Il post covid ci offre un’occasione d’oro: uno shock esterno di investimenti per uscire dalla stagnazione che ci stava uccidendo. Ma va favorita l’industria!

di Filippo Astone ♦︎ Siamo il Paese più stagnante d'Europa: l'economia italiana è addirittura sotto i livelli del 2000. I 209 miliardi del Recovery Fund ci offrono l'occasione di uscire da questo tragico empasse. Purché vengano spesi secondo un disegno di politica industriale teso a favorire in larga maggioranza la manifattura e le tecnologie abilitanti, e non cercando di conciliare le esigenze dei vari settori e di accontentare un po' tutti. Perché l'industria - piaccia o no - sta su un gradino superiore a tutti gli altri

Da tempo l’Italia è intrappolata in una stagnazione che sta strozzando l’economia e annichilendo ogni speranza di futuro, in particolare per i giovani. A parte la recessione da lockdown, quanto a sviluppo economico siamo non solo più indietro della grande crisi del 2008-2009, ma addirittura più indietro del 2000, con un impoverimento collettivo che non ha eguali in Europa. Fatto 100 il pil pro capite nel 2020, l’Oecd ha calcolato che nel 2020 l’Italia è a quota 98, la Germania a quota 124, la Francia a 122, la Spagna a 117, e il Regno Unito a 115.

Per quanto riguarda le persone a rischio povertà assoluta in % della popolazione, in Italia (stime Ambrosetti su dati Hfcs, Cuny ed Eurostat) sono il 27,3% del totale, rispetto al 17,4% della Francia e al 18,7% della Germania e al 21,6% dell’Unione europea a 26.







Siamo deboli, fragili, arretrati. Ed è anche per questo che l’Italia è il Paese europeo che sta pagando più di tutti il peso economico del lockdown. La contrazione attesa del nostro pil è infatti del 9,5%, rispetto all’8,2% della Francia; al 6,5% Germania; al 6,5% degli Stati Uniti e all’8,3% del Regno Unito. La nostra fragilità, insomma, ci ha reso i più esposti d’Europa. Ci batte perfino, anche se per un soffio, la Spagna, che perderà il 9,4% di pil.

Quanto a sviluppo economico siamo non solo più indietro della grande crisi del 2008-2009, ma addirittura più indietro del 2000, con un impoverimento collettivo che non ha eguali in Europa. Fatto 100 il pil pro capite nel 2020, l’Oecd ha calcolato che nel 2020 l’Italia è a quota 98, la Germania a quota 124, la Francia a 122, la Spagna a 117, e il Regno Unito a 115

L’occasione unica del Recovery Fund

Da molti anni, forse da decenni, per uscire da questa tragico empasse vi era un’unica soluzione possibile: uno shock di investimenti pubblici in settori altamente produttivi (a cominciare dall’industria) che invertisse la tendenza. Questi investimenti dovevano rispondere a una politica industriale chiara e a una visione del Paese. Fino all’epoca del Covid-19 era però impossibile effettuarli, perché i vincoli di bilancio europei, forse non del tutto a torto (vista l’enormità del nostro debito pubblico, come vedremo più avanti siamo il Paese più indebitato d’Europa e forse tra i più indebitati al mondo).

Ora il Recovery Fund, fornisce finalmente un’occasione unica: 209 miliardi da spendere in progetti di sviluppo. Di questi, 127,4 miliardi saranno prestiti, e ben 81,4 miliardi sussidi a fondo perduto. I vincoli sono di spendere il 20% nella transizione digitale (nella quale è compreso il 5G) e il 37% nella cosiddetta “economia green“, che comprende un numero svariato di voci. Inoltre, occorre avere come criteri guida la sostenibilità ambientale, la produttività, l’equità e la stabilità macroeconomica. Per presentare i progetti all’Unione Europea c’è teoricamente tempo fino a fine aprile, anche se il Governo Conte ha manifestato l’intenzione di arrivare pronto già a fine gennaio 2021. Ogni Paese europeo deve preparare un piano per la ripresa che definisca riforme e investimenti per i successivi tre anni. Entro due mesi la Commissione valuta se il piano è conforme alle raccomandazioni specifiche che ha rivolto a quel Paese, se è coerente con l’Agenda per la transizione verde e digitale e se promette di rafforzare la crescita strutturale. Il Piano va poi approvato a maggioranza qualificata dal Consiglio europeo. Vengono fissate delle scadenze per la verifica dei risultati da parte di un Comitato di funzionari ministeriali.

Ci vorranno mesi per superare tutti gli step di approvazione, e grazie al controllo europeo non avremo, per fortuna, molte possibilità di cedere a clientelismi o di fare danni. La tanto criticata Europa, insomma, ci sta fornendo l’unica possibilità nella nostra storia (non sarà assolutamente possibile che ce ne siano altre) per uscire da guai storici.

 

Il nostro debito pubblico, già mostruoso, crescerà ancora: solo la crescita trainata dall’industria ci potrà salvare

L’esigenza di crescere che abbiamo sempre avuto viene accelerata dalle conseguenze del lockdown, che hanno fatto crescere a dismisura il nostro debito pubblico già precedentemente altissimo. Gran parte dei sussidi, degli aiuti, del denaro per stimolare l’economia (incluso il Recovery Fund stesso, che come abbiamo appena visto prevede altri 127,4 miliardi di debiti) sono debiti che in futuro dovremo ripagare. E se aumentano i debiti, o cresce anche il fatturato o, in prospettiva, c’è solo il fallimento. Nei prossimi anni, basterà non rispettare di pochi punti i piani di crescita, anche per poco tempo, e saremo esposti senza difese alle speculazioni di mercati finanziari, che potrebbero facilmente portarci a uno scenario disastroso di tipo Argentino. In precedenza, senza crescita saremo rimasti stagnanti ed esposti a un lento declino. Domani, senza crescita andremo rapidamente in default, e lo pagheremo tutti amaramente.

 

Ogni italiano guadagna 26 mila euro e ha in capo 42 mila euro di debiti. In futuro saranno di più

Con il Covid l’Italia ha consolidato e rafforzato la posizione di Paese più indebitato d’Europa e fra i più indebitati al mondo. Le risorse necessarie a sostenere l’economia nella fase di lockdown faranno crescere il debito pubblico italiano a fine 2020 a quota 2.540 miliardi, cifra che aumenterà ancora nel 2021 e nel 2022 e in tutti gli anni successivi. In pratica, ogni cittadino italiano ha un reddito pro capite medio di 26 mila euro ed è intestatario di una quota di debito pubblico pari a 42 mila euro. Niente male. I 2.540 miliardi italiani sono superiori ai 2.516 della Francia, ai 2.364 della Germania e ai 2.248 del Regno Unito. Ma se si guarda al rapporto debito/pil il confronto è ancora più penalizzante. In Italia è pari al 158,9%, rispetto al 116,5% della Francia, al 75,6% della Germania, al 102,1% del Regno Unito, addirittura al 62,1% dell’Olanda. Ma ci batte perfino la Spagna, con il 115,6%.

Per quanto riguarda le persone a rischio povertà assoluta in % della popolazione, in Italia (stime Ambrosetti su dati Hfcs, Cuny ed Eurostat) sono il 27,3% del totale, rispetto al 17,4% della Francia e al 18,7% della Germania e al 21,6% dell’Unione europea a 26.

 

L’industria va privilegiata rispetto agli altri settori perché sta su un gradino superiore

Per crescere veramente e in modo sostenibile c’è una sola strada: privilegiare l’industria, alimentandola al massimo. E non solo perché siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa e il settimo al mondo (e quindi dobbiamo far leva sui nostri punti di forza, come è logico che sia) e, producendo poche materie prime, abbiamo necessità di esportare manufatti perché la nostra bilancia dei pagamenti regga. Ma soprattutto perché nessun settore come l’industria ha il potere di trainare tutti gli altri. L’industria infatti alimenta la finanza, le tecnologie ict e i relativi servizi, le materie prime. Crea lavoro e alimenta la scienza. E distribuisce risorse che poi fanno vivere le città, l’alimentare, il turismo, il commercio.

L’industria non è pari agli altri settori: sta su un gradino superiore.

Il grande rischio è che l’allocazione dei 209 miliardi venga fatta senza partire da questo dato di fatto, ma cercando di accontentare un po’ tutti, magari avendo come criterio il peso dei vari comparti sul pil o seguendo luoghi comuni nefasti, come quello che il turismo e la bellezza sarebbero il vero petrolio d’Italia, da valorizzare e far crescere. O che il futuro stia nel ritorno alle campagne o all’agricoltura. Non è vero per niente! Il turismo alimenta poco la scienza e la conoscenza e produce posti di lavoro di bassa qualità, camerieri o persone che rifanno le stanze. E ha scarsissime ricadute sugli altri settori. Peggio ancora, sarebbe se considerazioni elettoralistiche di breve periodo prevalessero, o si cadesse nella tentazione di assecondare proposte anche giuste e necessarie, ma estranee all’industria e alle sue tecnologie abilitanti, e con bassissimo potere di trainare quella crescita indispensabile per non fallire tutti. Il mostruoso debito che dovremo pagare, infatti, sarà sulle spalle di tutti noi, e se ci conducesse al fallimento, farebbe perire anche il turismo, l’agricoltura e tutte quelle attività tanto di moda che vanno per la maggiore sui giornali, in televisione e nelle conversazioni sociali.

 

Non solo digitale e tecnologie abilitanti, ma proprio investimento sull’industria “hard”, dalla siderurgia all’aerospaziale, dalle batterie alla chimica

Il premier Giuseppe Conte

Bisogna riscoprire l’Industria e portarla nella sua giusta centralità, con molta attenzione al digitale e alle tecnologie abilitanti, ma senza che questi prevalgano sulla “manifattura hard” che deve essere centrale e più importanti. Pertanto occorrono progetti sulla meccanica e sulla meccatronica, dalle batterie per l’auto elettrica (tra l’altro c’è un enorme problema di riconversione di tante aziende italiane che rappresentano un’eccellenza mondiale nel morente settore dell’alimentazione diesel) alla siderurgia, dal packaging alla fluidica e alla micromeccanica, dalla lavorazione del carbonio alla chimica e alla farmaceutica, dall’aerospaziale alla lavorazione delle materie plastiche, dall’hardware elettrico alla concia delle pelli, dalla produzione di energia ai macchinari, dal tessile ai componenti elettronici.

E, come abbiamo scritto tante volte, occorre una politica industriale moderna (basata quindi sulle conoscenze e sulla ricerca e sviluppo, facendo perno sulle università e su tante eccellenze nella ricerca di cui non possiamo che essere fieri, come ad esempio l’Istituto nazionale di fisica nucleare o l’Istituto italiano di tecnologia) che abbia un’idea di Paese da qui a cinque e dieci anni e metta in campo tutte le risorse disponibili per attuarla.

 

Meno merci e più bit. Supercalcolo e competenze

Tre ulteriori elementi importanti su cui ragionare:

1) C’è un problema di blocco degli scambi internazionali, che incide sull’export, che oggi fa vivere la manifattura italiana, generandone gran parte dei ricavi. Nel 2020, secondo la Sace, l’export scenderà dell’11,3%. L’Ocse ha reso noto i dati sugli scambi commerciali tra i Paesi G20 nel secondo trimestre: le esportazioni hanno subito un calo del 17,7% e le importazioni sono diminuite del 16,7% rispetto al periodo gennaio-marzo. Una contrazione importante, quindi, che ha fatto scattare il record di negatività. Il risultato è il peggiore dal 2009, quando il mondo è stato colpito dalla crisi finanziaria globale Questo fenomeno è mondiale, coincide con il riassetto e l’accorciamento delle catene di fornitura, e va affrontato.

2) È in corso da tempo un riassetto degli scambi mondiali: diminuiscono quelli di prodotti fisici e aumentano quelli informatici. Meno merci e più bit. Del resto, più fai cose di qualità e meno delocalizzi per ridurre il costo. Il Covid accelera questo processo, perché rendendo difficile lo spostamento di merci fisiche, accorcia la catena del valore. Ma resta comunque la necessità di essere presente sui mercati, attrvaerso lo scambio di dati. Insomma, Reti più corte ma più collegate digitalmente.

3) Le risorse che servono per far fronte a questo nuovo scenario sono:

Reti più potenti (e quindi il 5g è assolutamente necessario) e sistemi di supercalcolo

Competenze

Oggi il nostro numero di laureati in materie Stem ogni mille abitanti di età compresa fra i 20 e i 29 anni è estremamente basso. Sono appena 13,5, rispetto ai 19,1 della UE a 28; ai 21,4 della Francia; ai 22,1 di UK; ai 20,5 della Germania; ai 21,6 della Spagna

La Rete Unica non dovrebbe creare un nuovo monopolio, ma una infrastruttura di base utile a tutti. Tutto girerà intorno al 5G. Ciò crea un tema di tutela della rete da una parte, di importanti investimenti dall’altra.

Senza infrastrutture e senza competenze non si entra nella nuova fase di Industria Digitale. Servono soprattutto competenze di carattere tecnico-scientifico, indispensabili non solo per competere e per alimentare l’industria alle prese con le sue rivoluzioni, ma anche per coprire la necessità di nuovi posti di lavoro che esiste già oggi. Oggi il nostro numero di laureati in materie Stem ogni mille abitanti di età compresa fra i 20 e i 29 anni è estremamente basso. Sono appena 13,5, rispetto ai 19,1 della UE a 28; ai 21,4 della Francia; ai 22,1 di UK; ai 20,5 della Germania; ai 21,6 della Spagna.














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