Certificazione delle competenze: l’analisi di Intellera consulting e Università Cattolica

«La metodologia Ivc porta in sé una grande sfida: l’attenzione all’individuo nella sua totalità» ha dichiarato Eloisa Cianci, coordinatrice didattica del master di Asag

Roberto Trainito, associate partner Intellera Consulting

Il master in Gestione e certificazione delle competenze, promosso da Asag (Alta scuola di psicologia “Agostino Gemelli”) dell’Università Cattolica, ha recentemente proposto, in collaborazione con Intellera consulting, una giornata di riflessione per parlare di “Validation of prior learning. Policies and the current international scenario”. Il master si propone di formare la certificazione delle competenze formali, non formali e informali, nei suoi tre principali ambiti di applicazione: i contesti di human resources; i contesti scolastici, dell’alta formazione, della formazione continua, di Istruzione e Formazione Professionale e di formazione professionale; gli enti pubblici, privati accreditati e non accreditati, che svolgono attività di supporto alla collocazione e ricollocazione professionale degli utenti nel mercato del lavoro. Come affermato nell’Agenda europea delle competenze per la competitività sostenibile, l’equità sociale e la resilienza (2020), ogni persona nell’Ue dovrebbe avere la possibilità di aggiornarsi e riqualificarsi. Ma come si distinguono le diverse tipologie di competenze?

«L’istruzione scolastica promuove l’apprendimento delle competenze cosiddette “formali” in giovane età che si traducono nel conseguimento di un titolo di studio, di una qualifica, di un diploma professionale o anche di una certificazione riconosciuta nel rispetto della legislazione vigente in materia di ordinamenti scolastici e universitari – ha specificato Caterina Gozzoli, direttrice di Asag -. Esistono poi le competenze “non formali”, ovvero quelle che nascono da un apprendimento al di fuori dei sistemi istituzionali (organismi che perseguono scopi educativi e formativi, volontariato, servizio civile nazionale e privato sociale e nelle imprese) e quelle “informali” costruite grazie allo svolgimento di attività in situazioni di vita quotidiana, nelle interazioni che in essa hanno luogo nell’ambito lavorativo, familiare o del tempo libero. Queste ultime, non avendo una certificazione che le attesti, finiscono per non essere valutate con la stessa rilevanza delle altre. Un esempio concreto potrebbe essere quello di un artigiano o un meccanico che, dopo aver svolto la sua professione per più di 25 anni risulta perfettamente competente nel suo ambito ma, senza alcun titolo o qualifica formale che lo dimostri sarà difficilmente occupabile in un contesto aziendale rispetto a chi, di contro, possiede un diploma di istituto tecnico professionale».







«La metodologia Ivc, quindi, porta in sé una grande sfida: l’attenzione all’individuo nella sua totalità e la valorizzazione della persona nell’acquisizione delle competenze formali e non per potersi spendere in un mercato del lavoro altamente complesso e in continuo cambiamento» – ha dichiarato Eloisa Cianci, coordinatrice didattica del master in Gestione e certificazione delle competenze.

Negli ultimi anni, l’Ivc sta vivendo una fase di particolare interesse proprio perché al centro delle attenzioni delle politiche di istruzione e formazione di ogni paese europeo. E consiste nel raccogliere le informazioni e le esperienze vissute dall’individuo che prende parte al percorso Ivc, fino a creare un portfolio di competenze; validarle tramite un ente titolato che deve riconoscere i livelli essenziali delle prestazioni e alcuni standard minimi; certificarle attraverso una procedura che si conclude con il rilascio di un documento di validazione conforme a prestabiliti standard minimi. Nello specifico, il primo obiettivo dell’Ivc si riferisce alla possibilità di consentire a tutte le persone l’ammissione a un programma che consentirebbe loro di accedere a posti lavorativi dai quali, senza una qualifica, sarebbero esclusi. Questo avviene spesso con gli immigrati o con individui che hanno una qualifica professionale non formalizzata. Il secondo è quello di consentire alle persone di completare il processo di qualificazione in tempi ridotti. Un risultato particolarmente interessante per coloro che hanno una esperienza lavorativa significativa e che quindi potrebbero saltare alcune parti pratiche del percorso di formazione standard. Il terzo, e più importante, obiettivo è permettere alle persone di ottenere una qualifica valida delle competenze per un determinato lavoro, testate attraverso la raccolta di evidenze da parte di un ente titolato o tramite il superamento di un esame formale.

A livello europeo, quindi, la validazione delle competenze svolge un importante ruolo anche come fattore di possibile motivazione all’apprendimento permanente. Le statistiche, infatti, ci dicono che mediamente in Europa solo il 37% degli adulti partecipa nel giro di un anno a un corso di formazione. In Italia la media è molto vicina a quella europea, si tratta del 34%. Nel 2021 è stato quindi convenuto un obiettivo europeo che prevede che entro il 2030 circa il 60% degli adulti partecipi a un corso di formazione nel giro di un anno.

«Grazie alla testimonianza degli esperti internazionali possiamo affermare che le problematiche per l’implementazione dei servizi Ivc sono le stesse in tutta Europa e in tutto il mondo – ha dichiarato Roberto Trainito, associate partner Intellera Consulting. La qualità e la credibilità delle certificazioni verso il mercato del lavoro è una delle sfide più significative. Per questo non bisogna demordere nel supportare lo sviluppo dell’Ivc come servizio che rende esigibile il diritto sociale e di cittadinanza alla valorizzazione delle proprie competenze comunque e dovunque acquisite. Per l’Ivc il 2023, anno europeo delle Skills, sarà un anno cruciale».














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