Monza dimostra come il manifatturiero crea ricchezza

Il Duomo di Monza

Per capire come il manifatturiero possa generare valore economico imbattibile bisogna andare a Monza e Brianza. Questo territorio viene raccontato nel libro “Industriamo l’Italia!” di Filippo Astone, da due giorni in libreria

Il modello brianzolo. Il modello brianzolo è fatto di famiglia, comunità territoriale, casa, macchine e sapere diffuso. Il 90% delle aziende sono famigliari, moltissime da generazioni. Appena tre aziende sono quotate in borsa. Le famiglie imprenditoriali, alcune delle quali esistono da centinaia di anni, hanno sempre investito nelle aziende di pertinenza, garantendone la sopravvivenza nel tempo e lo sviluppo. Nel territorio ci sono quattro distretti importanti (in primis la meccanica e la chimica, poi l’elettronica e il mobile) che sono come una grande fabbrica diffusa, che scambia competenze, forniture, macchinari, collaboratori.







La propensione all’export è elevatissima, e il principale cliente è la Germania.

Una caratteristica forse unica di Monza e Brianza è che la delocalizzazione è minima. L’unico caso rilevante è quello della Candy, storica azienda di elettrodomestici della famiglia Fumagalli che per sopravvivere e rimanere competitiva non ha potuto fare altro che andare a produrre in Paesi con basso costo del lavoro, pur mantenendo la testa qui. La scelta si è rivelata premiante, perché l’azienda non solo è sopravvissuta, ma va benino. La Indesit dei Merloni – che aveva fatto scelte in parte diverse – è stata invece venduta alla multinazionale Whirpool. A differenza di aree imprenditoriali italiane (ad esempio Treviso e altre zone del Veneto, che hanno praticamente colonizzato intere regioni della Romania), in Brianza le fabbriche restano ancorate al territorio, anche perché tendono a produrre oggetti a elevato valore aggiunto e ridotte dimensioni: non c’è bisogno di andare in Cina o in Romania per farli. E solo in Brianza è presente quella catena di fornitori e clienti, e quel “saper fare” tramandato da generazioni. Senza l’uno e l’altro, molti prodotti della meccanica, della chimica e dell’elettronica non sarebbero, semplicemente, possibili.

Officine Egidio Brugola Lissone, Milano
Officine Egidio Brugola, Lissone, Milano

Un caso unico di manifattura e ricchezza

Monza e Brianza è la sesta area industriale d’Europa e, grazie a questo, anche una delle più ricche. In quell’area, una parte importante del tessuto industriale non ha solo resistito alla crisi, ma si è addirittura irrobustito in termini di ricavi e di redditività. A Monza e Brianza il manifatturiero genera direttamente il 27,4% del Pil, contro il 15% al livello italiano, il 25% della Germania e il 20% auspicato dall’Unione europea per tutta l’eurozona. Certo, ci sono province italiane in cui questa percentuale è ancora più elevata (Vicenza col 33,1% e Bergamo col 27,9%) o si avvicina a quella brianzola (Brescia col 25,6%), ma Monza e Brianza ha anche altri primati che, messi insieme, ne fanno un caso unico in Italia. Come quello del massimo valore aggiunto per dipendente (la media è di 75mila euro, record italiano, superiore a Brescia, Varese e Bergamo, dove la media è di circa 60mila euro) e il fatto di avere, come si è già detto, un forte nucleo di imprese che con la crisi va addirittura meglio di prima. Ne parleremo fra poche righe e sono le cosiddette imprese “resilienti” alla crisi. Queste aziende, che nel 2007 generavano il 21,6% del fatturato totale della provincia, nel 2014 hanno dato, da sole, un contributo pari a circa 800 milioni di euro di fatturato aggiuntivo.

In Brianza, dal 2011 al 2014 gli occupati del settore manifatturiero sono cresciuti dell’8,1%, corrispondenti a 14mila posti di lavoro in più. In Italia, invece, nello stesso periodo l’occupazione manifatturiera è calata dell’1%, lasciando a casa circa 319mila persone.

In valore assoluto, Monza e Brianza, con 7,4 miliardi di euro, è la sesta provincia europea per valore aggiunto manifatturiero, dietro, nell’ordine, Brescia (10,1 miliardi), Bergamo (9,7 miliardi), la tedesca Wolsburg (8,6 miliardi), Vicenza (8,6), Boblingen (7,6 miliardi).

La capacità di resistere alla crisi, o addirittura di batterla, si spiega anche con il forte incremento dell’export che negli anni recenti si è verificato sul territorio brianzolo, passando dai 7,12 miliardi del 2010 agli 8,59 del 2014. In Brianza, l’export manifatturiero pro-capite è in media di 9888 euro, contro i 6253 euro al livello italiano. Circa il 70% di quell’export va in Europa: Germania, Francia e Svizzera sono, nell’ordine, i principali mercati di sbocco.

Per capire il contesto, va detto che a Monza ci sono nomi storici come Brugola (inventori delle omonime viti, ora specializzati in componenti per l’automotive esportati in tutto il mondo, 121 milioni di euro di giro d’affari), Candy (elettrodomestici, 850 milioni di euro), Rovagnati (salumi, 270 milioni), Sol (chimica, 600 milioni di euro, la sede legale è a Milano, ma le radici e il grosso della produzione sono in Brianza), Sapio (chimica, 450 milioni di euro), Gruppo Fontana (meccanica, 409 milioni), Parà (marchio famoso nelle tende e nei tessuti per barche, circa 500 milioni di euro di giro d’affari, la sede legale è a Bergamo, ma il cuore è lì). Inoltre, ci sono le sedi e gli stabilimenti italiani di importanti gruppi multinazionali della meccanica e dell’elettronica e della chimica, come Stm (1,3 miliardi di fatturato in Italia), Phillips (550 milioni), Basf (515 milioni), Arcelor (200), Cisco (323), Basf (515), Schindler (185).(11) L’azienda più grande è la quotata Esprinet (1,5 miliardi di giro d’affari) che rivende materiale informatico ed elettronico in campo b2b. Sempre nella distribuzione, in Brianza ha anche sede Decathlon, che genera ricavi per 962 milioni. Oltre a questi brand noti da decenni, in Brianza ci sono imprese meccaniche eccellenti ma sconosciute al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori, come la Bruno Presezzi, gioiellino della metalmeccanica (circa 60 milioni di euro di giro d’affari) che recentemente ha conosciuto l’onore delle cronache per aver comprato, salvandolo dalla chiusura, un marchio storico come la Franco Tosi di Legnano.

Andrea Dell'Orto
Andrea Dell’Orto, vicepresidente di Assolombarda con delega sul manifatturiero e presidente del presidio di Monza di Assolombarda

Parla Andrea Dell’Orto

«La manifattura è il pilastro alla base della crescita dell’Italia e della Brianza. Mantenere una forte e competitiva base manifatturiera è essenziale, ce lo dice la teoria economica e ce lo dicono i fatti», ha detto Andrea Dell’Orto, leader degli imprenditori della zona durante l’assemblea 2015 della sua associazione. E qui ci vuole una breve parentesi per spiegare chi è il nostro interlocutore. Fino all’autunno 2015, Dell’Orto era presidente di Confindustria Monza e Brianza e ora, dopo la fusione con Assolombarda, è presidente del presidio territoriale in Brianza nonché vicepresidente di Assolombarda con delega sul manifatturiero e le medie aziende, numero uno di una storica azienda meccanica della Brianza, la Dell’Orto, specializzata in sistemi di iniezione elettronica, che vende ai grandi marchi del motociclismo e dell’automobilismo europeo. Chiusa la parentesi, diciamo che Dell’Orto è convinto che per mantenere e far crescere la base industriale territoriale, siano indispensabili politiche industriali al livello locale. Lo vedremo meglio fra due paragrafi.

Le imprese che durante la crisi sono andate ancora meglio. Come si è accennato in precedenza, un fenomeno rilevante in Brianza è quello delle imprese resilienti alla crisi. Le ha chiamate così uno studio di Ambrosetti – The European House, che ha individuato un campione di aziende che, durante gli anni più bui della storia economica contemporanea, sono andate addirittura meglio di prima. Le imprese resilienti hanno un valore del fatturato e dell’Ebitda 2013 superiore sia a quello del 2008, sia a quello del 2011. Come dovrebbe essere noto, il 2008 e il 2011 sono i due momenti di inizio della crisi. L’avere una redditività al lordo delle tasse e degli ammortamenti (Ebitda) superiore a quella degli anni della crisi, testimonia la competitività dell’impresa. Spesso, infatti, il mantenimento o l’incremento di fatturato rispetto ai livelli passati, è raggiunto a discapito della marginalità, ad esempio attraverso forti sconti o promozioni su prodotti e servizi. Se invece la redditività aumenta, ciò vuol dire che l’impresa è riuscita, e alla grande, a far riconoscere dal mercato il proprio valore aggiunto. Lo studio ha esaminato un campione di 1450 imprese brianzole: ebbene, oltre il 20% di queste (per la precisione il 20,3%) sono resilienti alla crisi. Se guardiamo alla dimensione, l’incidenza delle imprese resilienti alla crisi sul totale del campione è ancora più importante: rappresentano il 27,9% del fatturato totale del campione e il 24,8% dei dipendenti.

La sede di Esprinet
La sede di Esprinet

Imprese resilienti

Il 20,3% di imprese resilienti alla crisi è un dato elevatissimo rispetto a quelli ottenuti in analisi effettuate in altri contesti italiani, dove il risultato varia dal 5 al 10-15%.

Il grosso di queste miracolose imprese appartiene al settore della meccanica in senso allargato, che è ormai da tempo il primo settore della Brianza, seguito dalla chimica e, solo al terzo posto, dall’industria del mobile. Insomma, il luogo comune della Brianza dei mobilieri ormai non ha più senso. Oggi c’è la Brianza della meccanica che fa guadagnare e conquista clienti in tutto il mondo. E così, tra i settori delle imprese resilienti troviamo: fabbricazione macchinari e apparecchiature con il 12,3%; fabbricazione computer, elettronica e ottica con il 12,2%; fabbricazione prodotti in metallo (esclusi i macchinari) col 10,3%; metallurgia con il 5,6%; fabbricazione apparecchiature elettriche col 5,8%.

Un’idea di politica industriale

A Monza il sindaco è Roberto Scanagatti, anche presidente dell’Anci Lombardia (l’associazione dei comuni). Scan10agatti è uno dei pochi politici italiani consapevoli della necessità di una politica industriale per mantenere, e magari anche rafforzare, i primati raggiunti. Tale politica dovrebbe essere, come si sostiene in questo libro, anche territoriale. Forse soprattutto territoriale. Quella della politica industriale, per Dell’Orto è «una sfida a cui l’Italia, come sistema-paese, è chiamata a rispondere. La crisi del 2008, l’avvento di internet e della rivoluzione digitale, il ribilanciamento degli equilibri economici globali spostati sempre più a est, hanno segnato una sorta di “anno zero”», dice Dell’Orto, che prosegue: «La volatilità, l’incertezza e la complessità dello scenario con cui ci confrontiamo – il “new normal”, come lo chiamano alcuni – richiede strategie nuove da parte delle imprese, ma anche nuove risposte da parte delle politiche pubbliche. Dopo la deregulation degli anni Settanta-Ottanta e il libero mercato degli anni Novanta, la politica industriale è oggi al centro dell’agenda dei governi nel mondo come strumento per reagire alla crisi economica e rilanciare il tessuto produttivo. Tra i grandi paesi industrializzati, l’Italia non ha definito una strategia organica in grado di difendere i vantaggi competitivi del proprio sistema industriale. Occorre che il nostro Paese ritorni a fare politica industriale. È urgente che l’Italia agisca velocemente perché i nostri concorrenti internazionali – come la Germania, la Francia e il Regno Unito – fanno politica industriale a sostegno delle loro imprese».

Roberto Scanagatti
Roberto Scanagatti

L’integrità delle filiere industriali

Per Dell’Orto, occorre anche preservare l’integrità delle filiere industriali, con un potenziamento delle filiere dei beni intermedi/accessori (materiali, semilavorati, componenti) e integrare sempre di più industria e servizi – il cosiddetto modello “manu-service” – perché oggi la creazione di valore si ha sempre di più nelle attività a monte (R&S e Progettazione) e a valle della produzione (marketing e servizi pre/ after-sale). «È necessario sostenere la leadership delle nostre produzioni nell’alto di gamma, ma aiutare le nostre imprese a raggiungere anche la classe media emergente nel mondo perché è questa domanda, che già oggi supera i 20 trilioni di dollari e arriverà nel 2030 a 60 trilioni, che trainerà i fatturati nel futuro. Occorre infine aiutare – con interventi integrati sulle politiche della ricerca, della formazione e dello sviluppo industriale – a portare le tecnologie di frontiera all’interno dei settori tradizionali dell’industria, creando processi virtuosi di “ibridazione”. Penso al ruolo abilitante che già giocano – e che giocheranno sempre di più in futuro – le nuove tecnologie come il Biotech, il Nanotech, i nuovi materiali, l’Ict.» Inoltre, la politica industriale deve essere collegata a una più ampia visione per lo sviluppo del Paese e in questa, dei territori ad alta vocazione manifatturiera come la Brianza.

«Occorre dare alle nostre imprese e ai nostri imprenditori risposte concrete a tre domande fondamentali: Perché un’impresa dovrebbe insediarsi qui? Perché un’impresa già presente sul territorio dovrebbe decidere di rimanervi? Perché un talento, un lavoratore dovrebbero decidere di lavorare qui?» Da qui nasce la proposta di fare una politica industriale sui Cluster.

Su questo punto, Dell’Orto si scalda: «La crescente integrazione tra manifattura e tecnologia rende necessario creare sinergie forti tra imprese manifatturiere e aziende all’avanguardia nel campo dell’High-tech e delle tecnologie digitali e istituzioni di ricerca».


industriamo-litalia-copertinaTesto tratto dal libro Industriamo l’Italia!
Viaggio nell’economia reale che cambia,
di Filippo Astone (Magenes Editore), da poco in libreria














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