Perché la produzione industriale italiana è calata del 7,2% in aprile e purtroppo continuerà ancora a scendere

di Marco De' Francesco ♦︎ Crisi strutturale del modello industriale tedesco, che è il nostro primo cliente. Rialzo dei tassi che sta dispiegando i suoi effetti: riduzione dell'acquisto di beni durevoli. Aumento costi di trasporto. Riduzione degli investimenti in 4.0 e interconnessione. Pnrr che di fatto è congelato e potrebbe bloccarsi. Fine del boom edilizio. Sono tanti i fattori che fanno pensare a un futuro tutt'altro che roseo. Li abbiamo analizzato con un parterre di altissimo livello: Fabio Arpe, Patrizio Bianchi, Giovanni Costa, Marco Fortis, Alberto Quadrio Curzio

Cosa si cela dietro il peggior calo della produzione industriale italiana da tre anni a questa parte? Quali ragioni hanno determinato la contrazione di aprile, che secondo le proiezioni dell’Istat è pari all’1,9% rispetto a marzo e al 7,2% su base annua? Perché i beni di consumo, quelli intermedi e l’energia sono sotto scacco? E soprattutto: che cosa succederà in futuro? La verità è che non c’è una sola ragione; piuttosto, diverse concause rimaste silenti nei periodi di relativa tranquillità degli scambi hanno iniziato gradualmente a manifestare il proprio potere distruttivo. Tanto materiale incombusto ha iniziato ad accendersi qua e là; è un po’ la cambiale che arriva in ritardo, e che è diretta alla manifattura italiana, gregaria dell’industria internazionale. Non essendo sul fronte, il nostro manufacturing sperimenta di rimbalzo la crisi che opprime già da tempo i propri referenti, come la Germania.

Sotto la lente di ingrandimento il modello industriale tedesco che, gonfiato venti anni fa dall’inversione delle partite correnti con diversi Paesi come l’Italia (causa tasso di conversione euro) e largamente fondato su accordi privilegiati sul costo dell’energia russa, oggi è finito in coma forse irreversibile; perché, dopo due decenni di strada in discesa, non ha formato gli anticorpi per affrontare un cambio di scenario. Decisioni pazzoidi come la chiusura del nucleare ne sono la prova. Ecco, la Germania è il nostro primo partner commerciale. La manifattura italiana è, in quanto supplier, legata a doppio filo a quella tedesca.







La crisi del modello industriale tedesco, peraltro, è quella del modello europeo, visto che si è creata una vasta area di Paesi (Austria, Belgio, Paesi Bassi, in parte Finlandia e Paesi dell’Est) per i quali la Germania rappresenta il centro di gravità manifatturiero; è il motivo per cui vanno peggio dei Paesi mediterranei.

Al di là di ciò, per le imprese manifatturiere italiane conta moltissimo la questione dei tassi di interesse: in questo momento molte di loro sono concentrate sul contenimento dei costi e sulla buona gestione, più che sulla produzione. Il rischio è quello di finire nella lista di quelle “in temporanea difficoltà”, e vedersi pertanto rifiutare un ulteriore accesso al credito. La brutta notizia è che anche la questione dei tassi sembra legata ai nuovi equilibri internazionali che si stanno formando a seguito dell’accentuarsi del conflitto diplomatico e commerciale tra Occidente e Oriente. Mentre il metano e gli idrocarburi in generale sono quasi tornati ai livelli pre-guerra (Russo-Ucraina) il costo dei trasporti non accenna a calmierarsi. Insomma, non cambierà stagione da un mese all’altro, e le imprese manifatturiere devono adattarsi al nuovo status quo.

Di tutto ciò e di altre concause abbiamo parlato con un parterre d’eccezione: con Fabio Arpe, il banchiere d’affari fondatore di Arpe Group; con l’economista industriale ed ex ministro dell’Istruzione del governo Draghi Patrizio Bianchi; con il professore emerito di Strategia d’impresa e Organizzazione aziendale all’Università di Padova Giovanni Costa; con il professore Emerito di Economia Politica della Università Cattolica di Milano Alberto Quadrio Curzio, già presidente dell’Accademia dei Lincei; e con il docente al dipartimento di Economia Internazionale dell’Università cattolica di Milano Marco Fortis, anche direttore della Fondazione Edison.

Cosa dice l’Istat

L’indice destagionalizzato mensile segna diminuzioni congiunturali in tutti i comparti: variazioni negative caratterizzano, infatti, i beni intermedi (-2,6%), i beni strumentali (-2,1%) e, in misura meno marcata, i beni di consumo (-0,4%) e l’energia (-0,3%).

Se poi consideriamo i dati nel confronto tra l’aprile 2023 e lo stesso mese del 2022, la situazione si fa più seria: i beni di consumo sono calati del 7,3%; tra questi, quelli durevoli (- 8,3%) più dei non durevoli (-7,2%); quelli strumentali (- 0,2%) non hanno subito il crollo di quelli intermedi (-11%) e dell’energia (-12,2%).

L’indice destagionalizzato mensile segna diminuzioni congiunturali in tutti i comparti

Sempre secondo le proiezioni dell’Istat, gli unici settori di attività economica in crescita tendenziale sono la fabbricazione di mezzi di trasporto (+5,7%), la fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (+2,1%) e la produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (+0,6%). Le flessioni più ampie si registrano nell’industria del legno, della carta e della stampa (-17,2%), nella fornitura di energia elettrica, gas, vapore ed aria (-13,6%) e nella fabbricazione di prodotti chimici e nella metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-10,9% per entrambi i settori).

Il calo più significativo è nelle industrie del legno, della carta e della stampa, che complessivamente registrano una flessione del 17,2%

Le ragioni: l’industria italiana all’ombra del gigante malato

l’economista industriale ed ex ministro dell’Istruzione del governo Draghi Patrizio Bianchi

«Io credo che questo rallentamento non vada preso sottogamba. C’è un gran dire che l’area mediterranea in questo momento va meglio di quella economica tedesca, e che l’Italia guida la prima: ma quali saranno le conseguenze, in un contesto economico e produttivo molto integrato? Per capire, bisogna riflettere sul fatto che non si tratta di una momentanea flessione di Berlino: ad essere in crisi, è il modello tedesco, quello che ha dominato l’economia europea dall’inizio del nuovo secolo», afferma Patrizio Bianchi.

Per Bianchi «il modello tedesco si basava sull’energia a basso costo, e quindi su accordi strategici con la Russia che oggi sono saltati. Si pensi a Nord Stream, il gasdotto che, attraverso il Mar Baltico, trasportava gas proveniente dalla Russia in Europa occidentale, passando per la Germania. Si pensi al suo boicottaggio, e all’interruzione di Nord Stream 2. Si pensi alle conseguenze politiche della guerra con l’Ucraina. È evidente che per Berlino è cambiato tutto». Per la Germania, cioè, si tratta di un cambio di paradigma al quale non riesce ad adattarsi. In realtà la situazione tedesca è assai complicata, e attualmente si può solo fare delle ipotesi. Perché, a ben vedere, è vero che la Germania è ormai entrata in recessione tecnica, dal momento che il pil tedesco nel primo trimestre 2023 ha mostrato un calo dello 0,3%, e che questo dato va sommato alla flessione dello 0,5% del quarto trimestre 2022; ma è anche vero che l’economia generale va peggio della produzione industriale: è vero che a marzo questa ha fatto registrare una diminuzione consistente, pari al 3,4%, e che il mese prima il calo era stato del 2,5%, ma tutto sommato il primo trimestre 2023 è andato meglio dell’ultimo del 2022 per 2,5 punti. Certo il gigante è fermo.

L’Ice fa presente che il surplus delle esportazioni tedesche l’anno scorso ha raggiunto il livello più basso dal Duemila, e che il saldo commerciale si è più che dimezzato, passando da 175,3 a 79,7 miliardi in un anno; pesa molto il costo di importazioni di energia. Sempre per l’Ice, nei rapporti con la Cina, la Germania ha registrato un grande deficit commerciale, il più ampio dal 1950, e la Cina, da secondo Paese importatore di merci tedesche, è passata al quarto posto. Insomma, il rapporto tra costo dell’energia e indebolimento del modello tedesco sarebbe evidente. Va peraltro sottolineato che la Germania ha sperimentato, negli ultimi 20 anni, un successo commerciale ben al di là dei propri meriti. Alla fine del secolo scorso, la Germania era il “grande malato d’Europa”. Fu il tasso favorevole nel cambio con l’euro, che era al contempo sfavorevole per Paesi come l’Italia, a determinare una sostanziale inversione delle partite correnti con altri Paesi, tra cui l’Italia. Poi la Germania ha gestito nel peggiore dei modi il proprio vantaggio potenziale: nel 2008 Berlino sembrava decollare, ma ciò non è mai avvenuto. L’indebolimento del contesto europeo, dovuto a folli politiche di austerità dettate da Berlino alla Commissione di turno, alla fine non ha favorito la Germania: i partner strangolati non avevano i soldi per comprare le merci tedesche. In questo contesto, sono intervenute politiche scellerate: si pensi all’automotive, comparto dove Berlino era fortissima e dove ora deve fare i conti con nuovi player americani e cinesi.

Giovanni Costa, professore emerito di Strategia d’impresa e Organizzazione aziendale all’Università di Padova

Non è la sede adatta per parlare degli infausti 16 anni di governo Merkel, che ha dominato la politica europea. In un’intervista di qualche tempo fa a Industria Italiana, l’economista e storico Giulio Sapelli ha così sintetizzato quegli anni: «Angela Merkel sarà ricordata per aver venduto la Germania alla Cina».

Il problema è che dai tempi dell’inversione delle partite correnti l’industria europea si è strutturata secondo uno schema che vede la Germania (e in parte la Francia) direttamente sul mercato, e diversi altri Paesi nel ruolo di supplier: in certi settori, tantissime aziende italiane, soprattutto al Nord, ricoprono questa posizione. Insomma, a differenza di quanto accadeva alla fine del secolo scorso, la crisi del modello tedesco non può che avere effetti nefasti sulla produzione industriale italiana.

«In generale, noi siamo per lo più un Paese di terzisti, non siamo direttamente sul mercato e quindi ci ritroviamo in una posizione di particolare debolezza: siamo in balia dell’andamento degli altri Paesi, soprattutto della Germania, ma non solo. Attualmente, disponiamo di informazioni molto nebulose; ma è abbastanza evidente che qualche problema c’è», Giovanni Costa.

Le ragioni: l’aumento dei tassi di interesse nel nuovo contesto deglobalizzato

Fabio Arpe, ceo Arpe Group

«Non sorprende il calo della produzione: in questo momento ci sono aziende che vanno molto bene, ed altre che sono in forte difficoltà. Si è assistito, infatti ad un rialzo dei tassi di interesse scellerato – l’euribor è passato in poco più di un anno da 0,5% al 4%, e nel 2015 era negativo – che porta molte imprese a “lavorare per le banche”, a concentrarsi unicamente sulla riduzione dei costi e sulla revisione dei flussi di cassa», ci spiega il banchiere d’affari Fabio Arpe.

Secondo Arpe, l’aumento dei tassi di interesse non è strettamente correlato all’incremento dei costi dell’energia: «Questi ultimi sono quasi tornati ai livelli pre-guerra, ma i tassi aumentano. Questo è dovuto al fatto che, con la guerra, la globalizzazione è finita. Si è creata una nuova divisione tra Occidente e Oriente, e tra Paesi democratici e quelli autoritari. Sono pertanto aumentati i costi di trasporto e ci sono Paesi cui l’Occidente non può più rivolgersi. Questo significa che non si tornerà mai più, almeno in tempi brevi, all’inflazione al 2%: le aziende manifatturiere devono imparare a convivere con un’inflazione al 3% o al 4%, il livello medio che si raggiungerà quando le acque si saranno calmate».

Al di là di tutte queste considerazioni sul quadro internazionale, anche per Costa «le aziende in questo momento, soprattutto le grandi, sono più attente che in passato ai margini e alla redditività, e meno concentrate sulla crescita. Si sono focalizzate sulla gestione oculata. E questo ha risvolti positivi, ma anche negativi».

Le ragioni: l’affievolirsi delle aspettative sul Pnrr

L’avanzamento del Piano non va come previsto. Si pensi che nel 2023, dietro risorse programmate per 33 miliardi, la spesa si è arrestata, finora, a 1,2 miliardi. Quasi niente. Ci sono forti ritardi. «Il Pnrr ha un effetto moltiplicatore strutturale, per via degli investimenti in infrastrutture materiali e immateriali destinati a cambiare l’economia del Paese. Se le aspettative si affievoliscono, l’industria ne risente quasi subito, perché le aziende ragionano ex-ante; e perché pensano che senza questi importanti investimenti non possiamo metterci alla pari con la Cina e gli Usa, che sotto il profilo della tecnica e della scienza corrono di più», afferma Quadrio Curzio.

Le ragioni: il rallentamento degli investimenti 4.0

«Il 4.0, inteso come un insieme di incentivi per favorire la transizione digitale, dopo aver determinato massicci investimenti, sta esaurendo la propria spinta. Era una vera e propria cedola per gli interventi innovativi nella manifattura.  Ora è in calo» – prosegue Quadrio Curzio.

Le ragioni: la fine dell’effetto Superbonus

Marco Fortis, economista dell’Università Cattolica e direttore della Fondazione Edison

Secondo Fortis, non è corretto parlare di “crollo”, di “gelata” della produzione industriale. Si tratterebbe per lo più di un “assestamento” a seguito della fine del Superbonus 110%. «Il boom edilizio ha generato una forte domanda produttiva, di materiali e componentistica. Ora, con la riduzione degli incentivi, tutto questo sta finendo, e si torna a condizioni di normalità».

Per Fortis, non è il caso di alimentare la sfiducia: «Certo, c’è un’inversione di tendenza rispetto a qualche mese fa: ma stiamo andando meglio di altri Paesi importanti: la Germania e la Francia sono ferme, l’Olanda è ferma, come il suo porto, Rotterdam. Il Pil italiano, invece, nel primo trimestre del 2023 ha superato le aspettative: + 0,6% rispetto al trimestre precedente e + 1,9% nei confronti del primo trimestre del 2022; se si pensa che quello medio europeo, nello stesso periodo, ha fatto registrare un calo dello 0,1%, forse il panorama il panorama italiano è meno fosco di quanto non si pensi».

Le ragioni: l’equilibrio sempre più difficile tra export e domanda interna

Alberto Quadrio Curzio, professore Emerito di Economia Politica della Università Cattolica di Milano

Una conseguenza della trasformazione dell’industria italiana da produttori sul mercato a terzisti o ad aziende che servono nicchie ad alto valore aggiunto nonché della perdita del potere d’acquisto degli italiani, è stato il costante aumento della quota export delle imprese. In questo contesto, non deve sorprendere la caduta senza freni dell’industria dei beni di consumo né la circostanza che nel 2023 (come si legge nel Rapporto annuale dei Settori Industriali di Intesa Sanpaolo e Prometeia) il fatturato dell’export manifatturiero supererà quota 50% del totale. L’attuale alto livello dell’inflazione, peraltro, sta già accentuando il rallentamento della domanda interna, per via del reddito disponibile negativo delle famiglie italiane. Le associazioni dei consumatori chiedono che i listini vengano calmierati e politiche a sostegno dei redditi più bassi. Ma è un contesto in cui sono aumentate molto le spese obbligate – e cioè quelle per le abitazioni e per le utenze – e queste hanno oltremodo mortificato il potere d’acquisto. D’altra parte, un’industria votata all’export è sempre in balia delle vicende internazionali; e ora, come si è visto, il quadro è di una complessità spaventosa.














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