I 1001 paradossi della transizione energetica “sostenibile”: opportunità o rischio?

di Laura Magna ♦︎ Nucleare, materie prime alternative, riciclo: sono le soluzioni per salvare l’industria, messa a dura prova dalla guerra in Ucraina. Nei primi giorni degli attacchi il costo medio dell’energia è arrivato a 700 megawattora, rispetto ai 200 di gennaio. Un salasso per le imprese. Necessario un piano industriale per il remanufacturing: circolarità su materiali ed energia. Il caso dell’auto elettrica e il contributo delle tecnologie digitali. Parla Flavio Tonelli

Ci vuole una politica industriale energetica seria, pragmatica e non demagogica. Un piano che richiede molte risorse economiche – che oggi sono disponibili – e almeno un decennio di tempo per abilitare una transizione sostenibile dell’industria. Una transizione che non può che passare da una strategia complessa con al centro la produzione di energia (sia di tipo costante sia rinnovabile) in autonomia e dalla diffusione del re-manufacturing, che è uno degli abilitatori reali verso l’economia circolare.

A dirlo è Flavio Tonelli, ingegnere e professore ordinario di sostenibilità industriale e industria digitale all’Università di Genova che ha una sua visione precisa e molto pratica di quella che dovrebbe essere la strada, ormai obbligata, da perseguire, per annullare gran parte degli errori fatti finora in questo ambito. La nuova politica energetica che il professore auspica è complessa e coinvolge l‘industria in maniera capillare e profonda. I temi sul tappeto sono diversi, dal costo dell’energia, al mix delle fonti, al coordinamento col vincolo di disponibilità di materie prime per le diverse produzioni caratteristiche del nostro sistema industriale.







Le soluzioni ci sono e molte sono note da decenni e infatti molti altri paesi (concorrenti) le hanno implementate con altrettante politiche energetiche ad hoc. Dal nucleare come fonte alternativa a gas e petrolio (mentre ricordiamo che il nucleare è stato rifiutato dall’Italia via referendum fin dalla fine degli anni ’80) a un piano strategico per il reperimento delle commodity di materie prime alternative a quelle usate tipicamente nelle produzione, e che oggi sono in esaurimento o quanto meno in raggiungimento di rarefazione e quindi soggette a speculazione. All’organizzazione di un flusso continuo della produzione che consenta di azzerare gli sprechi e di riciclare e riutilizzare tutti gli scarti di ogni industria riutilizzando in industrie diverse secondo quanto previsto dagli approcci alla simbiosi industriale che esistono da 20-30 anni.

 

I problemi sul tavolo 1/: la dipendenza energetica dell’Italia e la carenza di fonti alternative al gas e al petrolio

Flavio Tonelli, ingegnere e professore ordinario di sostenibilità industriale e industria digitale all’Università di Genova

Ma procediamo con ordine. Il primo tema sul tavolo è il costo dell’energia. La guerra esplosa ai confini orientali della Ue ha ricordato – perché è fatto noto anche se viene nascosto sotto il tappeto da decenni – che l’Italia dipende da fonti estere per soddisfare il suo fabbisogno energetico: dalla Russia importiamo in Italia circa il 40% di tutto il gas che usiamo e il 12,5% del greggio. Secondo la Transport&environment (che si basa sui dati Eurostat), l’Unione europea importa il 97% del greggio che usa e di questo il 25,7% arriva dalla Russia. Il 65% del petrolio che arriva nell’Ue è consumato dai trasporti su strada. Il Paese che importa più greggio russo è la Germania: è un dato importante per noi, vista la forte interconnessione con l’industria italiana che ne è un fornitore qualificato. Che quindi subisce i rincari due volte. Nei primi giorni degli attacchi il costo medio dell’energia è arrivato a 700 megawattora, rispetto ai 200 di gennaio e al costo medio di 60 euro degli ultimi dieci anni. Insomma sull’industria gli effetti diretti della guerra Ucraina sono potenzialmente devastanti ancor di più perché ci si è messi in una situazione di fragilità mai sperimentata.

«Al di là del momento attuale – dice Tonelli a Industria Italiana – se vogliamo parlare di costo dell’energia, il tema non va affrontato in maniera opportunistica e contingente, ma strategica. Anche perché è qualcosa che ci toglie gradi di libertà e che rischia di farci arretrare nel posizionamento competitivo manifatturiero già nel 2022. Se non dipendessimo così tanto dal gas russo (ma questo varrebbe per una dipendenza da un fornitore univoco di qualsiasi altro tipo) oggi non avremmo i problemi che abbiamo. La responsabilità è di chi non ha fatto una politica industriale, quindi una nostra responsabilità di governo del paese: questa situazione per essere sanata richiederà come 3-5 cinque anni ma più probabilmente 10 per poter ridurre la dipendenza da un fornitore esclusivo. E comunque se si dovesse optare, come pare stia facendo il governo Draghi, per fonti diverse in altre aree geografiche – peraltro altrettanto turbolente come Algeria e Azerbaijan – sposteremmo solo il baricentro della dipendenza. Una riflessione è d’obbligo: in Europa ci sono tre grandi manifatture, ovvero, nell’ordine per dimensione, Germania, Italia e Francia. Noi siamo gli unici dei tre a non avere, per scelta politica e strategica, il nucleare come fonte energetica». Il che rende la possibilità di essere competitivi, a queste condizioni e in presenza di una stretta sulle fonti energetiche, estremamente remota.

Entro il 2025, anche se il mercato diventa un po’ più stretto, 21 milioni di BEV possono essere prodotti, quasi la metà in più rispetto alle stime del mercato. Questo mostra che c’è sufficiente materia prima disponibile a breve termine per passare più rapidamente dalle auto petrolifere. L’attuale fornitura di
le auto elettriche a batteria non sono vincolate dalle materie prime: la quantità di auto elettriche vendute
dipende dalle normative automobilistiche globali (ad es. mandati ZEV negli Stati Uniti e Cars CO2 in Europa). Se l’Europa ha la metà di tutte le sue vendite di auto BEV nel 2025, ciò richiederebbe circa un quarto del BEV globale produzione, simile alla quota nel 2021 e quindi fattibile

I problemi sul tavolo 2/: rischio rarefazione e speculazione sulle materie prime

FIli di rame

Ma l’industria non ha solo la questione energetica in ballo ed è necessario ricordarlo per non incorrere nuovamente in una visione polarizzata, miope e di mera contingenza. «Se anche se risolvessimo il problema dell’energia con la bacchetta magica – dice Tonelli – dobbiamo considerare che abbiamo materie prime che hanno orizzonti temporali di esaurimento (intendendo la disponibilità al basso costo corrente) di meno di dieci anni. Per molte di queste materie prime, ci sarà rarefazione e speculazione». Che vuol dire? Le materie prime hanno un ciclo di vita che passa per diverse fasi. Man mano che si va avanti diventano più difficili da trovare e da estrarre il che implica costi maggiori che si riversano sul prezzo finale della stessa materia prima.

«Oggi – spiega Tonelli – siamo in un periodo transitorio che avrà una durata dipendente dal ritmo di consumo in base allo stock disponibile. Lo zinco, per esempio, è già soggetto a rarefazione per la zincatura dell’acciaio e dunque lo stock procapite è già inferiore a quello che i paesi richiedono. Questo comporta fenomeni speculativi che saranno così elevati che quella materia prima non potrà più essere utilizzata per produzioni a basso o medio costo». Per l’industria avere accesso al mercato delle materie prime è fondamentale come avere accesso all’energia. «Altrimenti avremo capacità, brevetti, progettualità, Made-In-Italy ma non materie prime ed energie per poterli realizzare – dice Tonelli – e ci stiamo proiettando inevitabilmente verso il combinato delle due situazioni senza che vi sia un serio dibattito circa le soluzioni e il ruolo della tecnologia».

 

Le soluzioni: un’analisi del bisogno di commodity e l’attuazione della strategia del recupero

Fase di remanufacturing nel settore automotive. Fonte Indra

Dunque, analizzati i problemi, quali sono le soluzioni? La strategia è chiara secondo Tonelli. «Bisognerebbe innanzitutto effettuare un’analisi delle materie prime vergini primarie e secondarie disponibili e necessarie rispetto al nostro sistema produttivo. La materia prima secondaria, ovvero quella che si può recuperare dal monte rifiuti con sistemi produttivi di riciclo manifatturiero per noi è vitale e non andrebbe gestita come rifiuto pagando paesi esteri per il suo trattamento. Se la frazione recuperata non è sufficiente, bisogna calcolare quanto tempo abbiamo davanti perché quella materia prima primaria sia soggetta a rarefazione. Se gli anni sono tre, ma anche cinque, il tema non è più di scaricare il maggior costo sul consumatore finale, ma cambiare approccio: i nostri migliori cervelli devono già oggi pensare, oltre che al recupero e alla rigenerazione di tali materie, a materie prime alternative, almeno per le industrie strategiche, che devono essere protette da materiali alternativi e abbondanti su cui abbiamo possibilità di acquisto o recupero almeno nel medio termine».

Fase di remanufacturing nel settore automotive. Fonte Indra

La pandemia e ora la guerra alle porte dell’Ue hanno cambiato in maniera strutturale alcuni fatti: la globalizzazione in termini ideologici è finita: «si va verso una regionalizzazione delle produzioni – dice Tonelli – le aziende fanno backshoring perché è diventato ingestibile produrre dall’altro lato del mondo sia per l’incertezza che per la localizzazione stessa di materie prime mercati. Lo è per la libera circolazione di merci e navi non è più scontata e perché i costi nel frattempo sono aumentati al punto che non si pone più un tema di risparmio se si produce nell’Est remoto, ma si rischia di spendere di più». Dunque quelle che abbiamo vissuto come incertezze, ancora una volta, il Covid prime a la guerra ora, non sono episodi sfortunati, «ma l’indicazione che ci stiamo avviando verso 2 o 3 decadi di riassestamento globale, che porteranno alla creazione di nuovi blocchi di potere ed economici con un livello di incertezza sistemica mai vissuto prima. Non c’è solo un tema di transizione energetica delle produzioni, non basta abbracciare i concetti di economia e industria ‘sostenibili’ ma si deve rimettere ordine negli equilibri globali geo-economici che oggi appaiono completamente saltati e un paese manifatturiero come l’Italia non può prescindere dal farlo ripartendo da una strategia per il manifatturiero».

 

Un piano industriale per il remanufacturing

Airbus è una delle aziende che più applica, per la sua produzione, il remanufacturing

Bisogna prepararsi a queste che sono conseguenze ormai scritte ed evitare tra 3-5 anni di rileggere tra le pagine che erano situazioni note: ci vuole un piano industriale che metta in fila tutti i problemi citati e gli assegni una priorità temporale. E che li affronti mettendo al centro il tema della rimanifattura magari potenziata da digitale e green (che però sono solo tecnologie e per altro complesse in termini implementativi su questa scala). «Questa è l’unica soluzione possibile – dice Tonelli – sono necessari scambi di simbiosi industriale come fanno molti altri paesi da decenni e come stanno realizzando in Cina da oltre un decennio avendo visto gli esperimenti europei. I rifiuti di un’industria devono diventare materia prima per la produzione primaria di un’altra industria. Questa è vera economia circolare, non il greenwashing che ancora ahimé domina e che è solo un vestito che non necessariamente corrisponde alla sostanza. Ci vuole una catena produttiva inversa che recuperi tutto il recuperabile per reimmetterlo in produzione e ridurre l’impatto in termini di materie prime vergini ed energia. Questa è circolarità sui materiali e in modo indiretto sull’energia occorrente per realizzarli. Mentre i rifiuti non recuperabili vanno bruciati nei termovalorizzatori per abbassare la bolletta energetica, anziché spedirli nel nord europa, sopportando peraltro un ulteriore costo, dove vengono usati allo stesso scopo dalle imprese tedesche».

 

Il caso dell’auto elettrica e la miopia europea sulla transizione inefficace

Fiat 500 elettrica

Solo attuando una seria politica del remanufactuing si può, in definitiva, arrivare a una vera transizione green dell’industria che è la transizione green della società tutta. C’è un paradosso industriale che mostra perché è così: quello dell’auto elettrica. Si fa un gran parlare del destino dell’automotive che è quello di dover abbandonare il motore endotermico per abbracciare l’alimentazione elettrica. Tuttavia, nota Tonelli, «ad oggi le auto elettriche vengono alimentate con fonti fossili… che è una follia. Dov’è la transizione in questo settore, mentre stiamo di fatto distruggendo l’industria dell’auto tradizionale europea e con essa tutta la componentistica italiana che la rifornisce? L’auto elettrica ‘funziona’ solo con autoproduzione e accumulo distribuiti. Ma tutte le tecnologie di accumulo corrente, le batterie, necessitano di materie prime che noi non abbiamo. Per tanto il passaggio all’auto elettrica, così come sta avvenendo, è nel migliore dei casi un esercizio di progettualità mentre nel peggiore una ‘truffa’ ai danni di consumatori e cittadini che non sapranno come e dove ricaricare questi costosi e poco efficienti veicoli. Ci sono aree nelle quali l’elettrificazione ha un senso così come il passaggio all’idrogeno. E’ necessario saperle distinguere, scegliere, indirizzare e soprattuto è necessario che in parallelo sia costruita la nuova infrastruttura che consentirà di utilizzarle».

Colonnine di ricarica per vetture elettriche

La rete nazionale, dice il professore, al momento non è in grado di reggere le esigenze della mobilità elettrica: non esiste un’infrastruttura seria, capillare, distribuita di colonnine di ricarica. «Non tutto è da buttare, intendiamoci: la mobilità di un’azienda che ha un capannone con pannelli fotovoltaici e ricarica la flotta durante la notte, funziona. Non tutto è sbagliato. Ma gran parte dell’impostazione è ideologica e sbagliata nei tempi e nelle priorità. Bisogna iniziare a mettere ordine e piano piano costruire una narrativa più pratica, improntata alla fattibilità reale delle cose in grado di auto sostenersi economicamente e finanziariamente. Al momento sulla mobilità dovremmo augurarci che diesel e nuovi motori a benzina continuino a essere disponibile e che il motore euro 7+ ci faccia andare avanti fino a che non saranno differenziate le modalità di locomozione dei mezzi e realizzate le infrastrutture, dalle batterie al ‘vettore a idrogeno’, finché non sarà risolto, in sostanza, il problema combinato di produzione ed energia in Italia». Senza contare l’enorme problema che l’incremento di materie prime per batterie e motori necessarie devono essere importate quasi totalmente da oltreoceano; l’accesso ai depositi di materie prime è già in pieno svolgimento. Diviene pertanto imperativo ragionare sulle possibilità di recupero e riciclo di quanto l’Europa (e l’Italia) acquisiscono e acquisiranno nei prossimi decenni al fine di ridurre tale dipendenza. Esempi come quello del nichel dall’Indonesia o della bauxite dalla Guinea mostrano come la mobilità elettrica e l’industria correlata possa rappresentare, se non gestito, un nuovo livello di insostenibilità globale come riportato da diversi report internazionali che non vengono mai apertamente presentati e dibattuti.

 

E quale potrebbe esser il contributo delle tecnologie digitali? Anche esse potrebbero avere una utilità?

Identità digitale dei materiali, dei prodotti per una gestione completa del ciclo di vita degli stessi, dall’estrazione di materie prime fino al loro fine vita. Progettazione eco sostenibile e valutazione degli impatti di produzione e utilizzo. Riutilizzo e riuso delle componenti attraverso loro identificazione digitale (ad esempio con la digital plate) e inserimento su banche dati di materie prime secondarie o componentistica per i nostri settori vitali. Piattaforme di collaborazione e di pianificazione robusta delle produzioni in regime di elevata incertezza in presenza di discontinuità di approvvigionamento e recupero con la possibilità di lanciare produzioni dato l’insieme di materie prime e componenti disponibili e di incrociare tale capacità produttiva e logistica con la domanda. Questo e molto altro è oggi reso possibile dalle tecnologie digitali.

E’ arrivato il momento di passare dal solo concetto del ’soft’ al concetto dell’integrazione con gli oggetti tangibili e dare corpo non solo all’IoT ma anche all’Internet dei servizi e delle azioni. Tecnologie comunque non scontate e complesse che per poter produrre un risultato efficace richiederanno investimenti e competenze umane di un livello diverso da quello che stiamo osservando. Si sente sempre parlare di sostituzione dell’uomo da tecnologia e macchine: ecco il livello della sfida che abbiamo appena sinteticamente rappresentato richiederà ‘operatori aumentati’ grazie alla tecnologia, non certo la loro sostituzione con complessi algoritmi di auto apprendimento in un contesto di elevatissima volatilità e incertezza che sono i campi dove meno risultano performanti tali tecnologie. E’ ora di rallentare il ‘provincialismo tecnologico’ che abbiamo vissuto negli ultimi 15 anni e andare verso un utilizzo cosciente, pratico, reale di tali tecnologie.














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