Tutto quello che forse non vi hanno detto sulla “ripresa” in atto…..

I numeri 2017 e 2018 sembrano buoni. Ma ci sono molte fragilità, e tanti dubbi. Legati ai vari pacchetti Calenda, al reale effetto degli incentivi, al fatto che la produttività - nonostante il 4.0 e tutto il resto - comunque non cresce. Oltre alle tecnologie, poi, ci vogliono le innovazioni strategiche. E le competenze, che in Italia mancano drammaticamente Inoltre prima o poi l'Automobile, da cui dipende molta parte della ripresa, si fermerà. La disoccupazione rimane comunque alta. E non si vede una vera politica industriale come quella fatta da Usa, Germania e altri Stati sviluppati e industrializzati, con investimenti importanti del pubblico nella ricerca e sviluppo e scelte chiare.

I numeri 2017 e 2018 sembrano buoni. Ma ci sono molte fragilità, e tanti dubbi. Legati ai vari pacchetti Calenda, al reale effetto degli incentivi, al fatto che la produttività – nonostante il 4.0 e tutto il resto – comunque non cresce. Oltre alle tecnologie, poi, ci vogliono le innovazioni strategiche. E le competenze, che in Italia mancano drammaticamente Inoltre prima o poi l’Automobile, da cui dipende molta parte della ripresa, si fermerà. La disoccupazione rimane comunque alta. E non si vede una vera politica industriale come quella fatta da Usa, Germania e altri Stati sviluppati e industrializzati, con investimenti importanti del pubblico nella ricerca e sviluppo e scelte chiare.

Nella prima analisi di Radar abbiamo elencato in modo sintetico i buoni numeri dell’economia e della manifattura del 2017, con ulteriori prospettive positive per il 2018. Tutto va bene, Madama la Marchesa? Forse no. Anche perché dietro i numeri c’è un paese con molte fragilità. Ecco alcune informazioni e considerazioni utili.







I numeri della ripresa industriale e le cause

Partiamo dai numeri, che poi commenteremo. Su una cosa non esistono dubbi: il 2017 che si è appena chiuso ha visto le migliori performance economiche della storia recente, anche se siamo ancora ben lontani dal recupero dei livelli pre-crisi. Il pil è cresciuto dell’1,5% ( e per il 2018 l’Istat stima un analogo incremento) mentre la disoccupazione si è ridotta dall‘11,8% all’11,1%. Nei primi 10 mesi del 2017, inoltre, la produzione industriale è aumentata del 2,9% rispetto all’anno precedente. Spettacolari le performance dell’export, che nei primi 10 mesi del 2017 è cresciuto del 7%. Per il quadrienno 2017-2020, la Sace prevede un tasso di crescita medio annuo del 4%. Resta al palo solo la produttività del lavoro, che è ferma (unico caso tra i Paesi sviluppati) ai livelli del 2000, dai quali non si è mai spostata, nemmeno negli anni di crisi. Fatto 100 il valore della produttività del lavoro nel 2000, l‘Ocse stima che in Italia nel 2016 si sia attestato a 100,8, mentre in tutta la Ue è salito a 106,1. In Germania si è posizionato a 106,1 e in Francia a 105,1. Un grave problema, per noi.

 

Carlo Calenda, Ministro dello Sviluppo Economico

 

Produttività a parte, parliamo in ogni caso di numeri buoni. Secondo alcuni, questi incrementi sono soprattutto merito del piano Industria 4.0 di Carlo Calenda. Un provvedimento azzeccato, certo. Ma che a nostro avviso non basta a spiegare tutto, e forse nemmeno la maggior parte. Il merito è anche del quantitative easing di Mario Draghi. E, soprattutto della rinnovata fiducia di imprenditori e consumatori, che dipende dal vento favorevole che è tornato a soffiare in tutto il mondo. L’economia globale, in altre parole, sta tornando a tirare e ne beneficiamo pure noi. Le attese sul pil mondiale per il 2018, infatti, sono di un incremento del 3,5%, analogo a quello dell’anno precedente.

Il ruolo più importante in questa ripresa lo ricopre la manifattura italiana che – nonostante i volumi ridotti rispetto agli anni d’oro e qualche acciacco – resta comunque il settore trainante, capace di fare esportazioni di qualità, cavalcando il vento della ripresa mondiale. Tra i manifatturieri, sono forti soprattutto le imprese di media dimensione, perlopiù non quotate e a carattere famigliare. Quelle grandi, infatti, sono ormai pochissime. E molte piccole aziende sono assai problematiche e poco competitive.

Il dato più evidente è quello dei ricavi industriali, che nei primi 10 mesi del 2017 sono cresciuti di ben 36 miliardi, quasi 100 milioni al giorno. Secondo l’Istat, il valore prodotto dalle nostre industrie dovrebbe attestarsi nel 2017 a 872 miliardi, cioé 72 miliardi in più rispetto agli 800 del 2013. Crescono soprattutto due settori: macchinari e impiantistica; automobili e componentistica auto. Nel 2017 il fatturato generale del settore macchinari e impiantistica dovrebbe attestarsi a quasi 46 miliardi di euro, in crescita dell’8,2% rispetto all’anno precedente. In questo ambito, macchine utensili e robot made in Italy sono cresciute nel 2017 del 10,1% attestandosi a circa 6,1 miliardi di valore. Per il 2018 Ucimu prevede una ulteriore crescita del 6,2%.

 

Nel 2017 il fatturato generale del settore macchinari e impiantistica dovrebbe attestarsi a quasi 46 miliardi di euro, in crescita dell’8,2%

 

E poi c’è il settore auto e componentistica, che dovrebbe passare da 36,9 miliardi del 2016 a circa 39-40 del 2017. I dati esatti ancora non si conoscono, ma si può fare una stima sulla base dei primi 10 mesi del 2017, che hanno visto una crescita del 7,4%. Da qualche anno il settore auto è in forte crescita, sia nel nostro Paese e sia nel mondo. In Italia sono state prodotte 633 mila autovetture, il 6% in più del 2016. Le immatricolazioni sono invece aumentate del 7,92%, passando da 386 mila a 402 mila. Da notare che il settore automotive è composto per il 50% da produzione, ovvero Fca con Fiat e altri marchi, e per l’altro 50% da componentistica, un settore in cui la manifattura italiana esprime da tempo eccellenze di grande valore, che esportano in tutto il mondo e sono alla base del successo di case automobilistiche tedesche e americane.

Ultimo ma non meno importante, il dato sugli investimenti fissi lordi in tutto il settore. Investimenti che nel solo 2017 sono cresciuti di ben 80 miliardi. In particolare, c’è stato un incremento dell‘11,6% per i macchinari e del 10,7% per le apparecchiature. Mentre per il 2018 il Ministero dello Sviluppo Economico si aspetta altri 90 miliardi in più. Si tratta di una grande notizia, se pensiamo che per tantissimi anni gli imprenditori italiani nel loro complesso (a parte alcune eroiche eccezioni che si perdono nella media) non hanno avuto la forza, o il coraggio, o il senso di responsabilità di investire.

 

palazzo confindustria
Sede di Confindustria, Viale dell’ Astronomia, Roma.Secondo il Centro Studi di Confindustria riusciremo a tornare alla situazione del 2010 (pre-crisi) soltanto nel 2021

Attenti a non esultare troppo!

Dunque, non c’è alcun dubbio sulla ripresa. Ma attenti a non esultare troppo. Siamo ancora ben lontani dal recuperare i livelli pre-crisi, che invece le altre economie occidentali importanti (perfino la Spagna) hanno già abbondantemente riguadagnato, e superato.

Ci vorranno ancora molti anni per recuperare… Secondo il Centro Studi di Confindustria riusciremo a tornare alla situazione del 2010 (pre-crisi) soltanto nel 2021. Certo, come si è scritto, secondo l’Istat, il valore prodotto dalle nostre industrie dovrebbe attestarsi nel 2017 a 872 miliardi, cioé 72 miliardi in più rispetto agli 800 del 2013. Ma mancano ancora 61 miliardi e tanta buona volontà per tornare ai livelli del 2010. Per quanto riguarda la disoccupazione, l’11,1% del 2017 è meglio dell‘11,8 del 2016 e del 13% del 2014. Ma nel 2010 eravamo al 6,5%. Per quanto riguarda la produttività del lavoro, come si è detto è sempre rimasta immobile e non si vedono spiragli. E non è una buona notizia.

I veri effetti si devono ancora vedere. Tutti questi nuovi investimenti in macchinari e attrezzature, interconnesse oppure no, fanno pensare a maggiori fatturati, a più volumi di produzione, a maggiore redditività. Del resto, se uno compra una macchina nuova per la sua azienda, investe per produrre di più e a costi migliori. Ma tutto ciò ancora non c’è. In parte perché gli ordinativi sono appena stati fatti, e ci vuole ancora altro tempo per metterli all’opera. E in parte perché, come ha documentato Bankitalia in un recente studio, fino al 2017 compreso è stata fatta solo attività di sostituzione, di aggiornamento di vecchi impianti, senza una reale incidenza sulla capacità produttiva. I primi impianti davvero nuovi saranno significativi solo dal 2018 in poi, e soprattutto nel 2019. Da allora in poi, si potrà pensare a un ampliamento della capacità produttiva. Del resto, la quarta rivoluzione industriale richiede anni per entrare a regime.

Gli investimenti, da soli, servono a poco. Va comunque tenuto presente che non basta acquistare macchinari e software. Occorre saperli far funzionare, saper estrarre reale valore economico. Ci vogliono nuove strategie, nuovi approcci, nuove idee. Occorrono nuovi modelli non solo a livello tecnologico (che è la base) ma soprattutto a livello imprenditoriale. E ci vogliono nuove competenze da parte della manodopera, dei tecnici, dei dirigenti. Competenze che in Italia mancano drammaticamente. I prossimi anni dovranno essere dedicati alla formazione e al reclutamento. Ci vorrà uno sforzo importante di imprese, università, governi. Altrimenti, rischiamo di licenziare operai italiani per poi assumere tecnici e ingegneri fatti venire dall’India e dalla Cina perché qui da noi non ci sono. Oppure, semplicemente, rischiamo di restare al palo.

 

Lef Pordenone
Lean Experience Factory a Pordenone: il problema delle nuove competenze è centrale per lo sviluppo

 

Senza innovazioni scientifiche o gestione del cambiamento, non si va da nessuna parte. Luca Beltrametti, nell’edizione di Novembre degli Scenari Industriali del Centro Studi di Confindustria, scrive a questo proposito una riflessione che va segnalata. «Mai, o quasi mai, le nuove tecnologie digitali sono utilizzate per fare la stessa cosa e nello stesso modo semplicemente usando una macchina diversa. Vi sarà dunque necessità non solo di persone con competenze specifiche su ciascuna tecnologia ma anche (e forse soprattutto) di persone capaci di gestire il cambiamento e di apprendere nuove competenze. Si tratta di persone alle quali è richiesto di capire fino in fondo che i processi produttivi, i modelli organizzativi, i modelli di business oggi adottati sono il risultato di processi di ottimizzazione del passato che tenevano conto di obiettivi e di vincoli tecnologici ormai superati. Le nuove tecnologie abilitano il perseguimento di obiettivi diversi e più numerosi e rimuovono molti vincoli del passato. Ci sarà dunque bisogno non solo di tecnologi ma anche di persone capaci di immaginare in modo creativo qualcosa che vada oltre il solito “abbiamo sempre fatto così” nei diversi campi della vita delle imprese».

Il 4.0 ancora non c’è e comunque non si vedono effetti sulla produttività. Il 4.0 ancora non c’è, tranne, forse, rari casi di pionieri. In ordine di tempo è la quarta rivoluzione industriale, ma comunque è la prima ad essere annunciata prima ancora che avvenga. Quando ci fu la prima rivoluzione industriale, gli imprenditori che compravano macchine a vapore non sapevano di stare facendo una rivoluzione industriale. Che di ciò si trattasse lo decisero gli storici, molti decenni dopo.

Nel caso del 4.0, la rivoluzione è annunciata prima che avvenga, e ancora non sappiamo bene quello che succederà. Siamo però sicuri di una cosa, e non è una bella notizia: l’ondata di innovazioni tecnologiche recenti non ha avuto, per ora, alcun effetto sulla produttività italiana, che per ora resta al palo. Forse perché non abbiamo l’istruzione sufficiente per farle funzionare bene (pochi laureati e poco pagati, fuga dei cervelli, istruzione tecnica e ingegneri in numero bassissimo) e questo è un vero e proprio dramma. Così come l’elevata disoccupazione, e la produttività del lavoro che non cresce.

Macchine utensili e robot sono cifre piccole (0,3% pil). Grande rilievo mediatico è stato dato, anche da parte nostra, alla crescita di macchine utensili e robot nel 2017, per merito soprattutto del Piano Calenda. Tutto giusto, tutto bello, per carità. Ma si tenga presente che l’intero comparto vale 6 miliardi di euro, lo 0,3% del pil. Certo, ha un effetto moltiplicatore. Ma si tratta comunque di cifre piccole.

 

Comau_FCA-Melfi
Robot Comau nello stabilimento FCA a Melfi

 

Prima o poi l’auto si sgonfierà... La nostra ripresa è fortemente legata al settore automobilistico, che sta andando a gonfie vele da anni, in Italia come nel resto del mondo. Ma fin dal diciannovesimo secolo, cioé da quando esiste, l’automotive ha un andamento ciclico. Ci sono anni di generale sostituzione/acquisto di auto nuove, a cui seguono anni di fermo mercato, durante i quali la gente usa le vetture che ha appena comprato e non sente il bisogno di acquistarne di nuove. Certo, il parco auto italiano è ancora vecchio. L’automotive probabilmente tirerà nel 2018, e forse anche nel 2019. Ma poi, inevitabilmente, arriverà lo stop. E che si farà?

Manca un vera politica industriale. In questo quadro, ci sarebbe tanto bisogno di una politica industriale. Che in Italia proprio non c’è e quasi nessuno sembra invocare. Il piano Calenda, con tutti i suoi meriti, non è politica industriale. E’ un piano fiscale, senza alcun sostanziale investimento degli Stati. La politica industriale invece, quella vera, sposta le cose, fa delle scelte, investe. Senza per questo mai cadere in dirigismo e assistenzialismo. E punta soprattutto su ricerca e sviluppo in ambito pubblico, grazie ai “capitali pazienti” dello Stato. Lo fanno tedeschi, francesi e americani. E sarebbe anche ora che ci pensassero gli italiani, che fra i Paesi sviluppati e industriali hanno i più bassi investimenti in Ricerca e Sviluppo.














Articolo precedenteDavos e ABB: al forum WEF si viaggia elettrico
Articolo successivoPatto Ibm-Mediobanca per la digital transformation






1 commento

  1. […] Manca una politica industriale…
    Egr. direttore, l’interessante articolo evidenzia la drammatica mancanza di un progetto politico innovativo e completo da realizzare nei tempi dovuti ma da iniziarsi subito.
    Io sono un marketing manager in pensione. Nel 2011 feci stampare le mie riflessioni su un ipotetico progetto politico basato sulla riorganizzazione generale dello Stato. Se mi si perdona l’accostamento, le idee sono complementari alle idee di Adriano Olivetti e hanno ricevuto(anche) diversi lusinghieri apprezzamenti anche da parte di personaggi di primissimo piano nel campo politico e universitario i quali però… non possono abbracciarle pubblicamente. Vogliamo parlarne? Cordiali saluti.
    Gerardo Morelli Argelato (Bologna)

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui