Venture Capital per l’innovazione. Riuscirà l’ Italia a recuperare il gap?

di Laura Magna ♦ Con diverse misure (Pir, detrazioni fiscali) e con un Fondo governativo di sostegno al VC, il governo prova a incentivare  lo sviluppo di un mercato dell’innovazione che vede il nostro Paese fanalino di coda. Cosa ne pensano politici come Centemero, e operatori finanziari come Capello e Vadori

Forse è poco, come sostengono i critici del governo gialloverde, ma quello che è stato incluso nella Legge di Bilancio 2019 in merito al Venture capital è almeno un inizio. La finalità è dare impulso allo sviluppo di un mercato dell’innovazione che in Italia procede a rilento rispetto al resto d’Europa, per non dire di Usa e Cina. Industria Italiana ne ha parlato con Giulio Centemero, il capogruppo della Lega alla Commissione Finanze della Camera; con Luigi Capello, amministratore delegato e fondatore di LVenture, una holding di partecipazioni quotata in Borsa Italiana che opera a livello internazionale nel settore del Venture Capital; e con Daniele Vadori, responsabile investimenti azionari di Finint Investments SGR, uno dei maggiori operatori nella gestione di fondi alternativi in Italia.

Finanziaria: le misure per dare vita a un ecosistema dell’innovazione

Prima di sentire cosa ne pensano gli esperti, un breve excursus riguardo alle nuove misure può essere utile o orientarsi nel perimetro di questo argomento. Parliamo di misure diverse, da quella che impone ai Pir di investire il 3,5% del paniere in fondi di Vc; all’aumento al 40% dal 30% precedente, della detrazione per chi, persona fisica o giuridica, investe in startup – previsione estesa anche alle pmi innovative dopo la recente autorizzazione della Commissione europea. Ancora, parliamo della detrazione del 50% per le corporate che acquistano una startup o una pmi innovativa che detengono per almeno un triennio.







Fino al più importante dei quattro pilastri su cui si basa la strategia dell’innovazione di questa Finanziaria, ovvero la creazione Fondo governativo di sostegno al venture capital in capo al ministero dello sviluppo economico con una dotazione di 30 milioni di euro per gli anni 2019, 2020 e 2021 e di 5 milioni di euro per gli anni successivi fino al 2025. Ma non basta. Il sistema dovrà essere alimentato dal 15% dei dividendi delle partecipazioni statali, che dovrà essere reinvestito in Vc. E questo in attesa che il Mise autorizzi la cessione di Invitalia Ventures a Cassa Depositi e Prestiti, che nel piano industriale 2019-2012 prevede interventi massici nel Venture Capital.

Obiettivamente, se si sommano i possibili effetti di tutte queste novità, il potenziale per il Vc appare tutt’altro che poca cosa. A maggior ragione perché tutta questa spinta arriva alla fine di un anno in cui gli investimenti in startup in Italia hanno avuto un primo importante salto di qualità: toccando, secondo le ultime stime del Polimi, il valore di 598 milioni di euro a fine 2018, più del doppio dell’anno prima e ben oltre i 100-130 milioni in cui si è mosso nei sei anni precedenti.

 

Il Ministro del lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio (foto di Mattia Luigi Nappi)

La ratio del maxi-emendamento: creare massa critica che faccia da volano al sistema economico nazionale

«L’obiettivo delle misure contenute nel maxi emendamento, è quello di creare la massa critica per consentire al mercato di decollare. È una ricetta che altrove nel mondo, per esempio in Israele, uno dei maggiori ecosistemi di startup al mondo, funziona», sostiene Giulio Centemero, il deputato della Lega che è fautore degli emendamenti che contengono le maggiori novità fin qui descritte. «Tra le misure inserite c’è anche un tema di semplificazione amministrativa – argomento quanto mai caro al Governo e necessario per il rilancio delle imprese. –  Per esempio abbiamo ridotto da due a una le comunicazioni che le startup devono fare ogni anno alla Camera di Commercio. Dopo di che, innovazione non significa solo incentivi e semplificazione, ma anche stanziamenti. Per questo una parte dei dividendi delle partecipate del Mef andranno ad alimentare il VC (venture capital). L’obiettivo prefissato è quello di portare il VC italiano ad avvicinarsi ai numeri dei maggiori mercati al mondo.»

«Il nostro Vc è stato sempre per lo più informale e micro, e nonostante questo, a fronte anche di esigui investimenti fatti, si è arrivati alla realizzazione di brevetti in grado di competere sul terreno internazionale. Questo rappresenta un enorme potenziale che va capitalizzato e che speriamo, con le nuove norme, possa essere sfruttato a pieno. Dobbiamo uscire da questa impasse: l’investimento procapite all’anno sul VC è di 368 dollari in Israele; 250 in Usa 136 in Svezia, 40 in Francia e 2 in Italia». Potenziare incentivi e finanziamenti è solo l’inizio di questo percorso e la soluzione ad una parte del problema. «C’è molto altro da fare. Anzitutto dobbiamo creare sia una cultura imprenditoriale che del risparmio. Su questo ultimo aspetto, infatti, il Miur ha introdotto dei programmi sperimentali sull’educazione finanziaria, elemento necessario da cui bisogna partire. E’ fondamentale rendere facile la creazione delle imprese, attraverso la riduzione dei vincoli amministrativi, delle lungaggini della burocrazia e della giustizia, anche per attrarre investimenti dall’estero e poter sostenere la crescita. La sfida è unire tutte le fasi della filiera del Vc dal pre-seed all’exit. Siamo appena partiti e la strada è molto lunga» conclude Centemero.

 

Luigi Capello, amministratore delegato e fondatore di LVenture Group

Ora l’Italia potrà colmare il gap con Francia e Spagna: parola di Venture Capital

Ma cosa ne pensano i diretti interessati, ovvero i venture capitalist? Risponde Luigi Capello, amministratore delegato e fondatore di LVenture Group, holding di partecipazioni quotata in Borsa Italiana che opera a livello internazionale nel settore: «L’innovazione è fondamentale per le aziende. E l’innovazione avviene per lo più attraverso le startup, che sono finanziate dal VC, un capitale etico necessario per garantire lo sviluppo del Paese», dice Capello, secondo cui le diverse norme contenute in Finanziaria a sostegno del mercato sono interessanti ma necessitano a loro volta di tempo per trasmettere i propri effetti all’economia reale. «Le tempistiche sono però lunghe: innanzitutto perché ci sono i 90 giorni per l’emanazione dei Decreti attuativi e poi l’effetto sui capitali, per potersi dispiegare, ha bisogno di tempi ancora più dilatati: a voler essere ottimisti, qualcosa si vedrà per l’estate. Le misure sono sufficienti se diventano operative e non restano sulla carta. L’Italia era l’unico Paese europeo che non aveva un fondo pubblico del VC e questo dovrebbe colmare il gap con la Francia ma anche con Portogallo, Spagna e Grecia», dice Capello che si sbilancia anche in qualche previsione.

«Nel 2018 il mercato francese del VC valeva circa 4 miliardi e la Spagna intorno al miliardo. L’Italia che ha chiuso l’anno intorno al mezzo miliardo potrebbe quadruplicare e portarsi nel 2020 a 2 miliardi». Anche per effetto, aggiunge Capello, della «pressione che a livello istituzionale si sta facendo sui Fondi pensione affinché entrino prepotentemente in un settore in cui, unico caso al mondo l’Italia, sono stati finora i grandi assenti. Tutto questo potrebbe portare davvero l’Italia alla riscossa nel VC entro un anno»

 

Daniele Vadori, responsabile investimenti azionari di Finint Investments SGR

Mancano Sgr specializzate in fondi di Vc, senza le quali è difficile una vera evoluzione

Se questo è ciò che potrebbe avvenire grazie a ciò che è stato fatto, quello che manca lo descrive, nello specifico, Daniele Vadori, responsabile investimenti azionari di Finint Investments SGR, uno dei maggiori operatori nella gestione di fondi alternativi in Italia e. E quello che manca riguarda il prodotto finale dell’investimento. «L’idea della norma è buona: se i regolamenti attuativi saranno fatti bene può essere che si veda qualche attività in più verso metà anno. Nel campo del Vc sono entrate anche Intesa, o corporate come Enel e Microsoft ma stanno facendo solo attività di relationship per poter mettere gli startupper in condizione di incontrare una platea di investitori, non investono direttamente. Il problema è insieme ai molti incentivi per chi finanzia le startup, si dovrebbe di pari passo sviluppare il Vc come asset class di investimento. Questa è la quadratura del cerchio dell’ecosistema. Invece una previsione specifica per i prodotti di risparmio gestito che puntino sul Vc è del tutto assente», dice Vadori.

E dunque, secondo il gestore, pur avendo il regolatore agito sul tema degli incubatori con l’aspettativa di poter dare un po’ di respiro sulla generazione di prodotti per istituzionali, «questo non è ancora avvenuto, innanzitutto perché non ci sono Sgr specializzate in VC. D’altronde una raccolta complessiva di 600 milioni di euro nel 2018, con una media per deal di 60mila euro è un numero troppo piccolo per giustificare la specializzazione di un ufficio di ricerca dentro le Sgr». E c’è una seconda motivazione al malfunzionamento del mercato, che attiene, secondo Vadori alla natura dei fondi. «Un fondo che investe in fondi di Vc è un fondo chiuso e risulterebbe complesso vendere a una clientela di tipo istituzionale un prodotto del genere con tagli così piccoli. Inoltre, per quanto riguarda l’equity crowdfunding aperto ai portali, è stata fatta una deroga alla Mifid in merito alla profilazione di rischio dell’investitore. Questo vuol dire che un investitore retail che compra su un portale è in deroga ai requisiti di professionalità che vengono richiesti a un istituzionale. Le Sgr invece dovrebbero fare invece la profilatura, risultando svantaggiate: la normativa vuole in qualche modo agevolare il retail verso questi prodotti, che non riteniamo invece siano tagliati per gli istituzionali».

Insomma, per tirate le fila del discorso, conclude Vadori: «Gli unici operatori che hanno avuto uno sviluppo consistente in termini di raccolta sono gli incubatori, di natura regionale o privati. Tutto questi operatori tuttavia fanno early stage, ma quando l’azienda cresce la fase di scale up viene sempre portata altrove. A quel punto sono necessarie infrastrutture che accompagnino la crescita e spesso le startup guardano all’estero perché noi non abbiamo nulla in grado di farlo. Fino a quando il mercato non si svilupperà e non ci saranno regole precise per gli investimenti in fondi comuni vedo difficile una reale evoluzione».














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