L’universo complicato delle sanzioni internazionali: come districarsi? La testimonianza Thales

di Marco de' Francesco ♦︎ L’azienda che stringe rapporti commerciali con Paesi oggetto di misure da parte di Ue o Usa deve attenersi alla compliance: tramite il risk assessment identifica il livello di rischio atteso. E su questa base stila la due diligence, che ha funzione pre-contrattuale. La “sanction clause”e il dual use. Quando il rapporto è in essere, ma le sanzioni non ne consentono lo svolgimento: la forza maggiore. Ne abbiamo parlato con Flavio Petrilli (Thales Italia) nel corso dell’evento “Contratti internazionali di fornitura di impianti – L’industria italiana alla prova delle nuove sfide” organizzato da RP Legal & Tax

Un tema di grande rilievo e attualità è quello delle aziende manifatturiere italiane – per lo più impiantisti e componentisti – che intendono intraprendere rapporti commerciali (o che hanno già contratti in essere) con imprese di Paesi oggetto di sanzioni internazionali e altre “misure” da parte dell’UE, degli Usa, del Regno Unito e di altri Stati. Sono molti i Paesi che sono nella “lista nera” delle democrazie. Si pongono due problemi distinti.

Il primo: come stringere rapporti commerciali con aziende di questi Paesi senza incorrere in guai giudiziari per i quali è prevista anche la reclusione? Quali iniziative bisogna adottare per agire nel contesto delle regole? Come prevenire, all’atto della pattuizione, il problema dell’impossibilità di portare avanti le proprie obbligazioni? Sotto questo profilo sono importantissime le attività di Compliance, che contemplano, come vedremo, una serie di controlli da svolgere nei confronti dell’azienda con la quale si intende avere a che fare. L’Unione Europea ha definito un insieme di criteri dei quali avvalersi. Quanto alla pattuizione, esiste un’apposita clausola da inserire nel contratto.







Il secondo: se il contratto è già in essere e l’azienda italiana intende ritirarsi, si può valutare se è applicabile il principio della forza maggiore. In questo caso l’azienda italiana sostiene che per ragioni imprevedibili, insuperabili, e che non dipendono dalla propria attività, non è più in grado di procedere con l’esecuzione di opere, con la consegna di beni o con la fornitura di servizi. Come vedremo, però, la force majeure non è sempre applicabile. Questo articolo trae spunto dal convegno “Contratti internazionali di fornitura di impianti – L’industria italiana alla prova delle nuove sfide” organizzato giorni fa a Bologna da RP Legal & Tax, studio legale (fondato nel 1949) con più di 150 professionisti, sette sedi in Italia e collaborazioni con primari studi a livello globale. Nell’occasione è intervenuto Flavio Petrilli, Head of Contract Management and Trade Compliance di Thales Italia, filiale del colosso francese Thales che opera a livello globale nei mercati della sicurezza, dei trasporti, della difesa, dell’aerospazio. Petrilli è stato anche intervistato a latere.

 

L’universo complicato delle sanzioni internazionali

1)      Una miriade di sanzioni

Le sanzioni non sono uno strumento nuovo: il primo caso del quale si abbia conoscenza è la proibizione, per i mercati di Atene, di importare prodotti di Megara, in risposta al rapimento di tre donne. La misura era stata imposta da Pericle, abile politico attivo nel V secolo avanti Cristo. È però certo che l’attuale quadro internazionale in materia sia il più complicato che l’umanità abbia conosciuto: stiamo parlando di oltre 20mila soggetti sanzionati nel mondo, e di una miriade di sanzioni economiche settoriali disposte dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dall’Unione Europea, dagli Stati Uniti, dal Regno Unito, dal Canada, dall’Australia e dal Giappone, cui corrispondono spesso le contro-sanzioni dei Paesi colpiti.

Anche il Consiglio di Sicurezza Onu può emettere sanzioni

Cosa deve fare un’azienda italiana che opera a livello globale?

1)      L’azienda italiana deve anzitutto comprendere se può essere – anche indirettamente – coinvolta nel meccanismo delle sanzioni

Flavio Petrilli, Head of Contract Management and Trade Compliance di Thales Italia

L’azienda italiana deve capire se le sanzioni possano riguardare la sua attività. Anzitutto, dunque, deve porsi delle domande. «Ad esempio, l’impresa italiana deve chiedersi: svolgo operazioni in Paesi soggetti a sanzioni? Ho condotto qualche attività con i governi di questi Paesi? Aziende di questi Paesi sono parte integrante della mia supply chain? Ricevo pagamenti da questi Paesi? Facilito movimenti di fondi, beni e servizi in questi Paesi? Produco, importo, esporto o commercio beni o tecnologie soggette a controllo o sanzioni da parte di Ue, Uk, Giappone o Usa, etc.? Produco, importo o esporto beni “dual use”, e quindi con funzionalità sia civili che militari? Opero in settori soggetti a sanzioni economiche, ad esempio quelli che riguardano i metalli preziosi, petrolchimica, aeroporti, assicurazioni, agenzie di viaggio, petrolio, gas e difesa – che sono quelli più colpiti dalle sanzioni?» – afferma Petrilli.

2)      La Compliance e la Due Diligence

Si accennava al fatto che l’azienda operativa a livello internazionale deve attenersi alla Compliance, ossia «deve realizzare un insieme di processi, metodi e strumenti in grado di garantire il pieno rispetto degli obblighi nazionali e internazionali (relativi alle sanzioni) in materia commerciale» – afferma Petrilli. Come farlo? Sulla scorta del modello già suggerito per l’Iran, l’Unione Europea, raccomanda le aziende di dotarsi di un un programma di risk assessment, che rifletta il business model dell’impresa e tenga conto della “geografia” delle attività e dei settori operativi. I risultati di quest’ultimo devono definire un grado di rischio atteso: basso, medio e alto. I parametri da tener presente, secondo il modello proposto sono sei: i beni; il target (ad esempio il background dei supplier); l’end user (governativo o privato); lo scopo dell’uso (civile o militare o misto); il volume della transazione e il canale bancario; e infine eventuali altre parti coinvolte. «In pratica, il risk assessment serve per identificare il livello di approfondimento cui deve tendere la due diligence» – afferma Petrilli. Questa consiste in un processo di investigazione che l’azienda italiana pone in essere nei confronti della controparte, quando allarmi anche minimi relativi al tema delle sanzioni sembrano trovare un fondamento. «Nell’80% dei casi, la Due Diligence ha una funzione pre-contrattuale: serve per capire se sia il caso di stringere rapporti commerciali con un’azienda, stanti determinate contingenze» – afferma Petrilli.

Secondo lo schema già adottato dall’UE con l’Iran, sono previsti tre diversi livelli di due diligence, corrispondenti a quelli di rischio. Con il primo l’azienda italiana chiede a quella straniera “sospetta” una self-disclosure di livello basilare. Ad esempio, informazioni sull’origine dei capitali, sui nomi degli azionisti, sulle attività, sui prodotti, sulla forma legale, sugli eventuali default nei pagamenti e sui procedimenti per bancarotta e sui nomi degli auditor. L’impresa italiana può svolgere una ricerca per vedere se la società con la quale si ha a che fare compare nella “lista nera” europea (EU Consolidated Financial Sanctions List). Con il secondo l’azienda italiana chiede informazioni più dettagliate e provvede autonomamente, o per il tramite di società specializzate alla raccolta o verifica di tali informazioni: ad esempio la lista delle persone politicamente esposte, l’identificazione degli ultimate beneficial owner, i file relativi a vicende giudiziarie e altro. Il terzo prevede invece la visita “fisica” ai siti stranieri, per constatare le loro reale esistenza; un check reputazionale concernente il background e l’integrità dei vertici della società “sospetta”; i procedimenti legali in corso e quelli passati; i “veri” mercati interessati. Ma anche interviste dal vivo al management, relative ad esempio a tutte le attività svolte dall’azienda in questione. Nel terzo livello, è assai improbabile che sia l’azienda italiana manifatturiera a muoversi. D’altra parte, chi andrebbe mai a fare appostamenti e interviste? Per queste cose, ci sono società di intelligence specializzate cui rivolgersi.

Esiste peraltro una raccomandazione europea (2019/1318) relativa ai programmi di compliance interna nei casi di commercio di beni dual-use (civile e militare): comporta ad esempio la definizione di performance review, audit, reporting e azioni correttive. «Va sottolineato che molte aziende hanno policy interne molto più restrittive rispetto a quelle delle normative internazionali: ci sono questioni reputazionali e commerciali che portano a questo» – afferma Petrilli. «Infine, oltre ad attività di compliance e di business intelligence, l’azienda deve sempre portare avanti programmi di anti-corruzione. In effetti, tutte queste attività sono strettamente collegate, e possono portare a decisioni unificate» – afferma Petrilli.

i sei parametri di risck assessment

3)      Come strutturare in azienda la funzione di Compliance

Secondo Petrilli, l’azienda che opera all’estero dovrebbe sempre dotarsi di un sistema di compliance interno completamente integrato con gli altri processi aziendali: «Deve essere in grado di porre in stand-by operazioni internazionali finché tutte le analisi non sono state svolte. E questo si fa soltanto quando i vari compartimenti della società comunicano costantemente tra di loro».

Inoltre, per svolgere attività di compliance, l’azienda deve dotarsi degli strumenti necessari. «Un tempo, la funzione interna che si occupava di queste cose si chiamava semplicemente “controllo alle esportazioni”, ed effettivamente il lavoro riguardava per lo più il monitoraggio dei flussi da e per l’estero, dotando tali movimentazioni delle opportune autorizzazioni, quando necessarie. Ora, nella maggior parte delle organizzazioni, il perimetro della funzione si è allargato, proprio per tener conto dei mutati scenari internazionali, e la funzione, che oggi è generalmente nota come “trade compliance”, rientra nella più ampia area della compliance aziendale e la sua attività è molto più complessa. Un tempo si lavorava “sulla carta”; oggi servono tools sofisticati, anche informatici, che allertano la società sui possibili cambiamenti che possono riguardare questa o quella società estera» – afferma Petrilli. E poi, lì dove l’azienda non arriva, si deve affidare alle citate società di intelligence. Anche qui, bisogna fare una selezione per capire quale fra queste può rispondere alle proprie aspettative. Infine, la funzione di compliance deve coinvolgere il personale dell’azienda. «Se ad esempio un dipendente, in buona fede, inoltra per email materiale tecnico controllato ad una società sanzionata, ciò può costituire reato» – afferma Petrilli.

Paesi sanzionati da diversi stati

4)      Cosa rischiano le aziende che non si attengono alla Compliance

Il rispetto della compliance è vagliato dalla Guardia di Finanza, dal Copasir, dalla Dogana; nel caso di dual-use, «le transazioni sono oggetto di autorizzazioni da parte di una particolare struttura (Uama, Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento) costituita presso il Ministero degli Affari Esteri» – afferma Petrilli. Quando poi certe operazioni con Paesi terzi rientrano nell’ambito di applicazione di talune Sanzioni Finanziarie, occorre l’approvazione del Mef. Nel caso di eventi di non-compliance riguardanti il commercio di beni dual-use senza la citata autorizzazione, si applica l’articolo 18 del decreto legislativo 221 del 2017, che prevede, per i responsabili, una pena dai 2 ai 6 anni di reclusione e una multa dai 25mila ai 250mila euro. «Questa norma e, in particolare l’art.20 dello stesso decreto legislativo, si applica anche nel caso di beni listati per effetto di misure restrittive unionali, ovvero in caso di violazioni del regime sanzionatorio» – afferma ancora Petrilli.

5)      L’attività preventiva. I contratti da scrivere: la “sanction clause”

Nell’attuale contesto, e specificatamente quando la controparte contrattuale si trovi o sia collegata con Paesi soggetti a restrizioni, la cosa migliore è dunque quella di inserire una clausola apposita, la “sanction clause”, che va tenuta al di fuori dell’incerto contesto della forza maggiore – di cui parleremo a breve. Queste clausole sono studiate in modo tale che, nel caso in cui una delle parti si trovi ad essere oggetto di sanzioni o restrizioni, si verifica una di queste tre conseguenze: la “termination” del contratto, che deve prevedere peraltro il pagamento dei lavori eseguiti e altro; la “sospensione”, che dovrebbe contemplare un meccanismo di revisione dei prezzi o la possibilità di rinegoziare il contratto; la “novazione”, nel qual caso si suggerisce di precisare nella sanction clause che i nuovi accordi in ordine al titolo o all’oggetto dell’accordo saranno comunque subordinati all’assenza di cause ostative e al rispetto della disciplina restrittiva al tempo vigente.

Paesi sanzionati da EU

6)      Quando il rapporto è in essere, ma le sanzioni non ne consentono lo svolgimento: la forza maggiore

Si accennava al principio della forza maggiore. Il fatto è che mentre questo principio permea il “civil law” (modello di ordinamento basato sulla codificazione, come quello italiano) non è direttamente contemplato in regime di “common law” (il sistema britannico e americano, quello basato sui precedenti giurisprudenziali). Il secondo modello è quello largamente più utilizzato, per cui l’azienda italiana deve valutare quale legge sia applicabile al caso concreto. Nel “common law” la forza maggiore deve essere espressamente indicata in apposite clausole.  E anche se questa condizione è inserita nella pattuizione, deve contemplare una lista di eventi specifici, perché le formule “catch-all” generiche possono rivelarsi inefficaci. Dunque occorre leggere attentamente le espressioni che sono state utilizzate.

In ogni caso, prima di fare affidamento sulla forza maggiore, l’azienda deve fare alcune valutazioni: il principio esclude qualsiasi obbligazione da parte dell’impresa che lo invoca o questa deve comunque pagare una “compensazione”? E a quanto ammonterebbe quest’ultima? È possibile ingaggiare un altro contractor? Sono state inoltrate tutte le notifiche concernenti l’evento (e nei tempi previsti) per chiedere l’applicazione della force majeure? Cosa accade quando le condizioni che la determinano vengono meno? In realtà la questione è ancora più complicata. Poniamo che la clausola di forza maggiore menzioni la “guerra”. E cosa distingue, giuridicamente, la guerra dal “conflitto” e dalle “ostilità”? La clausola si applica anche alle conseguenze del conflitto, come ad esempio, le possibili “sanzioni economiche”? È bene dunque prestare la massima attenzione, nella stesura di queste clausole, per evitare di risultare, in mancanza di una specifica “sanction clause”, privi di strumenti contrattuali adeguati a gestire situazioni come quelle in essere. Il “common law” contempla altri principi che potrebbero incidere sulla sorte del contratto, come la “illegality” o la “frustration”. Ma non è semplice dimostrarne l’applicabilità in giudizio.














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