Vincenzo Boccia ci dice la sua a 360 gradi: sindacati, Borsa, produttività, Paolo Gentiloni, questione industriale, Stx/Finmeccanica, Matteo Renzi e……

di Filippo Astone ♦ Il numero uno di Viale dell’Astronomia ha concesso a Industria Italiana una lunga e approfondita intervista, facendo un bilancio della prima fase della sua Presidenza. Senza giri di parole.

«Il Pil che cresce più delle previsioni, l’occupazione che aumenta anche se con timidezza e l’export che tira sono dimostrazioni che la strada imboccata con il governo è quella giusta. L’importante è non deviare». Parola di Vincenzo Boccia, che inizia la sua conversazione a 360 gradi con Industria Italiana esprimendo soddisfazione per la strada percorsa fin qui dal Governo, e soprattutto per i segni di ripresa che sembrano innegabili, anche se di proporzione non eccessiva. Il numero uno di Confindustria è un convinto assertore della politica industriale, che ritiene indispensabile per la crescita. «Ci vuole una visione ampia, il che significa guardare all’industria manifatturiera come anche all’industria del turismo, della cultura, dei servizi, delle costruzioni. Dobbiamo pensare alla crescita non come fine a se stessa ma come pre-condizione per contrastare diseguaglianze e povertà». Ecco l’intervista .

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D. L’Italia – come dimostrato da innumerevoli indicatori che sarebbe troppo lungo citare qui – si presenta come un Paese vecchio e poco propenso nel suo insieme all’innovazione. Ci sono troppi vecchi che lavorano a scapito dei giovani, le “stanze dei bottoni” sono ancora in buona parte occupate da settuagenari e ottuagenari, è difficile per i giovani affermarsi, si investe poco in nuove tecnologie e in ricerca. Si può dire che è un Paese vecchio, di vecchi e per vecchi. Lei che ne pensa? E che si può fare?

R. Serve prima di tutto un grande piano per l’occupazione dei giovani, intergenerazionale. Le misure che il Governo sta varando sulla decontribuzione delle assunzioni giovanili sono un passo avanti importante, ma poi ne serviranno altri. Soprattutto, occorre una politica di investimenti, una politica che parta da ricerca e sviluppo. Oltre che tecnologico il salto che dobbiamo fare è culturale. Serve pertanto uno sforzo collettivo, delle imprese e delle istituzioni, per affrontare e vincere la sfida cruciale della modernizzazione della nostra industria.

‘Serve prima di tutto un grande piano per l’occupazione dei giovani, intergenerazionale. Crediamo che sarà fondamentale operare una revisione dei programmi formativi in chiave 4.0‚

E se da un lato va migliorata la qualità del sistema d’innovazione, la trasformazione digitale dell’industria va governata. Tutto nella logica di una filiera complessa, da incentivare e stimolare. Crediamo che sarà fondamentale operare una revisione dei programmi formativi in chiave 4.0, puntando soprattutto sulle materie Stem (Science, Technology, Engineering, Mathematics) e sull’incremento degli investimenti in alternanza scuola-lavoro.

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Boccia: il No al referendum ha impedito la creazione di una grande agenzia nazionale dedicata alle politiche attive per il lavoro

D. Confindustria ha sostenuto il referendum per le riforme istituzionali e le relative proposte del Governo, che sono state respinte. Sembrava che il No pregiudicasse lo sviluppo, e avesse effetti negativi sulla credibilità del Paese e sul suo futuro sviluppo. Eppure, dopo il No non è successo nulla di particolarmente negativo, a quanto pare. E la strada della ripresa, seppur timida, sembra che sia stata imboccata. Come spiegare questa apparente contraddizione? E Lei prenderebbe ancora queste posizioni?

R. Non siamo affatto pentiti delle posizioni assunte sul referendum del 4 dicembre. Quello che sta accadendo è esattamente quello che temevamo e cioè la ricomposizione di una società neo corporativa e neo consociativa. L’esatto contrario di quello che serve per garantire governabilità e stabilità. L’incertezza è oggi il sentimento dominante sia per chi opera all’interno del Paese che per chi ci osserva dall’esterno. E questa condizione non è certo la migliore per attirare capitali esteri e rassicurare gli investitori italiani. Aggiungiamo che il No al referendum ha impedito la creazione di una grande agenzia nazionale dedicata alle politiche attive per il lavoro. Un vero peccato, di cui faranno le spese soprattutto i lavoratori. Il tema non può essere gestito bene, infatti, da tante agenzie regionali sparse.

D. Ormai manca poco all’approvazione della legge di bilancio. Che cosa ci può dire sull’argomento?

R. Le scelte dovranno essere selettive, individuando dove mettere le risorse e favorendo la crescita. Come già detto in altre occasioni, occorre distinguere tra legge di bilancio e piano di legislatura, che dovrebbe avere un respiro più ampio. Aggiungiamo che si può lavorare su alcuni elementi che abbiamo finora sottovalutato, ad esempio i molti investimenti pubblici che non si riescono a fare. E poi c’è il tema delle politiche per il lavoro e quello di una maggiore detassazione dei premi di produzione per le aziende.

 

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I cantieri navali STX a Saint Nazaire, Francia

D. Come vede la questione Fincantieri e Stx?

R. Forse l’idea di fondo potrebbe essere quella di un grande campione europeo in un momento in cui l’Europa si deve occupare di più della sua difesa. A ispirare i rapporti tra le due società e i due Paesi dovrebbe essere un’idea strategica che riguarda l’Europa, non l’Italia o la Francia. Mi sono permesso, invitato dai colleghi francesi per una giornata di incontro e di lavoro, di chiarire la posizione nostra italiana, affermando con una battuta che al titolo della giornata ‘croissance et confiance’ (crescita e fiducia) mancava una terza ‘c’, quella di coerenza. Confidiamo che questa coerenza possa avvenire con l’adozione di un quadro regolamentare Ue.

D.A nostro avviso la questione industriale è LA questione. E crediamo che sia così anche per Lei. In Italia c’è una sorta di dualismo fra le imprese. C’è un 20-30% del totale che investe, fa innovazione, esporta, rischia molto e traina tutto il Paese. Le altre, sono ferme o a rischio. Paolo Bricco del Sole 24 ore le chiama “imprese spiaggiate”. Condivide questa analisi? E quali rimedi?

R. È vero. C’è un drappello di testa, corposo ma non ancora abbastanza, che innova e cresce sul mercato interno e su quelli internazionali. La gran parte del sistema industriale, circa il 60% è però in una delicata fase di transizione: il nostro compito è di contribuire a creare le condizioni perché possano entrare nel primo gruppo. Una fetta minoritaria, infine, si trova in grande difficoltà e deve fronteggiare un cambiamento necessario.

‘La punta avanzata delle imprese italiane dev’essere di esempio per quelle che seguono mostrando l’importanza d’investire in modelli organizzativi, reti di distribuzione, brevetti, marchi e, insomma, in asset immateriali‚

In tutti e tre i casi abbiamo bisogno di mettere a fuoco nel Paese e in Europa i termini di una questione industriale che diventa, per il rilievo che assume, questione nazionale ed Europea. Abbiamo davanti una grande sfida: i mercati globali sono mercati di nicchia e i mercati di nicchia sono mercati per gli italiani. La punta avanzata delle imprese italiane dev’essere di esempio per quelle che seguono mostrando l’importanza d’investire in modelli organizzativi, reti di distribuzione, brevetti, marchi e, insomma, in asset immateriali.

Luca Peyrano, CEO di Elite

 

D. In Italia ci sono ancora pochissime aziende quotate rispetto agli altri grandi Paesi industriali con cui ci confrontiamo. Come mai? E che cosa ne pensa Confindustria?

R. Io credo che la finanza debba tornare alla sua funzione originaria: alimentare lo sviluppo delle aziende. Credo che sia possibile e credo anche che sia utile accompagnare le aziende verso un percorso di quotazione e di confronto sano con i mercati finanziari. Le mie non sono solo parole.

‘Con il Progetto ELITE si aprono le porte di Borsa italiana e la finanza diventa una leva strategica per le imprese italiane vincendo un pregiudizio culturale‚

Da presidente di Confindustria sto facendo il possibile per accompagnare le aziende associate – anche e soprattutto quelle di piccola dimensione – verso questo percorso. Una delle prove è l’accordo tra Confindustria e Borsa Italiana per quanto riguarda Elite, un’iniziativa veramente di valore per educare le imprese a confrontarsi con mercati e investitori senza che si debbano necessariamente quotare.

Peraltro, a proposito di finanza io credo che di recente si sia verificato un importante salto culturale. Fino a qualche anno fa c’era timidezza da parte dell’indstria ad avvicinarsi al palazzo di Borsa Italiana. Con il Progetto ELITE si aprono le porte di Borsa italiana e la finanza diventa una leva strategica per le imprese italiane vincendo un pregiudizio culturale.

D. Insomma, viva Elite!

R.Certamente. Io sono convinto che il capitalismo italiano possa restare familiare aprendo alla finanza come leva strategica. Lo riteniamo un capolavoro per tutto il Paese. Oggi ELITE deve diventare un progetto massivo per attrarre investimenti in Italia.

Confindustria punta a far crescere il numero delle imprese iscritte al programma ad almeno mille entro il 2018 nell’ambito di un’azione di sistema che diventa un’azione per il Paese. Purtroppo si parla molto di distribuzione e poco di produzione. Borsa Italiana seleziona le imprese che possono dialogare con le istituzioni finanziarie. Nei prossimi anni avremo meno piccole imprese perché diventeranno medie, meno medie perché diventeranno grandi e meno grandi perché diventeranno grandissime. La crescita diventa una sfida all’interno di ciascuna impresa e le imprese devono imparare ad attrarre capitale in ottica strategica. Confindustria deve informare e formare le aziende a fare un grande salto di qualità. Confidustria considera Borsa Italiana uno dei grandi luoghi strategici per l’attrazione degli investimenti nel Paese e sarà sempre al suo fianco.

 

Il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni in visita allo stabilimento VTR di Ornago

D. Comunque, una ripresa, anche se timida, è iniziata. Il miracolo lo hanno fatto le imprese?

R. sì, certo. Anche se non siamo molto d’accordo con l’analisi fatta dal Presidente del Consiglio a Cernobbio secondo la quale il miracolo lo hanno fatto imprese e famiglie. Se il sistema Paese mette le risorse disponibili sui nodi di sviluppo giusti, il sistema industriale reagisce e ha reagito alle cause di politica economica. Se parliamo di miracolo rischiamo di oscurare le cause di politica economica. Oggi gli strumenti dell’ammortamento, del super ammortamento, della ricerca e sviluppo, digital hub, credito di imposta sugli ammortamenti, sommate alla capacità dell’imprenditoria italiana e a un paese che nella prima volta della sua storia economica recente ha deciso di puntare sulle imprese ad alto valore aggiunto, ad alta intensità di produttività e di investimento, prescindendo dai settori – e dobbiamo essere selettivi da un punto di vista industriale – è un Paese sulla rampa di lancio.

‘Se il sistema Paese mette le risorse disponibili sui nodi di sviluppo giusti, il sistema industriale reagisce e ha reagito alle cause di politica economica. Ma non siamo capaci di raccontare quello che abbiamo fatto. Serve un pò più di orgoglio italiano‚

Quindi diciamo agli investitori esteri, benvenuti in Italia. Il Paese si racconta male, ma non ha nulla da invidiare ad altre realtà. Senza nulla togliere agli amici francesi, per fare un esempio comparativo, il Jobs act, la riforma delle pensioni, il piano industria 4.0 noi li abbiamo già fatti. Loro stanno partendo adesso. Hanno Macron e stanno raccontando la loro storia di successo. Siamo contenti per loro perché siamo tutti europei. Ma non siamo capaci di raccontare quello che abbiamo fatto. Serve un po’ più di orgoglio italiano.

 

L’intervento del Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda all’ assemblea di Confindustria

D. In generale, il ceto dirigente economico, o gli imprenditori, hanno delle responsabilità per i problemi del Paese? Ed è giusto che le ammettano?

R. Quando il ceto dirigente industriale fa un errore ne paga le conseguenze e le aziende falliscono. Noi, come Confindustria, ci proponiamo di essere un ponte tra gli interessi delle imprese e quelle del Paese. Quando assumiamo un’iniziativa ci chiediamo a chi giovi, se solo a noi o anche alla comunità di cui facciamo parte. Se non si creano le condizioni per questa corrispondenza vuol dire che la soluzione del problema è un’altra.

D Lei ha evidenziato più volte la mancanza di programmazione a lungo termine nel nostro Paese. A suo avviso come dovrebbe essere articolata?

R. Il problema centrale è che Paese vogliamo essere, che Paese vogliamo diventare. Quando ci saremo dati una risposta potremo apprestare le misure che servono a raggiungere quegli obiettivi. Dobbiamo costruire una politica economica fatta di passi coerenti con il percorso che avremo scelto se vogliamo crescere ed essere all’altezza della nostra condizione di seconda manifattura d’Europa dopo la Germania.

 

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Filippo Astone con il Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia

D. Lei ha auspicato una politica industriale dei fattori invece che una dei settori. Va detto, però, che gli Stati che hanno condotto le politiche industriali con maggiori risultati in termini di ricchezza creata – e cioè la Germania e gli Stati Uniti – hanno fatto eccome delle scelte di “settore”. La Germania della Merkel, ad esempio, ha voluto far nascere un’industria dell’hardware per le energie da fonti alternative, e ha sostenuto meccanica, chimica e settore automobilistico. Le Obanomics si sono concentrate sull’auto e sul manifatturiero. E dunque, perché noi non dovremmo farlo? Peraltro, il manifatturiero ha una innegabile capacità di creare valore economico in modo superiore al terziario e ai servizi, soprattutto in Italia, dove il settore dei servizi è debole e non esprime eccellenze particolari, né internazionali.

R. Anche se è ancora presto per fare un bilancio consuntivo, l’esperienza italiana dimostra che quando s’interviene sulla politica dei fattori anziché dei settori e s’individuano strumenti selettivi, come è stato fatto nella legge di bilancio 2016, l’impatto sull’economia reale non si fa attendere ed è positivo. Questo dimostra che dobbiamo continuare su questa strada.

‘Se vogliamo costruire un’industria ad alto valore aggiunto, dobbiamo continuare sulla strada di strumenti selettivi che incidano sui fattori e non sui settori e che abbiano effetti sull’economia reale‚

E se oggi possiamo beneficiare di un incremento del Pil, che ha permesso di avere uno sconto sulla manovra, è proprio perché abbiamo fatto una politica dei fattori nel presupposto che non esistono settori innovativi e settori non innovativi ma ci sono imprese innovative anche in settori tradizionali. E le imprese non sono dicotomiche con le famiglie: se crescono le imprese cresce l’occupazione. Se vogliamo costruire un’industria ad alto valore aggiunto, dobbiamo continuare sulla strada di strumenti selettivi che incidano sui fattori e non sui settori e che abbiano effetti sull’economia reale.

D. In ogni caso, la politica dei settori più efficace è forse rappresentata da massicci investimenti pubblici in ricerca di base a lungo termine, quella che le aziende (vincolate a ritorni presumibilmente certi sugli investimenti) hanno difficoltà a fare. Da lì nascono le innovazioni più significative. Lei che ne pensa?

R. Il piano nazionale di Industria 4.0. nasce proprio con l’intento di premiare le imprese che investono in innovazione e che per questa via accrescono produttività e capacità competitiva. Ecco perché insistiamo sul concetto che questo strumento, come gli altri approntati per la crescita delle imprese, non vada depotenziato ma debitamente mantenuto. Il punto che deve essere chiaro a tutti è che dare forza alle imprese vuol dire risolvere anche il problema delle famiglie italiane perché un’impresa che cresce deve assumere e lo farà rivolgendosi ai giovani, oggi esclusi, tutti figli di famiglia. Naturalmente agli investimenti privati dovranno sommarsi quelli pubblici, che oggi languono, diretti a migliorare lo stato delle infrastrutture materiali e immateriali per rendere più competitivo l’intero sistema Paese.

 

Matteo Renzi in visita alla Saima
L’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi in visita alla fabbrica Saima.

D. A suo avviso, se non vado errato, il Jobs act avrebbe avuto dei significativi effetti sul Pil. Eppure la stragrande maggioranza delle assunzioni fatte in questo modo sembra essere solo una diversa regolazione di rapporti contrattuali già esistenti sotto forma di partita iva, cocopro o altro. Inoltre, il pil non sembra essere cresciuto molto. Che cosa ne pensa? E come si può dimostrare questa correlazione? E in generale, i posti di lavoro supplementari e stabili non si ottengono meglio da nuovi prodotti e nuovi mercati piuttosto che da regole più flessibili? Se l’imprenditore non ha nuovi mercati da conquistare o nuovi prodotti da lanciare, perché dovrebbe assumere anche se con regole più lasche?

R. Con il Jobs Act le assunzioni sono cresciute e la disoccupazione mostra di scendere. Questo è un fatto. Che va irrobustito e incoraggiato insistendo sulle misure che lo hanno provocato e non certo eliminandole. Anzi, potenziandone l’effetto con il piano straordinario e massivo per i giovani di cui abbiamo parlato e che mette d’accordo le esigenze delle imprese con quelle delle famiglie dimostrando che rispondono agli stessi interessi. La politica dell’offerta, che parte dalle imprese, finisce necessariamente con alimentare la domanda facendo ripartire i consumi. Non per effetto di una politica redistributiva ma per l’irrobustimento del sistema industriale e quindi dell’apparato competitivo del Paese.

‘Con il Jobs Act le assunzioni sono cresciute e la disoccupazione mostra di scendere. Questo è un fatto. Che va irrobustito e incoraggiato insistendo sulle misure che lo hanno provocato e non certo eliminandole‚

C’è una bella differenza ed è bene che gli italiani imparino a riconoscerla. È per questa via che si conquistano nuovi mercati anche e soprattutto perché i mercati globali sono mercati di nicchia e i mercati di nicchia sono mercati per i prodotti italiani. Insomma, tutto si tiene in questa logica e non ci sono scorciatoie che non portino fuori strada.

D. Se non vado errato, Lei teorizza da tempo uno scambio tra produttività e incrementi salariali. E in ogni caso i salari dovrebbero essere fortemente legati alla produttività. Ma la produttività è determinata da varie componenti, fra le quali la più importante sono gli investimenti in tecnologie. Perché allora la questione dei salari avrebbe un ruolo tanto determinante?

R. In Italia abbiamo un problema di costo del lavoro e ancor più di rapporto tra costo del lavoro e produttività. Dobbiamo aumentare i salari incrementando la produttività perché incrementare i salari prescindendo dalla produttività significa creare diseconomie in termini di competitività per l’intero Paese. Noi, come dimostrato, stiamo facendo la nostra parte cogliendo le opportunità d’investimento che ci vengono offerte e sempre più potremo farlo se miglioreranno le condizioni nelle quali siamo chiamati a operare. La priorità è una politica economica per la crescita in chiave italiana ed europea.

‘Dobbiamo aumentare i salari incrementando la produttività perché incrementare i salari prescindendo dalla produttività significa creare diseconomie in termini di competitività per l’intero Paese‚

Ci auguriamo che la politica non si concentri solo sulla legge elettorale e sul voto ma resti sensibile alla necessità di definire una politica economica che metta in salvo le conquiste appena fatte e ci consenta di realizzarne di nuove.

D. Parliamo ancora di salari. In generale, in Italia i salari reali sono troppo bassi rispetto alla media europea. Ciò pone un problema non solo sociale, ma anche di domanda interna, che è notoriamente troppo contenuta, con effetti depressivi. Come si è generata questa situazione a Suo avviso? E come porvi rimedio?

R. La domanda interna va rivitalizzata partendo dall’offerta. Offerta e domanda, in questa ottica, sono due facce della stessa medaglia. La tentazione di far ripartire i consumi alimentando direttamente la domanda è molto pericolosa perché brucia risorse e non incide sulla crescita se non in modo effimero e dunque dannoso per le prospettive di un Paese. Una crescita virtuosa della domanda, in grado di far ripartire i consumi e dunque gli investimenti e l’occupazione, non può che partire dal rafforzamento delle imprese.

D. Come giudica il ruolo del sindacato nel nostro Paese? E come dovrebbe essere?

R. Abbiamo un grande rispetto per il sindacato che ha avuto un ruolo molto importante nei processi di trasformazione del lavoro e della società italiana. Oggi abbiamo però il bisogno di modificare il modello delle relazioni industriali. Le imprese, è bene ricordarlo, sono il luogo del confronto e della creazione di valore dove imprenditori e lavoratori s’impegnano spalla a spalla con l’obiettivo comune di conquistare nuovi mercati, interni ed esteri. Non è più il tempo del dissenso fine a se stesso ma della corresponsabilità perché la complessità del mondo di oggi ci insegna che si vince o si perde tutti insieme. Non possiamo avere un costo del lavoro per unità di prodotto superiore del 30 per cento rispetto alla Germania e far finta di niente.

‘Oggi abbiamo il bisogno di modificare il modello delle relazioni industriali. Non è più il tempo del dissenso fine a se stesso ma della corresponsabilità perché la complessità del mondo di oggi ci insegna che si vince o si perde tutti insieme‚

Dobbiamo affrontare questioni di merito ma prima ancora di metodo: imparare a collaborare per la competitività e mettere da parte la cultura del conflitto che per tanti anni ci ha condizionato.

D. Ritiene che la concertazione possa ancora essere un metodo efficace? E con quali caratteristiche? A quali condizioni?

R. Bisogna prima di tutto intendersi sul significato delle parole. Se concertazione significa dialogo e confronto nel tentativo di costruire percorsi comuni ben venga. Noi non ci innamoriamo delle parole ma del contenuto che hanno. E sappiamo che il metodo è un elemento importante per arrivare al merito delle questioni. L’importante è lavorare insieme nell’interesse di chi rappresentiamo e del Paese.

 

Passaggio di consegne Renzi – Gentiloni

D. A suo avviso, negli ultimi tempi si parla troppo di riforme elettorali e di data delle elezioni e troppo poco di cose veramente importanti per cittadini e imprese. Come mai? C’è forse un arretramento del governo Gentiloni rispetto al decisionismo del suo predecessore? E come giudica i fatti e i comportamenti di questo esecutivo e dell’attuale maggioranza?

R. I fatti dell’attuale governo, in continuità con quello precedente, sono da valutare positivamente. Lo abbiamo detto nel corso dell’intervista e lo ripetiamo adesso: l’impostazione di politica economica basata sui fattori si sta rivelando vincente. Ed è proprio questo, per non vanificare gli sforzi fatti e annullare i risultati raggiunti, che ci preoccupa un possibile rilassamento in chiave elettorale.

D. Confesso che il suo discorso di insediamento alla Presidenza di Confindustria mi è piaciuto molto. Particolarmente apprezzabile sembrava il “tocca a noi” e la rivendicazione che Confindustria o è politica, oppure non è. Direbbe ancora quelle parole? E come le ha praticate in questi mesi? E come conta di praticarle in futuro? E in generale, che cosa la rende più orgoglioso di questi mesi di Presidenza?

R. Stiamo lavorando su un ‘idea di economia della responsabilità che funzioni in modo trasversale e punti, come detto, a un grande progetto per l’inclusione dei giovani in una società che metta al centro la persona. Nella nostra visione tra industria e società, industria e famiglia, non c’ è dicotomia. Con pragmatismo, e senza chiedere scambi alla politica, lavoriamo per una crescita che non sia fine a sè stessa ma condizione per combattere diseguaglianze e povertà. E vorremmo contrastare una persistente cultura anti industriale che mal si accorda con quello che rappresentiamo in Europa e nel mondo.














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