Italia, discontinuità con un passato improduttivo o sarà declino

di Andrea Donato* ♦︎ Il Coronavirus ha soltanto amplificato le debolezze e i rischi del sistema Paese. Fatto di aziende che rifuggono l'innovazione e che devono per forza reinventarsi per evitare di scomparire. Serve applicare la logica del change management allo "Stivale". Altrimenti troveremo la luce soltanto nel 2040

Sembra che finora appelli e richiami al cambiamento, all’evoluzione, alla riorganizzazione, alla digitalizzazione, per la ripartenza su basi nuove restino ancora disattesi. Invece, il cambiamento è non solo necessario, è senza dubbio vitale. Al contrario i concetti di cambiamento, innovazione, evoluzione, trasformazione, transizione digitale nella migliore delle ipotesi lasciano le imprese indifferenti quando non addirittura refrattarie. Il quadro appare poco incoraggiante! Ma questa crisi può essere anche considerata un’inaspettata occasione – assolutamente da non sprecare – per rilanciare finalmente anche il nostro Paese. Ma attenzione: ogni effetto futuro del post-pandemia sarà la risultante di processi che traggono la loro origine dal pre-pandemia, ci trascineremo cioè tutte le criticità già presenti nel nostro sistema ma molto più amplificati dal crollo di tutte le nostre sicurezze precedenti.

Nonostante i dati disastrosi che lasciano presagire un futuro perlomeno molto complicato, le aziende perseverano nella ostinata difesa delle loro logiche, convinzioni, inefficienze. Si affannano quindi a ridurre i costi e recuperare i fatturati persi, concentrandosi sul presente, senza porsi domande su come saranno gli scenari, il mercato, la concorrenza, le relazioni, le aspettative e di come la propria azienda dovrebbe attrezzarsi per affrontare la cosiddetta “Nuova normalità“.







Ad oggi la priorità è innanzitutto quella di uscire dall’emergenza, sopravvivere e superare questa impegnativa e drammatica prova, con l’obiettivo di riprendere l’attività:

  1. mettendo in campo azioni volte alla riduzione dei costi, l’eliminazione di sprechi e inefficienze, l’individuazione delle modalità operative più adeguate e sostenibili,
  2. adottando nuovi modelli, tecnologie e strumenti,
  3. ricercando nuove opportunità per rilanciare la propria impresa.
I campi d’azione del Change management

 

Solo poche fortunate aziende potranno semplicemente continuare a produrre esattamente come prima del lockdown. Per la maggior parte delle aziende italiane il percorso sarà più articolato, complesso, impegnativo, esteso che porterà a trasformazioni necessarie e profonde che oggi siamo solo in grado di ipotizzare. Sarebbe quindi poco lungimirante – e molto incauto – concentrarsi sulle iniziative a breve senza considerare interventi che rendano la propria struttura aziendale più resiliente in caso di future situazioni di crisi, e soprattutto più competitiva. Stiamo subendo un terremoto devastante; le case rimaste danneggiate non possono essere ricostruite rimettendo semplicemente insieme i pezzi, ma dovranno essere riprogettate applicando le ultime tecniche antisismiche. La grinta, la caparbietà, la determinazione, l’energia, la diffidenza uniti alla concretezza – quell’essere “tough” (tosti, tignosi) come direbbero gli inglesi- sono i principali tratti caratteriali dell’imprenditorialità delle pmi, ma rischiano di diventare un limite alla ricerca di nuove soluzioni. Essere caparbi quindi non deve necessariamente comportare di essere anche spavaldi, temerari, autoreferenziali, oppure indifferenti al cambiamento e l’innovazione.

Le nuove caratteristiche personali che si renderanno necessarie sono resilienza, flessibilità, capacità di adattamento costante. E poi saper fare ricorso alla collaborazione oltre ogni remora e in qualsiasi situazione. In un ecosistema in rapido mutamento, caratterizzato da estrema variabilità e volatilità dei fattori, l’unica certezza è che non avremo più alcuna certezza cui aggrapparsi, Non possiamo quindi più permetterci una posizione solo difensiva in retroguardia in risposta alla crisi pandemica, ma è necessario piuttosto pensare a come reagire e come evolvere, perché la zoologia e la paleontologia ci insegnano che non è la specie più forte, numerosa o potente a sopravvivere, ma quella più veloce ed intelligente che si sa meglio adattare ai cambiamenti.

 

Nulla sarà più come lo conoscevamo 

Lo ripetono tutti, ma che valenza dare a questa affermazione ambivalente (e ambigua)? Si può leggere in chiave di speranza per un nuovo ordine mondiale, come pure come un futuro minaccioso che incombe. Senza dubbio, questa pandemia avrà almeno un effetto positivo perché agirà come un forte acceleratore di cambiamento e un’occasione per rimettere in discussione tanti capisaldi dell’attuale ordine sociale, economico e politico. Questa crisi ha le caratteristiche infatti di un trauma globale che sta già modificando in modo sostanziale comportamenti, prassi, modalità, abitudini, regole e soprattutto relazioni.

Che ci piaccia o no, il mondo intorno a noi è già cambiato e sta accelerando il passo: oggi, “piccolo è brutto”. In passato, “piccolo era bello”: tante piccole imprese appartenenti ai vari distretti industriali – riuscivano a superare i problemi strutturali del nostro Paese grazie alla loro flessibilità, e spingevano la crescita. Con la “crisi dei sette anni” – dal 2009 al 2016 – e il relativo crollo della domanda interna – il sistema si è bloccato. Si sono salvate solo le imprese con una forte vocazione all’innovazione e all’internazionalizzazione, che richiedono:

  • una strategia e una struttura organizzativa chiare;
  • la capacità di gestire processi complessi per operare su più mercati; e
  • l’adozione continua di nuove tecnologie, inclusa la generazione e l’uso di dati.

Quante pmi sono attrezzate per tutto ciò? Dopo la pubblicazione dell’ultimo Rapporto Censis, ci si chiede come possa un piccolo o medio imprenditore andare avanti, lavorando giorno e notte, in uno scenario sempre più pessimistico, con una popolazione disorientata, sfiduciata, depressa, richiusa in sé stessa e incapace di alzare lo sguardo oltre il quotidiano vivere. Prepariamoci quindi ad affrontare un lungo periodo di recessione; non ci siamo ancora completamente ripresi dalla grave crisi del 2008 e ne stiamo affrontando un’altra ancora più problematica, che richiederà certamente nuovi approcci, strumenti, visioni, regole e competenze. La velocità di reazione-azione sarà un fattore competitivo determinante: solo chi interpreterà le dinamiche prima e meglio dei suoi concorrenti potrà disporre di più opzioni e migliori chances di superare le difficoltà in minor tempo, cogliendo tempestivamente le nuove opportunità appena si presenteranno. Risulta così fondamentale utilizzare questo periodo di transizione per delineare meglio il probabile nuovo sistema di riferimento.

 

Come sarà il “Nuovo Mondo”?

Andrea Donato

La pandemia di coronavirus sarà ricordata come un evento di riordino mondiale. Come la Grande Depressione, la caduta del Muro di Berlino e la crisi finanziaria globale del 2008, accelererà i cambiamenti sociali ed economici che altrimenti avrebbero impiegato anni per materializzarsi. Il nuovo scenario sarà caratterizzato da una amplificazione dei divari già esistenti prima della pandemia, a livello sociale, economico, politico, tecnologico. Le aziende si troveranno a operare in un nuovo ambiente caratterizzato dall’essere sempre più mutevole e variabile, da competizione esasperata e da scarsità di risorse che porteranno all’acuirsi di tensioni sociali, politiche, ambientali, produttive Sarà un mondo dominato da una estrema incertezza con un rischio reale di passare dalla pandemia alla carestia per fasce molto consistenti di popolazione e in molte aree del pianeta, non necessariamente arretrate.

La cosiddetta New normality sarà caratterizzata da persistenti variabilità e volatilità e da scarsità di risorse, fattori e relazioni, quali: liquidità, fiducia, mercato, ordini, risorse finanziarie, competenze, tempo, partnership. Dovremo confrontarci duramente con un nuovo sistema sociale ed economico caratterizzato da competizione aggressiva, scarsa fiducia tra le filiere, mancanza di solidarietà, imprevedibilità di comportamenti, egoismo eletto a regola. Per quanto tempo ci vorrà, alla fine respingeremo questo virus e le nostre economie alla fine si riprenderanno dalla recessione dolorosa che ha provocato. Ma quando potremo uscire definitivamente dall’incubo, la pandemia avrà rimodellato in modo permanente il nostro comportamento sociale ed economico. Il solo pensare quindi di affrontare un periodo di grande instabilità, incertezza, difficoltà, complessità, rifugiandosi nel rassicurante perimetro delle certezze abitudinarie, consolidate in anni di attività, sarà fonte di nuove criticità in azienda ed impedirebbe di cogliere invece una grande opportunità di cambiamento. Anche lo stile di management dovrà modificarsi e adeguarsi, per sempre più essere 3P, cioè impegnato nella ricerca di equilibrio e nuove soluzioni tra Profit, People, Planet in chiave di sostenibilità e di responsabilità sociale. Altro passaggio di non facile attuazione qui da noi.

 

Lo scenario imprenditoriale italiano

Le pmi italiane sono generalmente caratterizzate da produzioni nel settore B2B, per lo più in sub-fornitura, a basso valore aggiunto e di conseguenza a bassa produttività. Le aziende devono quindi affrancarsi da modelli di business ormai datati e superati dai sistemi industriali delle nazioni più dinamiche e reattive, ma stanno mostrando una scarsa reattività agli stimoli, che pure sono molto evidenti. Il rapporto tra “valore aggiunto” e “costo del personale” nelle pmi, che sono l’asse portante dell’economia italiana, è mediamente molto basso (tra 1,4 e 1,5), con a conseguenza che i costi di produzione elevati erodono costantemente i margini di profitto al punto che molte sono incoraggiate a portare il lavoro fuori dall’Italia. Nella piccola impresa si è prigionieri di un infernale circolo vizioso: il fatturato è così basso e i margini sono così esigui, anche a causa degli elevati oneri finanziari derivanti dall’alta incidenza di capitali di terzi (finanziamenti bancari e sottocapitalizzazione)  che non ci si può permettere un struttura manageriale e tanto meno di assumere un amministratore esterno alla cerchia familiare, in grado di riorganizzare l’impresa verso un nuovo assetto più adeguato alla competizione interna ed internazionale. Insomma, le pmi non generano le risorse per retribuire i manager migliori.

Abbiamo poi pochi dirigenti giovani e meno dei competitor esteri a causa di un’economia ancora troppo fondata su aziende a gestione familiare. Ma anche perché abbiamo meno aziende innovative e nei settori a elevata tecnologia, dove servono manager giovani e preparati, con competenze elevate in campo tecnologico e digitale, senza i quali non si può competere sui mercati globali. Secondo l’economista Luigi Zingales «Il processo di selezione dei talenti nelle Pmi è così scadente che nel Bel Paese molte persone, soprattutto donne e dotate di tutte le capacità per essere manager, sono confinate al ruolo di segretaria. Mentre i posti dirigenziali sono a affidati a chi è ben introdotto, anche se spesso incapace. Per questo in Italia ci sono le migliori segretarie e i peggiori manager» e aggiungerei i dirigenti e funzionari pubblici. Inoltre l’Istat certifica che da oltre 20 anni ormai l’industria italiana ha un enorme problema di bassa produttività del lavoro e degli investimenti.

Tabella storica della produttività in Italia – Istat

Il mezzo punto di calo della produttività italiana rilevato nel 2019 sancisce infatti il punto più basso della crescita zero che ci affligge da vent’anni, con il paradosso che sono aumentate sia le ore lavorate, sia gli investimenti in beni strumentali e tecnologie, senza che questo abbia avuto alcuna ricaduta sulla crescita. Quindi lavoriamo di più e peggio! Ciò significa in sostanza che le ore lavorate si riferiscono a occupazioni scarsamente qualificate a basso valore aggiunto e che gli investimenti in beni strumentali o immateriali non sono stati usati efficacemente.

Confronto produttività in Europa – Istat

Ancora, secondo il Centro Studi “Oxford Economics”, l’Italia tornerebbe ad avere il reddito che aveva ai livelli precrisi prima del 2008 soltanto nel 2035. Ricordo che l’Italia era l’unico paese delle UE a non aver ancora recuperato nel 2019 (prima del Covid-19, dunque) il pil antecedente alla crisi del 2008. Questo nell’illusione che non ci sia più una nuova crisi fino ad allora, ipotesi ovviamente irrealistica. Tanto è vero che se consideriamo il tasso di crescita medio del nostro pil dal 1999 al 2019 (quindi escludendo il terribile 2020), pari a un “incremento” (!!) trimestrale dello 0,11%, – già falcidiato dalle pesanti recessioni del 2008 e del 2011 (che confronto a questa sembrano una passeggiata) – l’Italia tornerebbe ad avere quel reddito nel 2040, a voler essere ottimisti, perché nel 2020 il crollo è stato verticale! Credo che sia molto chiaro a tutti cosa voglia dire aspettare fino al 2040 per tornare ad avere il reddito del 2008: che almeno ad un paio di generazioni saranno fortemente limitate opportunità e prospettive.

 

*Andrea Donato è change mentor e innovation manager














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