte. «Negli Usa l’economia resiste, ma solo perché si sta facendo correre il contagio e stringendo meno le maglie delle attività produttive. Così gli indicatori delle aspettative economiche sono più positivi, scontando quasi un rischio di inflazione. Dunque potremo vedere una continua accelerazione degli Usa fino a metà anno, con l’Europa che arretra e poi, anche grazie all’effetto del Recovery e alla distribuzione dei vaccini, un’inversione di tendenza».

 

Guardare a nuovi mercati di sbocco per l’industria meccanica: Cina e Usa

Marco Taisch, presidente del Made e professore al Politecnico di Milano

L’economia che rallenta in Germania, in conclusione, impone ai nostri produttori di macchine di guardare ad altri mercati, secondo il professor Taisch del Polimi: mercati dove sono destinati a spostarsi i giochi nel futuro. «Venderemo meno macchine sul mercato interno e anche verso la Germania, perché la domanda di prodotti finali calerà e con essa la produzione e la domanda di macchine. La risposta più ovvia sarebbe virare l’export verso la Cina che invece presenta un surriscaldamento evidente. Vedo anche margini sugli Usa, perché probabilmente con il nuovo presidente e nuove politiche industriali, ci sarà una distensione dei rapporti con la Cina e questo avrà un riflesso positivo sull’Europa». Europa che da un lato agirà in maniera più coesa, come hanno auspicato a fine gennaio a Davos sia Angela Merkel, sia la presidente di Bce Christine Lagarde e la presidente della Commissione Ursula von der Leyen; dall’altro attribuirà maggiore credibilità al nostro Paese con l’arrivo di Mario Draghi che ha già comportato un’importante riduzione del rischio Paese, con lo spread Btp-Bund sceso sotto i 100 punti. Il che si traduce in maggiore liquidità (o minori interessi sui prestiti).

 

Draghi ci porta in Europa, ma può fare poco per la nostra burocrazia monstre

Luca Beltrametti, docente di politica economica all’Università di Genova

«Il nostro Parkinson politico non è tranquillizzante per i nostri partner europei: le continue crisi non ci fanno bene nel lungo periodo. In questo periodo c’è bisogno di stabilità, credibilità del paese che si ripercuote sull’industria», dice Taisch, secondo cui, d’altro canto, gli imprenditori sono pronti a ripartire e a investire. «Il mio osservatorio legato a conversazioni legato a imprenditori, è che la produzione industriale sia ripartita e siano ripresi gli investimenti. Questo nella meccanica: c’è una dimensione di fiducia in una direzione positiva ma che dovrebbe essere sostenuta con il Pnrr. Io ritengo che quello realizzato dal governo Conte non fosse da buttare come spesso sento dire in queste settimane, ma che sulla parte industria e verde contenga le idee giuste. Ovvero investimenti sui fondamentali della ricerca e del trasferimento tecnologico, in formazione su medie e superiori. Il tema sarà l’implementazione: esiste il rischio che la macchina amministrativa non riesca a caricare a terra progetti ambiziosi nei tempi e nei modi utili all’industria». E contro la burocrazia probabilmente neppure Draghi potrà fare molto.














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