Fuggetta a tutto campo tra Pnrr che non funziona, business tech delle telco. A.I. generativa e…

di Filippo Astone e Chiara Volontè ♦︎ Intervista col ceo e direttore scientifico del Cefriel, docente al PoliMi, tra le voci più autorevoli in ambito digitalizzazione, industria, innovazione. Pnrr: la distribuzione a pioggia non funziona, bisogna dare fondi su temi di ricerca focalizzati. La digitalizzazione delle aziende italiane: penalizzata dalla mancanza di skill tech. La riduzione dei meccanismi incentivanti e la bassa produttività. E sull’intelligenza artificiale generativa…

Alfonso Fuggetta, amministratore delegato e direttore scientifico di Cefriel

Il Pnrr? «Così come è impostato rischia di non creare reale valore economico. Il pericolo è che si distribuiscano soldi a pioggia, senza però risolvere i problemi chiave del sistema Italia». Le telco? «A tendere, assumeranno un ruolo da protagonisti nei settori dell’industria 4.0 e, in generale, nell’Ict b2b». Parola di Alfonso Fuggetta, ceo e direttore scientifico del Cefriel, docente al Politecnico di Milano presso il Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria, tra le voci più autorevoli in ambito digitalizzazione, industria, innovazione. Che insiste su due delle principali criticità dell’industria italiana: la dimensione d’impresa e la mancanza di competenze, soprattutto in ambito tech e digitale.

Senza contare che il governo ha deciso di procedere con una graduale riduzione dei meccanismi incentivanti sia per i beni strumentali che per quanto concerne la formazione. Con questa congiuntura, quali prospettive si aprono per l’industria? L’Italia corre davvero il pericolo di diventare un Paese sempre meno attrattivo e competitivo, con perdita progressiva di potere d’acquisto? Ma quali mezzi hanno a disposizione manager e imprenditori? E cosa dovrebbe fare il governo per incentivare gli investimenti? Di questo, e di molto altro, abbiamo parlato con il professor Alfonso Fuggetta.







 

D. Professor Fuggetta, con l’autunno per l’Italia si apre una stagione complessa: inflazione, tassi alti, crescita in rallentamento, costo delle materie prime. Qual è la prospettiva per imprenditori e manager?f

R. La situazione è complicata in Italia per una molteplicità di motivi esogeni, a cui si sommano anche i problemi strutturali del nostro Paese e le fatiche dell’amministrazione pubblica. Ciò nonostante, gli imprenditori devono avere il coraggio di investire e di rischiare, indipendentemente dagli incentivi. Per far fronte alla situazione complessa, occorre avere il coraggio di investire, che è il mestiere dell’imprenditore.

Cefriel: soci e governance

D. È un problema anche culturale?

R. Sì, la vera difficoltà non riguarda solo i mancati investimenti, ma concerne anche la difficoltà nel comprendere i reali bisogni e priorità dell’azienda. In questo modo non solo è faticoso fare innovazione radicale, ma risulta persino impossibile anche concepire e avviare un qualunque progetto di trasformazione e cambiamento incrementale. Quando si tratta di trasformazione digitale le imprese, soprattutto quelle più piccole, sono diffidenti: i manager temono di dover sborsare cifre ingenti a fronte di ritorni sul lungo periodo, operai e impiegati temono di essere sostituiti dalle nuove tecnologie o ridimensionati. Sono paure e preoccupazioni che possono essere indirizzate e che non devono paralizzare o appiedare il percorso di cambiamento. È sicuramente un tema culturale che deve essere affrontato in modo convincente e organico.

 

D. Quali sono le principali criticità per l’industria?

R. Innanzitutto la dimensione di impresa: il tessuto industriale italiano molto frammentato rende molto difficile per le aziende medio piccole fare investimenti e innovazione, per mancanza di risorse e organizzazione. Poi il tema delle competenze: le aziende fanno fatica a trovare persone competenti da assumere, ma i giovani qualificati, a loro volta, non vogliono accettare posti mal retribuiti, giustamente. Mancanza di competenze non permettono di investire e crescere e di conseguenza alzare produttività e salari. È un circolo vizioso da cui si fatica a uscire, anche perché i lavori di qualità non li creeranno persone di scarsa formazione. Infine la burocrazia, che rende il lavoro delle imprese spesso soggetto a norme confuse, contraddittorie, di difficile interpretazione ed attuazione.

Il ciclo di vita dell’innovazione digitale che le imprese intraprendono si basa su otto principali fasi: dall’analisi di mercato, definizione della strategia all’ideazione, progettazione e prototipazione fino allo sviluppo e al rilascio in produzione della soluzione. Cefriel aiuta le aziende nell’intraprendere il percorso complessivo o le affianca in alcune fasi specifiche.

D. Come si supera il problema delle ridotte dimensioni aziendali?

R. Le piccole imprese italiane, per motivi culturali, non amano cedere il controllo avviando percorsi di merger & acquisition o accettando iniezioni di capitali di investimento. Potrebbero uscire dall’impasse grazie alle opportunità offerte dalla tecnologia che, ad esempio, permette di creare filiere digitali integrate e nuove modalità di collaborazione. Le Pmi dovrebbero integrare le loro attività (se non societariamente), confrontarsi con le altre imprese e creare sinergie e complementarietà.

 

D. Sulla tecnologie, in ambito industriale e manifatturiero, che cosa le sembra più rilevante e interessante?

R. Adesso è emerso il tema dell’intelligenza artificiale generativa, mentre qualche mese fa tenevano banco il metaverso e la blockchain. Si tratta di grandi filoni tecnologici che sicuramente costituiscono delle opportunità per migliorare i prodotti, i servizi e i processi, ma che appaiono sui media spesso come slogan, si sgonfiano e poi nel tempo riemergono offrendo un reale valore e contributo. Occorre partire dalle esigenze dell’azienda, che deve sapere dove vuole arrivare, e non dalle mode del momento. È importante fare questo capovolgimento di fronte: non partire dalle tecnologie, ma dalle sfide che le imprese devono affrontare e dalla conoscenza critica delle tecnologie disponibili. È necessario comprendere cosa sia già sufficientemente maturo da poter essere utilizzato per indirizzare le richieste ed aspettative dell’impresa.

La servitizzazione è sempre più importante in ambito industriale. Non si vende più un singolo macchinario, ciò che conta sono i servizi

D. Dunque le aziende non dovrebbero seguire le mode tech del momento?

R. Non acriticamente. Dovrebbero innanzitutto capire quale tecnologia funzionerebbe meglio all’interno della propria organizzazione, quale porterebbe davvero valore aggiunto. E, se troppo costosa, dovrebbero stabilire relazioni tecnologiche o di business con altri soggetti con i quali sia possibile avere sinergie e collaborazioni. Prima di fare investimenti, le imprese devono capire quali sono le dinamiche di queste tecnologie, scoprire come si combinano con i prodotti e i processi aziendali. Le domande che un manager deve porsi sono: “Che cosa manca alla mia azienda? Che cosa mi servirebbe per avere maggiore competitività e impatto? Come posso fare un salto in avanti?”.

 

D. L’intelligenza artificiale generativa in che modalità prenderà piede nel nostro Paese? Con quale impatto sull’industria?

R. Si tratta di una tecnologia che ha sviluppato modelli e funzionalità certamente di grande interesse. Però è ancora tutta da capire: per esempio, può concepire delle immagini in maniera artificiale, può gestire delle interazioni più intelligenti in un Crm, può generare più velocemente dei documenti che, comunque, dovrò rivedere. Oltretutto c’è il tema degli elevati consumi energetici. Senza considerare il problema dell’intellectual property. È una tecnologia ancora abbastanza immatura che va utilizzata in modo oculato.

Il 73% delle piccole aziende, il 51,7% delle medie e il 38 % delle grandi dichiara di non disporre di persone esperte nell’analisi dei dati e nel cloud. Per il 68% delle aziende i dati continuano a essere gestiti con fogli di calcolo. Solo il 30% utilizza strumenti di analisi avanzati e solo un 15% ha iniziato ad affacciarsi al mondo dell’intelligenza artificiale. Fonte The European House Ambrosetti

D. L’effetto del Pnrr dovrebbe iniziare a dispiegarsi anche sull’economia reale. Quali benefici per l’industria?

R. Sono molto scettico e dubbioso, perlomeno per i temi che seguo io.

 

D. Perché?

R. Perché gli strumenti che sono stati scelti secondo me non funzionano. Ci sono alcuni strumenti che sono collegati ai centri nazionali o a infrastrutture e sistemi di aggregazione dell’offerta di ricerca e innovazione. Quindi, sostanzialmente, si distribuiscono investimenti a pioggia. Io invece, per la ricerca, avrei assegnato fondi sulla base di temi di ricerca molto focalizzati e con obiettivi ben delineati, seguendo il modello degli European Research Council Grants che premiano team composti da 15/20 persone che esibiscono un piano di lavoro definito.

Le risorse assegnate a missioni e componenti del Pnrr. A tali risorse, si aggiungono quelle rese disponibili dal React-EU che, come previsto dalla normativa UE, vengono spese negli anni 2021-2023 nonché quelle derivanti dalla programmazione nazionale aggiuntiva

D. E che cosa faranno le imprese per innovare, quando saranno finiti gli incentivi

R. Bisogna trovare un modo per dare sostegni automatici: è inutile pensare di fare tutte le volte dei bandi in stile Industria 2015 perché quel meccanismo non funziona. La mia paura è che siano stati utilizzati dei modelli di investimento obsoleti ma con dei nomi nuovi, perché la struttura è sempre la stessa: invitiamo le aziende ad affiliarsi in partenariati estesi e diamo i soldi a pioggia su un tema generico. Un paradigma che potrebbe andar bene per finanziare dei grandi progetti di ricerca e innovazione di lungo periodo; ma, soprattutto le Pmi (ma non solo), faticano a comprendere e, soprattutto, a sfruttare queste dinamiche.

 

D. Che cosa dovrebbe fare la politica per agevolare la crescita industriale?

R. La politica industriale deve identificare degli strumenti operativi che funzionino, e programmare un piano di investimenti sul lungo periodo. Con particolare attenzione al mondo dell’università, della ricerca, della scuola superiore: senza formazione non si produce ricchezza.

 

D. E invece la digitalizzazione delle aziende italiane a che punto è rispetto agli altri Paesi europei?

R. Secondo l’indice Desi, che misura la digitalizzazione dell’economia e della società, nel 2021 il Bel Paese si posizionava al ventesimo posto (su 27 stati Ue), mentre ha scalato una posizione lo scorso anno. Non solo: l’Italia è sopra la media Ue per quanto riguarda connettività e integrazione di tecnologie digitali. Ma c’è ancora molto da fare negli altri settori. Negli ultimi anni abbiamo fatto dei passi in avanti soprattutto sul tema infrastrutture, ma sicuramente non su tutti i temi e con la velocità e l’intensità di cui avremmo bisogno.

Indice Desi 2022

D. E quindi c’è speranza che che si risolva questo gap oppure no?

R. Potrebbe esserci, ma solo se acceleriamo. Secondo me, la politica deve prendere consapevolezza che o si investe in maniera decisa su questi temi oppure non si creerà la ricchezza futura del Paese; bisogna passare dai proclami e dalle buone intenzioni a degli strumenti attuativi che funzionino. Gli incentivi per l’innovazione praticamente sono inutilizzabili per come sono stati messi in piedi. E dobbiamo anche evitare posizioni che sembrano farci tornare indietro di anni invece di farci avanzare.

 

D. Il governo, però, ha deciso di procedere con una graduale riduzione dei meccanismi incentivanti sia per i beni strumentali che per quanto concerne le nuove competenze. D’altro canto, l’effetto del Pnrr dovrebbe iniziare a dispiegarsi anche sull’economia reale. Come vede lo Stato dell’arte, le principali criticità e di questi incentivi?

Stefano Venturi, presidente di Cefriel

R. Tutti gli incentivi automatici sono stati tolti o fortemente depotenziati, mentre sono stati destinati molti fondi sulle strutture piramidali a partenariato. Distribuire le risorse in questo modo, secondo me, non serve, non aiuta le imprese. La politica va da una parte, l’economia reale va dall’altra.

 

D. Ma è possibile che gli imprenditori italiani abbiano bisogno solo di incentivi per investire?

R. No, lo dicevo all’inizio di questo dialogo, a un certo punto gli imprenditori devono avere il coraggio di investire nella propria impresa, perché ogni attesa è un’occasione persa. Il contesto è complicato, ma le aziende devono essere razionali e lungimiranti. Certo, alcuni altri Stati intervengono e intervengono spesso in modo intelligente. Dovremmo farlo anche noi.

 

D. Un altro tasto dolente tutto italiano riguarda la carenza sistemica di competenze innovative. Come può essere risolta?

R. Sulle competenze abbiamo situazioni molto diversificate. Ci sono grandi aziende che stanno andando benissimo e sono molto avanti, altre che invece sono molto indietro: è complesso stabilire una media dei comportamenti e delle situazioni. Sicuramente non abbiamo tutte le competenze che servono e ancora peggio non le stiamo producendo. Sia per motivi di orientamento degli studenti, sia a causa del dimensionamento del sistema educativo. Nessuno nega che ci debbano essere le facoltà umanistiche, ma non è neanche plausibile che il Politecnico di Milano formi 45.000 studenti con tre facoltà (un unicum in Europa), laureando 1/6 degli ingegneri italiani. Dovrebbero esserci più università con corsi Stem, per avere così un numero maggiore di alunni e soprattutto meglio distribuiti sulle diverse discipline. Non possiamo poi dimenticare il convitato di pietra che è la decrescita demografica che richiederebbe un programma di interventi specifici.

 

D. Lo skill mismatch rischia di essere un eterno fardello per il nostro Paese?

R. È sicuramente un problema enorme, perché poi nelle aziende si fatica a fare innovazione, che si produce solo con le competenze. Ed è necessario che qualcuno, queste skill, le offra alle imprese. Ci sono società che hanno investito nella formazione del personale e nella ricerca di persone qualificate e per questo motivo sono molto cresciute. Ma ce ne sono altre, tendenzialmente più piccole, che sono molto indietro e temo che, purtroppo, non riusciranno a recuperare. Se continuiamo solo ad “esportare” sui mercati internazionali i nostri ingegneri, come si potrà progredire? Senza dimenticare che il nostro è un Paese a estrema frantumazione territoriale, con punte di diamante come Milano e Bologna e altre zone (al Sud ma non solo) con attrattività più bassa.

Skill gap, report Wef

D. Che cosa dovrebbe fare la politica?

R. Investire nella formazione, nelle scuole. Creare i poli universitari sulle tematiche su cui non abbiamo abbastanza persone, come ingegneria, matematica, le materie Stem. E vigilare sui bandi pubblici che, essendo spesso solo pensati per tutelare l’ente appaltatore dal punto di vista giuridico, sono al massimo ribasso e questo produce a cascata tutta una serie di effetti sulla fornitura che scende di qualità.

 

D. Che fare per alzare i salari?

R. Si potrebbe cominciare dagli appalti pubblici che, essendo al massimo ribasso, fanno si che poi le aziende, per poter sostenere ricavi sottodimensionati, pagano poco le persone. Nel contempo le imprese devono capire che senza persone di qualità, soddisfatte del proprio lavoro, non si va da nessuna parte.

 

D. Tutte le principali compagnie telefoniche stanno cercando di assumere un ruolo da protagonisti nei settori dell’industria 4.0 e, in generale, nell’Ict b2b. Ritiene che ci riusciranno? In che modo? A quali condizioni?

R. Nel 2007 dissi che secondo me le telecomunicazioni sarebbero passate dall’integrazione verticale alla stratificazione orizzontale e avrebbero finito per concentrarsi sugli strati bassi che sono sempre più una commodity; gli strati alti, a maggiore valore aggiunto, saranno alla fine gestiti non solo dai grandi colossi americani (Apple, Google, Amazon…) ma da tutte le imprese, italiane ed estere, che nascono, crescono e si sviluppano sfruttando la disponibilità della rete.

Le telco porteranno un valore aggiunto al pil mondiale paragonabile alla somma della ricchezza prodotta da 14 Paesi, dal 17° al 30° posto nella classifica delle economie più floride del mondo

D. In che modo? A quali condizioni?

R. Nel mercato delle telecomunicazioni ritengo ci saranno due livelli. Il primo è composto da chi ha le infrastrutture fisiche: questo vale soprattutto nella rete fissa, ma pian piano accadrà anche con la rete mobile. Il secondo è formato da chi offre i migliori servizi di connettività, assodato oramai che velocità di connessione e affidabilità siano una commodity. Vinceranno le telco che riusciranno a offrire servizi di connettività affidabili e convenienti. Non penso potranno invece competere con le aziende che si occupano di applicazioni e servizi che spesso genericamente chiamiamo Ott, peraltro restringendo l’applicazione del termine solo alle solite Apple, Google, Amazon.

Il Cefriel in breve

Il Cefriel è stato fondato nel 1988 da università, imprese e amministrazioni locali per promuovere la collaborazione e la condivisione di conoscenze tra mondo della ricerca, tessuto economico e società. Cefriel è abilitatore e scientific trusted advisor per un uso trasparente e responsabile delle tecnologie digitali a servizio dello sviluppo e della crescita sostenibile dell’impresa. Cefriel accompagna le imprese nel loro percorso di innovazione digitale, dall’ideazione dei prodotti e dei servizi, alla loro realizzazione, messa in esercizio e gestione in un processo ripetibile nel tempo e che garantisce un impatto misurabile e di valore. Cefriel è partecipato da 4 università: Politecnico di Milano, Università Statale di Milano, Bicocca e Università dell’Insubria. Fra i soci anche molti nomi noti dell’industria: Eni, Pirelli, StMicroelectronics, Microsoft, Engineering, Fastweb, Hpe, Vodafone, Tim. A guidare il Cefriel ci sono Alfonso Fuggetta, nel ruolo di ceo e direttore scientifico, e Stefano Venturi (già amministratore delegato di Hpe Italia) nella veste di presidente.














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