Macron punta una fiche da 8 miliardi sull’elettrico. E Fca?

di Marco de' Francesco ♦︎ Il Governo francese investe per conquistare la leadership europea dei veicoli green. I destinatari del maxi piano Psa e Renault, finanziati per produrre in patria. Mentre il Gruppo guidato da Manley porta sulla piattaforma di Tavares la filiera auto segmento B. Vicende che fanno riflettere sulla totale assenza di politica industriale italiana e sul futuro della nostra industria

Linea di assemblaggio in stabilimento Fca

Che ne sarà di Fca Italy se, dopo la fusione con Psa, l’elettrico sarà nelle sole mani della multinazionale francese? Carlo Tavares, il Ceo del gruppo parigino che guiderà un Cda più transalpino che italiano, potrebbe trovarsi nella condizione di dover decidere se dare il via libera al disegno del Lingotto, e cioè all’utilizzo di piattaforme comuni per la produzione di auto green, o adeguarsi alla Raison d’Etat dell’Eliseo. Facile immaginare che cosa farà, vista la situazione e visto che egli è espressione diretta di Psa che, come abbiamo scritto qui, ha di fatto comprato Fca.

Infatti il governo francese ha varato il “Plan de soutien à l’automobile. Pour une industrie verte et compétitive”.  Dal documento si evince che Parigi intende diventare il Paese leader in Europa per l’auto elettrica. Sfida la Germania – che con 400 miliardi di fatturato dell’automotive e 5,5 milioni di veicoli prodotti è leader assoluto nel Vecchio Continente e fra i primi al mondo, esprimendo colossi come Volkswagen e Daimler. È un piano industriale ad ampio spettro che ha anzitutto l’intento di rimettere in moto, dopo lo stop del Covid 19, il sistema produttivo di comparto, che vale 155 miliardi e incide per il 18% sul fatturato manifatturiero d’Oltralpe. Per fare un paragone, l’automotive italiano conta per il 16% sull’equivalente grandezza nostrana, con un valore di 140 miliardi.







La Francia è uno Stato, e come tale indica la direzione, dà e impone. Dà, perché mette sul piatto incentivi per oltre 8 miliardi, a favore di produttori e componentisti. Impone, perché c’è una contropartita diretta – e lo ha chiarito lo stesso presidente Emmanuel Macron – per Psa e Renault, i due colossi dell’auto francese: sono chiamati a produrre in Francia le tecnologie per la transizione al green. Non è reperibile, invece, un indirizzo italiano sull’automotive. A meno che non ci si riferisca al prestito senza condizioni da 6,3 miliardi di euro ad Fca, erogato da Intesa San Paolo e garantito dallo Stato attraverso Sace, società di Cassa depositi e Prestiti. L’elargizione ha già incassato il sì di entrambi gli enti. A babbo morto, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha affermato che la dazione servirà a sostenere le attività italiane, ma è difficile reperire una contropartita nero su bianco.

Mike Manley, ceo Fca

La fusione, prevista per gli inizi del 2021, è peraltro sempre più complicata. La Commissione Europea è preoccupata per l’eccessiva concentrazione che verrebbe a verificarsi con il merger nel settore furgoncini. E dell’entità derivante dall’operazione, peraltro, non farà parte Comau, gioiello italiano della robotica oggi nel perimetro di Fca, che sarà piazzato nella Borsa Italiana. Tornando alla domanda iniziale, resta da capire cosa farà Tavares, nel caso in cui la fusione si faccia. Ne abbiamo parlato con lo storico dell’economia (che ha diretto l’Archivio Storico Fiat dal 1996 al 2002) della Bocconi Giuseppe Berta.

          

Le mire egemoniche della Francia sull’elettrico: obiettivo leadership europea 

Il rapporto tra Fca e Psa sembra riflettere quello tra gli Stati di appartenenza. Anzi, tra il Paese Italia e lo Stato Francese. Il primo è paragonabile ad una noce di cocco persa tra le onde dell’oceano. Non è capace di dare una direzione, perché in effetti non ne ha una, almeno nelle cose che contano. Uno Stato è una cosa che dà e che prende, che distribuisce e che ordina, che devolve e che ottiene al contempo: c’è sempre una contropartita, perché l’interesse dei privati non può prevalere su quello di tutti, su quello pubblico. Uno Stato è, appunto, la Francia. Basta dare un occhio al piano transalpino per l’automotive per rendersene conto. Il Plan de soutien à l’automobile è semplice ma completo, e ruota attorno all’interesse esclusivo di Parigi. Una premessa: il Covid 19 è stato ovunque un potente catalizzatore di iniziative di reshoring, almeno sulla carta. Il virus ha sconvolto e interrotto le filiere di approvvigionamento internazionali, e questo ha rimesso in circolazione l’idea di accorciarle, e non solo nei pressi dell’Eliseo. Da qualche parte si è cominciato a capire che le produzioni strategiche non possono essere del tutto rimesse al mercato, né se ne può legare la sorte a quella di Paesi lontani. La cosa migliore è che il banco abbia sempre in mano le carte vincenti. Non che l’automotive francese non abbia patito la crisi – la domanda è crollata pure lì, con un calo delle immatricolazioni del 70% a marzo e del 90% ad aprile – ma l’impressione è che l’Eliseo ne abbia approfittato per fare un passo in avanti in questa direzione, step che in un regime di normali rapporti con l’Europa forse non sarebbe stato neppure immaginabile.

Lo storico dell’economia Giuseppe Berta

Quanto alle concessioni, Parigi mette sul piatto oltre 8 miliardi. Anzitutto, dal primo giugno sono partiti gli incentivi (fino ad un massimo di 7mila euro) per l’acquisto di auto elettriche, i bonus di 2mila per le ibride plug-in e i sussidi (fino a 4mila euro) per la rottamazione di vecchi veicoli diesel e benzina o per l’installazione di tecnologie adatte alla riduzione delle emissioni. Il piano punta tutto sul green. «Si tratta anzitutto di smaltire un invenduto di 400mila veicoli e di eliminare tutti quelli che non saranno più conformi alle direttive europee sulle emissioni» – afferma Berta. Viene finanziata la realizzazione di 100mila stazioni per la ricarica entro il 2021. Viene creato un fondo per l’automobile del futuro, dotato di 1 miliardo di euro e destinato a modernizzazione e digitalizzazione delle catene di produzione, alla trasformazione ecologica del settore e all’innovazione. In dettaglio, 600 milioni di investimenti sono destinati a consolidare il comparto, 200 milioni alla decarbonizzazione della produzione, e 150 milioni ad aiuti a favore di ricerca e sviluppo. Si prevede una riduzione dell’Iva per l’acquisto di auto green. Speciali bonus sono stabiliti per famiglie a basso reddito. Gli acquirenti pubblici, compreso lo Stato, accelereranno il rinnovo delle loro flotte di veicoli. Il governo adotterà nelle prossime settimane una circolare relativa alle flotte che impone un obiettivo del 50% di mezzi elettrici, ibridi o a idrogeno per gli acquirenti pubblici. Viene definita l’implementazione di un massiccio piano di sviluppo delle competenze, con significativa riduzione del costo, per le aziende, dei giovani in alternanza scuola-lavoro. Il piano riguarda sia i carmaker che i grandi supplier: una nuova carta sarà firmata tra gli attori di filiera per rafforzare le basi di un rapporto equilibrato tra appaltatori e subappaltatori. Nei prossimi tre anni, oltre 1 miliardo di euro sarà investito in Francia dai principali produttori di apparecchiature in tecnologie di transizione energetica (batterie, propulsori elettrici, tecnologie a idrogeno. C’è poi la questione dei prestiti statali a Psa e Renault. Il ministro dell’economia Bruno Le Maire si è detto pronto ad aiutarle, alla condizione che approfondiremo tra poco, e cioè che «portino le fabbriche in Francia»; d’altra parte nel documento si legge che prosegue la strategia di localizzazione in patria di attività di ricerca e produzione ad alto valore aggiunto. In realtà lo Stato, che detiene il 15% di Renault e il 13% di Psa, ha già concesso alla prima una garanzia su prestiti bancari per 5 miliardi di euro. Quanto a Psa, ci sarebbero ragionamenti in corso.     

Il ministro dell’economia francese Bruno Le Maire

Come si diceva, c’è la contropartita. Il punto di partenza è che il premier Emmanuel Macron e il ministro Le Maire considerano l’automotive “un enjeu stratégique pour l’économique française” e “une filière industrielle essentielle pour la France” e mirano, con il piano, a sfidare il colosso tedesco. Viene messa da parte, come rilevato da Berta «qualsiasi valutazione del contesto continentale, che pure è importante, soprattutto in vista della fusione tra Fca e Psa, che peraltro è imminente. D’altra parte, non si tiene conto delle relazioni industriali con gli Stati Uniti, che pure sono coinvolti nel merger; e con il Giappone, sebbene Mitsubishi e Nissan siano parte dell’Alleanza con Renault, e non da ieri; e con la Cina, nonostante la joint venture di Psa con Dongfeng». La Francia esprime con il documento la ricerca del primato nel settore e vere e proprie mire egemoniche. Si rende conto che il comparto è in difficoltà, ma anche che è il momento giusto per cercare l’azzardo, nella confusione generale. L’automotive oltralpe vale 155 miliardi, occupa 400mila persona e sforna 2,2 milioni di veicoli all’anno; più che in Italia, dove con circa 93 miliardi di ricavi, in Italia l’auto vale il 6% del Pil nazionale, dà lavoro a 5mila aziende e 250mila persone. Sempre nel Belpaese, però, attorno a questo settore ruota un altro comparto, quello della componentistica che, con multinazionali del calibro di Sogefi, Brembo, Trw e Skf in testa, vale 46,5 miliardi, e cioè grossomodo il 3% del Pil. Parigi sa bene che per conquistare quote di mercato sul modello vincente, quello green, occorre accelerare i tempi. In questa prospettiva, il piano europeo per la produzione su larga scala di batterie per veicoli elettrici può andar bene, perché alla fine a guidare il consorzio continentale è Psa, con la sussidiaria tedesca Opel e il produttore francese di generatori Saft. Pertanto gode di un finanziamento pubblico statale francese di 690 milioni di euro. Ma il corrispettivo da pagare da parte dell’industria dell’automotive transalpina per gli aiuti è, come si è già detto, evidente nel Plan de soutien à l’automobile: le attività di produzione e ricerca relative a motori elettrici, batterie, guida autonoma, celle a combustibile o a qualsiasi altra tecnologia che abbia a che fare con il green devono essere realizzate in Francia o lì devono tornare con un generale re-shoring.  Sul punto, Le Maire è stato molto chiaro, quando chiede ai produttori francesi «de prendre des engagements dans trois directions: le véhicule électrique, le respect de leurs sous-traitants et la localisation en France de leurs activités technologiquement les plus avancées». E non era un consiglio, ma una condizione per la realizzazione stessa dl piano. Appunto perché la Francia si comporta come uno Stato. Ancora più chiaro Macron: per lui il piano prevede un «fort engagement des deux constructeurs français, Psa et Renault» per «délocaliser certaines productions à valeur ajoutée en France». Peraltro nel piano si legge chiaramente che Parigi si aspetta che «ainsi, d’ici 2025, la production de véhicules électriques, hybrides rechargeables ou hybrides sera de l’ordre d’un million».

In sintesi: il governo francese ha realizzato un piano per l’automotive che da una parte rimette in moto il mercato con varie elargizioni, dall’altra impone ai suoi costruttori di produrre in Francia le tecnologie innovative per la transizione al green.

Dettagli sui bonus per l’acquisto di auto elettriche

 

In Italia l’industria non è al centro della discussione politica, e manca totalmente un progetto di politica industriale, anzi manca pure il concetto 

Danilo Toninelli, Ministro delle infrastrutture e dei trasporti nel Governo Conte I

In Italia, invece, l’industria non è una questione al centro della discussione politica. Di manifattura e automotive non si sente parlare. Benché il Paese campi grazie al fatturato industriale e alle tasse derivanti da questo settore, è un argomento che non interessa. Il motivo è semplice: le politiche in questo campo sono necessariamente a lungo termine; forze immature, ossessionate dall’immaginifica auto-rappresentazione del “nuovo” e consapevoli che saranno sostituite (capita a componenti di tutti i “colori”) si guardano bene dal disegnare piani i cui benefici potrebbero manifestarsi quando al potere c’è qualcun altro. Si punta alle misure suggestive, all’artificio. Non cessa di tormentarci l’immagine dell’ex ministro alle Infrastrutture che sfreccia ritto sul monopattino elettrico. Mai più, senza: forse il destino dell’industria italiana dipende dalla diffusione del monopattino elettrico.

Una cosa, però, è stata tirata fuori dal cappello della politica. Un prestito da 6,3 miliardi di euro ad Fca, erogato da Intesa San Paolo e garantito dallo Stato attraverso Sace, una società di Cassa depositi e Prestiti. Quando la notizia è emersa, giorni fa, ha destato un mare di polemiche. La questione della sede, però, non è così importante, rileva Berta. «Quella legale è ad Amsterdam, mentre il domicilio fiscale è a Londra. Ma quando Fca ha posto le propri sedi in queste capitali, la politica non ha alzato un dito: perché farlo adesso? E poi, se la misura fosse diretta a sostenere la parte italiana di Fca, sarebbe soltanto un bene, per l’industria dell’auto e per la componentistica». Il punto è se esista una contropartita. Per l’ex ministro allo Sviluppo economico Carlo Calenda, no: Fca avrebbe la liquidità per sostenere il gruppo, ma la terrebbe nella capogruppo per distribuire un maxi dividendo pre-fusione con Psa. Il 26 maggio Fca ha incassato il sì da parte dell’istituto di credito, seguito, due giorni dopo, dal via libera da parte di Sace. A babbo morto, il ministro all’Economia Roberto Gualtieri ha fatto sapere che il prestito servirà a sostenere le attività italiane, come il pagamento dei fornitori, la tutela dei posti di lavoro o gli investimenti nazionali. Secondo il consigliere delegato di Intesa, Carlo Messina, c’è «garanzia di destinazione dei fondi». Secondo la coordinatrice del gruppo di studio della Fondazione Ergo Rachele Sessa, «l’idea è di supportare l’intera filiera che ruota attorno a Fca, soprattutto le aziende più piccole, che in questo momento si trovano in una condizione difficile». Sempre per Calenda, però, «Fca non ha mai rispettato il piano degli investimenti previsto per l’Italia». E, in effetti, cosa accadrebbe se il Lingotto utilizzasse altrimenti il finanziamento?       

 

I destinatari del piano francese: Psa e Renault, finanziati per produrre il green in patria 

Il presidente della Repubblica Francese Emmanuel Macron

In Francia, com’è noto, ci sono due grossi gruppi. Uno è quello franco nipponico Renault-Nissan-Mitsubishi Alliance. Le aziende componenti dovevano fondersi, ma di recente hanno cambiato idea, come affermato qualche giorno fa dal presidente dell’Alleanza Jean-Dominique Senard. La Alleanza ha riscontrato da due anni a questa parte più di qualche problema, anzitutto con il crollo del modello impostato dall’ex capo Carlos Ghosn, arrestato a Tokyo per presunti illeciti finanziari e poi misteriosamente fuggito in Libano. La vicenda di Ghosn è una di quelle che si fatica ad interpretare. Un prodotto dell’École Polytechnique di Parigi, più integrato nel sistema francese dello stesso Macron, ad un certo punto viene fermato in Giappone con accuse che dall’Europa si stenta a comprendere; e la Francia, che normalmente difende i propri, non dice niente. Mah. Comunque sia, Nissan è impegnata in un’importante operazione di taglio dei costi: secondo Kyodo News, sono previsti 20mila esuberi, concentrati soprattutto in Europa. Quanto a Renault, attende il nuovo Ceo, l’italiano Luca De Meo, che dal primo luglio sarà in carica anche come amministratore delegato dell’Alleanza.  A quanto si capisce, Renault si preparerebbe ad un pesante progetto di ristrutturazione. Nel frattempo, l’Alleanza ha presentato un piano per il 2025 la riduzione del numero dei modelli con la loro declinazione secondo la filosofia del “leader-follower” : i veicoli deriveranno da quelli principali e di successo. Mentre Nissan si occuperà di guida autonoma, Renault avrà la responsabilità di tutta la parte elettrica e elettronica. Non è chiaro come le ambizioni espresse da Parigi con il Plan de soutien à l’automobile saranno recepite da Nissan.

L’altro gruppo è Psa, cui appartengono i marchi automobilistici Peugeot, Citroën, DS, Opel e Vauxhall Motors. È guidato da Carlos Tavares, dirigente portoghese di nascita ma diplomato alla École Centrale de Paris, perfettamente integrato nella Francia che conta e già braccio destro di Ghosn in Renault.  Il gruppo ha un fatturato di oltre 74 miliardi di euro. Dopo un periodo di crisi, tra il 2012 e il 2014, il Gruppo si è rapidamente risollevato anche grazie all’interventismo dello Stato francese, che ha acquisito quote di partecipazione e caldeggiato misure dei riduzione dei costi per una graduale diminuzione del debito. La società ha iniziato a realizzare profitti a partire dal 2015. Tavares ha subito lasciato un segno, ampliando la gamma dei modelli di tutti i marchi. Nel 2016 il Ceo ha presentato una tabella di marcia per entrare nel mercato americano; operazione risultata non semplice, per realizzare la quale sarebbe stato opportuno trovare un partner forte sul Nuovo Continente.

Filiera automotive Francia

   

Il Plan de soutien à l’automobile incide su una fusione sbilianciata tra Fca e Psa, un’acquisizione di fatto da parte francese 

Carlos Tavares, ceo di Psa

A dicembre del 2019, Fca e Psa hanno siglato un memorandum of understanding, in vista della fusione che dovrebbe portare alla nascita, fra sei mesi, del quarto costruttore al mondo con 8,7 milioni di auto vendute. Per la verità, è più un’acquisizione da parte del gruppo francese: i rappresentanti di Peugeot infatti avranno sei consiglieri di amministrazione su undici, l’amministratore delegato (Carlos Tavares) e la sede operativa. Gli italiani avranno invece cinque consiglieri di amministrazione e un Presidente (John Elkann) con deleghe ancora non definite. Fca è interessante per i francesi soprattutto perché porta in dote il ricco mercato americano, nel quale Peugeot e gli altri marchi del gruppo sono sostanzialmente assenti. Psa è interessante, per Fca, perché dispone di quelle piattaforme sull’elettrico che potrebbero essere utilizzate dal Lingotto. E qui nasce il problema. Tavares potrebbe, in un certo senso, essere costretto a scegliere tra la Raison d’Etat francese e gli interessi di Fca nell’accordo. Una valutazione da fare sotto il peso dell’interventismo di Parigi, cui non corrisponde, come contraltare, un indirizzo tricolore, neppure in forma enunciativa. «Con la Francia così attiva nel salvaguardare i propri interessi, e l’Italia muta – afferma Berta – si crea un’evidente asimmetria tra Psa e Fca. Con Parigi così impegnata nel consolidare i propri asset industriali, e l’Italia assente, che ne sarà dei progetti di Fca sull’elettrico, che a partire dalla 500 riguardano anche gli altri brand del Lingotto? Sinceramente, non lo so».

 

Intanto, sulla fusione Psa-Fca piovono grane 

Intanto sulla fusione piovono grane. Secondo Milano Finanza, la Commissione Europea sarebbe preoccupata per via dell’eccessiva concentrazione che verrebbe a verificarsi con il merger nel settore furgoncini. Alle aziende potrebbero essere chieste “concessioni” a brevissimo, entro oggi; altrimenti potrebbero subire un’indagine amministrativa di lungo termine. Ciò che si sa è che il garante alla concorrenza Ue ha fissato una data, il 17 giugno, per giudizi di carattere preliminare. Inoltre, il prossimo 25 di giugno, a porte chiuse e via web, si terrà l’assemblea generale di Psa. Gli azionisti sono peraltro chiamati ad esprimersi sulla «rinuncia alla costituzione di uno speciale gruppo di negoziazione nel quadro della proposta fusione tra la Società e la Fiat Chrysler Automobiles». Non è chiaro quale sia l’obiettivo di tale statuizione.            

Obiettivi piano francese

 

Ultime notizie sul fronte fusione: Comau quotata e fuori dal perimetro italiano e del nuovo gruppo

Tra l’altro, resterebbe fuori della nuova entità niente meno che Comau. Come si ricorderà, Industria Italiana aveva anticipato, nel novembre del 2018, con questo articolo, la possibile vendita del gioiello della robotica italiana, ora nel perimetro Fca. È conferma recente che finirà quotata su Borsa Italiana, con un controvalore stimato tra i 300 milioni e il miliardo di euro. Il flottante sarà pari al 70%; il restante 30% sarà spartito tra i seguenti player e in questa misura: 14% a Exor (la “cassaforte” della famiglia Agnelli); 8,5% a Peugeot; il 6% allo Stato Francese e il 4,5% a Dongfeng, socio cinese di Psa.  

 

L’inerzia di Fca sulle tecnologie elettriche e green: alla fine si pagherà il conto 

John Elkann, presidente di Fca e presidente e ad di Exor. Foto credits Di Exor S.p.A.

Tornando al fronte delle tecnologie green, Fca è rimasta a lungo inerte.  Il delta tecnologico rispetto ad altri carmaker si è approfondito negli anni.  Anche perché si è puntato tutto sul mercato americano, dove il tema è meno rilevante. Lo stesso Sergio Marchionne sosteneva che l’auto elettrica costava troppo e che pertanto non avrebbe mai trovato un mercato. Marchionne non poteva certo dirlo, ma la verità è anche che le tecnologie green comportavano investimenti: sarebbe servito un aumento di capitale, e gli azionisti Agnelli-Elkann non avevano alcuna intenzione di mettere mano al portafogli. Poi si è improvvisamente cambiato strada. Nella primavera del 2019 è emerso un piano di investimenti di 5 miliardi su più anni, con interventi nel green. Era modesto, tutto finanziato con cassa interna (non aumento di capitale) ma era comunque qualcosa. Attualmente, sono in corso le pre-serie della 500 elettrica, le first edition dei modelli ibridi della Jeep Renegade e Compass, nonché l’elettrificazione di macchine come l’Alfa Romeo Giulia GT Junior, che doveva debuttare  al Goodwood Festival of Speed – che però è stato rinviato a causa della pandemia da Coronavirus. La prima ibrida della Maserati sarà invece la Ghibli, che con la nuova propulsione sarà lanciata sul mercato nel 2021. E poi si vedrà.

 

(Ripubblicazione di un articolo pubblicato l’11/06/2020)














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