Stagnazione! La nave Italia resta ferma all’ormeggio! E chissà per quanto….

di Laura Magna ♦ Non deve illudere lo zero virgola  in campo positivo, assegnato al Pil dalle ultime rilevazioni e dipendente dal lieve aumento della produzione industriale: in assenza di misure di politica economica il Paese è in stallo, e il futuro, dopo un anno di stagnazione, non è roseo. Ecco l’analisi e le proposte degli economisti Daveri, Beltrametti e Noci

Non era recessione l’ultimo trimestre 2018, non è certamente ripresa il primo trimestre 2019. La condizione in cui versa l’economia italiana ormai da un anno e mezzo almeno ha un nome preciso: stagnazione, dalla quale si farà fatica a uscire nei trimestri a venire. Appigliarsi a un segno più o meno per ribaltare il racconto di quello che avviene a seconda della convenienza politica è un non senso quando quel che segue è il solito, spaventoso “zero virgola”. Industria Italiana ne ha parlato con Francesco Daveri, Professore di macroeconomia presso la School of Management della Sda Bocconi; Luca Beltrametti, docente di politica economica all’Università di Genova, e Giuliano Noci, professore di ingegneria economico-gestionale e prorettore del Politecnico di Milano. Dal giro di opinioni si trae una desolante certezza: siamo in una condizione di stallo, in assenza totale di misure strutturali – unica strada possibile per uscire dalla stasi – e nello scomodo ruolo di sorvegliato speciale, pecora nera per le sorti dell’intera Europa.

 







Fonte: Istat

Segno più grazie all’industria (ma non si esce dalla trappola dello zero virgola)

Il trend è innanzitutto disegnato dai numeri. Il Pil del primo trimestre 2019, secondo Istat, è aumentato dello 0,2% rispetto al trimestre precedente e dello 0,1% in termini tendenziali. «La variazione congiunturale del Pil è la sintesi di incrementi del valore aggiunto sia nel comparto dell’agricoltura, sia in quello dell’industria, sia in quello dei servizi. Dal lato della domanda, vi è un contributo negativo della componente nazionale (al lordo delle scorte) e un apporto positivo della componente estera netta. La variazione acquisita per il 2019 è pari a +0,1%», recita il comunicato dell’ istituto di statistica. Dunque si conferma la crescita zero sull’intero anno preconizzata da Confindustria a fine marzo.

 

Fonte: Istat
Il Pmi manifatturiero continua a indicare contrazione

A riportare in territorio positivo il dato sulla crescita dell’economia è stata, a febbraio, la produzione industriale, aumentata dello 0,8% rispetto a gennaio. Corretto per gli effetti di calendario, l’indice è aumentato in termini tendenziali dello 0,9%, e dell’1,3% se si considerano le sole attività manifatturiere. Ma, decisamente, non è abbastanza per festeggiare l’inversione di tendenza: perché «nella media del trimestre dicembre-febbraio – prosegue Istat – il livello destagionalizzato della produzione diminuisce dello 0,3% rispetto ai tre mesi precedenti». E perché la dinamica è stata messa in atto, con ogni probabilità, dalla ricostituzione delle scorte che le aziende avevano ridotto alla fine del 2018, per via dell’incertezza e della scarsa visibilità sul futuro. Condizione che permane, come dimostra ancora una volta il Pmi manifatturiero dell’Italia che è certamente salito rispetto a marzo (quando aveva segnato il minimo da quasi sei anni a 47,4) portandosi a quota 49,1 e superando anche le stime degli analisti, ma che si tiene al contempo saldamente sotto la soglia di 50 che discrimina la contrazione dalla crescita.

 

Francesco Daveri, professore di macroeconomia presso la School of Management della Sda Bocconi

Oltre un anno di stagnazione

Insomma, se si guarda alla dinamica degli ultimi trimestri si osserva che il sentiero dello 0 virgola era stato intrapreso dalla nostra congiuntura almeno dal primo trimestre 2018  (qui il dato Istat). «Siamo da un anno circa in una situazione di stagnazione che è relativamente equanime. Abbiamo assistito ora a un trimestre che ha segnato un più zero virgola, dopo due trimestri con un meno zero virgola. Ma, sostanzialmente, un anno fa il Pil era uguale a oggi», dice a Industria Italiana Francesco Daveri, professore di macroeconomia presso la School of Management della Sda Bocconi.

«Per la produzione industriale che è fortemente correlata con il Pil la dinamica più o meno è la stessa. Certamente, si può notare che anche prima del 2015-2018 quando il Pil cresceva dell’1% circa, tra il 2013 e il 2014 per sette trimestri consecutivi i tassi di crescita hanno stazionato intorno allo zero, in una situazione simile a quella attuale. Con la differenza che uscivamo da una recessione con un Pil sceso del 3%, che aveva lasciato danni che sembrava quasi impossibile riparare. Stavolta non sappiamo se andrà come l’ultima volta, ma un periodo di stagnazione non è impensabile per come è messa l’economia italiana, che cresce dell’1% quando va bene e oggi, decisamente, non è in un mood positivo». Anche se, in maniera altrettanto tipica, va rilevata la forte asimmetria tra imprese che crescono a due cifre e altre che restano al palo, «le prime sono le medie aziende con vocazione all’estero e brand forte che non risentono degli scostamenti di fiducia dei mercati e contano su un vantaggio competitivo con alte barriere all’ingresso». Le seconda, invece sono le altre piccole e micro che costituiscono il 90% del tessuto industriale italiano.

 

Il Ministro del lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio (foto di Mattia Luigi Nappi)
Misure di emergenza? Non più sufficienti

E per l’Italia oggi più che mai sarebbero necessarie riforme strutturali. «Le misure di emergenza sono misure tampone», afferma Daveri: «Le politiche di incentivazione come Industria 4.0 – che ha avuto i suoi meriti perché ha consentito agli investimenti scesi del 30% tra il 2006 e il 2014 di recuperare un 10% – non sono affatto una soluzione. Se un imprenditore investe perché c’è un incentivo non fa che anticipare una decisione che forse avrebbe preso con una tempistica diversa, ma non aumenta la sua quota di investimenti. Dunque non è sbagliato a un certo punto eliminare incentivi che drogano la crescita: mossa che era stata fatta dal governo attuale nell’attesa di trovare nuove misure alternative. Ma misure come il reddito di cittadinanza e quota 100, quelle che poi sono state assunte, sostengono non gli investimenti ma forse e in maniera parziale i consumi e il saldo netto non è positivo. Non è un caso che sia la domanda interna a mancare nel Pil, ovvero la somma di consumo e investimento».

Misure come il reddito di cittadinanza hanno la loro dignità, secondo Daveri «se si traducono in un sostegno per 5 milioni di poveri: ma funzionano se si tratta di trasferimenti di reddito per chi viene svantaggiato dalle riforme del sistema economico, ovvero dalle modifiche alle regole dell’economia per renderla più efficiente. Nella transizione, che prevede processi duri e impietosi, ci sono costi che vanno compensati: Barack Obama durante la prima parte della sua presidenza aveva stanziato fondi per compensare coloro che, avendo perso il lavoro per via della globalizzazione, accettavano un nuovo lavoro a un salario più basso. Il nostro reddito di cittadinanza è un sostegno al reddito non necessariamente associato al lavoro: è una protezione generalizzata anziché».

Inoltre, quello che manca, secondo il professore della Bocconi sono dunque le riforme modernizzatrici che sole potrebbero rendere l’Italia competitiva. «Tutto ciò che è un po’ il mantra di noi economisti ed è la strada che suggeriscono Ocse e Fmi ecc: aiutare le pmi ad aumentare la loro dimensione, riformare giustizia e PA».

 

Luca_Beltrametti
Luca Beltrametti, docente di politica economica all’Università di Genova

I costi di finanziamento alle imprese: i più alti in Europa

Non solo l’Italia ha un’economia stagnante e «non appaiono all’orizzonte elementi che indichino la fine della stagnazione», precisa Luca Beltrametti, docente di politica economica all’Università di Genova, ma «è evidente un elemento di divergenza rispetto alle altre economie più importanti. In Italia il Pil è sostanzialmente fermo ma nell’area euro cresce di 1,2% nell’ultimo trimestre e negli Usa del 3,2%. L’Italia è una anomalia. E lo stesso vale sul fronte della disoccupazione: è vero che l’area euro ha un tasso di disoccupazione che è doppio rispetto a quello Usa, ma in Italia siamo del 2,2% sopra della media europea.»

«Questo è ancora abbastanza scontato: la cosa che tuttavia spaventa di più e che incide sulla vita delle imprese sono i tassi di interesse. Se ne parla molto perché siamo focalizzati sullo spread Italia Germania che in questo momento è lontano dai massimi, però è una tranquillità relativa. Perché la Germania è essa stessa in una fase di debolezza, ma vediamo che lo spread dell’Italia con Portogallo e Spagna si è allargato. E l’Italia sempre più spesso è indicata come il problema dell’Unione europea». Nell’ultimo anno il rendimento dei titoli di Stato a 10 anni è cresciuto di 78 punti base in Italia mentre nell’area euro è sceso di 55 punti base, rileva Beltrametti.

 

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. L’Italia può essere danneggiata dalle guerre commerciali più degli altri paesi europei

 

E non basta: «L’Italia è l’unico Paese tra quelli rilevanti in cui i tassi anziché diminuire sono saliti e questa è un’anomalia che dovrebbe invitare a stare in allerta perché segnala che i mercati finanziari ci guardano con molta diffidenza. Intanto questo differenziale impatta sui costi delle imprese perché il costo di finanziamento delle aziende italiane è significativamente più alto rispetto a quelle europee e questo dipende direttamente dal modo in cui il governo si esprime, decisamente poco chiaramente, rispetto alla politica fiscale. L’autunno si presuppone davvero fosco: non è facile immaginare come sarà strutturata la manovra correttiva, né come come sarà trattata l’Iva mentre prosegue l’atteggiamento di aperta sfida con l’Europa».

E a monte di questo tranello italiano, l’atteggiamento di un Donald Trump sempre più aggressivo sugli scambi commerciali, dovrebbe far scattare l’allarme. «L’Italia perderebbe, da un mancato accordo, meno della Germania ma più della Francia. Nel 2018 il deficit commerciale verso gli Usa ammontava per la Cina a 419mila miliardi di dollari; per la Germania a 68mila miliardi di dollari, una cifra identica a quella del Giappone; per l’Italia a 31mila miliardi e per la Francia a 16mila miliardi. L’Italia sotto questo profilo ha tanto da perdere. Soprattutto considerando che l’economia è trainata esclusivamente dalla domanda estera».

 

“Dati congiunturali”: Fonte Economist e US Census Bureau

La digitalizzazione non migliora la produttiva delle microimprese: una condanna per l’Italia

Prosegue Beltrametti:«Questo paese ha bisogno di una visione credibile per crescere in maniera stabile e non episodica. Ci vuole un progetto sostenibile dal punto di vista economico, finanziario, tecnologico. La produttività italiana è straordinariamente bassa e difficilmente potrà beneficiare della digitalizzazione. Uno studio dell’Ocse sostiene che i guadagni di produttività derivanti dalle tecnologie digitali sono elevati solo nelle imprese di grandi dimensioni e questo perché occorrono cambiamenti organizzativi che presuppongono capacità manageriali che nelle piccole e micro imprese non ci sono. Vista la struttura del sistema industriale italiano, fatto al 90% da micro imprese, non siamo nella posizione ideale per beneficiare di queste tecnologie».

 

 

A conclusione del ragionamento, anche il dato positivo sulla produzione industriale che migliora non va collocato secondo Beltrametti «in una inversione di tendenza, anche perché la stessa Confindustria vede gli ordini in calo. Non è dunque il presupposto di una ripresa degli investimenti e della domanda interna né è supportato da opere infrastrutturali all’orizzonte». Il primo trimestre del 2019 è stato caratterizzato da un calo degli ordini delle macchine utensili, come emerge dai dati del Centro studi Ucimu, il cui indice rivela una diminuzione dell’8,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (complice la rimozione del superammortamento). E a fine marzo, Anie, l’associazione di Confindustria che rappresenta l’industria dell’elettronica, una di quelle strategiche per il Paese, aveva lanciato il suo allarme su ordini e fatturato del 2019 .

 

Giuliano Noci, professore di ingegneria economico-gestionale e prorettore del Politecnico di Milano

Effetto re-stocking sulla produzione industriale

Dunque, a cosa si deve attribuire il rimbalzo della produzione industriale e il conseguente segno più davanti al Pil? «Questo +0,2% è probabilmente drogato da una componente di re-stocking. Nell’ultimo trimestre del 2018 l’incertezza aveva fatto ridurre le scorte e adesso le aziende hanno probabilmente provveduto a ricostituirle. E questa dinamica ha influenzato anche il dato sulla produzione industriale», spiega Giuliano Noci, professore di ingegneria economico-gestionale e prorettore del Politecnico di Milano.

«Oggi commentiamo i dati preliminari del Pil: sarà interessante osservare poi come si struttura la composizione. Quello che sappiamo per certo è che questa “non crescita” è il risultato della domanda interna che continua a calare e dunque della totale dipendenza dall’export. Questo vuol dire che se non si conclude il deal tra Cina e Usa l’Italia tracolla, per due effetti combinati: perché l’Italia esporta molto in Germania che è l’unico paese al mondo ad avere un avanzo primario con la Cina. E se il mercato cinese ne risente l’impatto negativo si riverbera sulla Germania e di conseguenza sull’Italia». Per definire il momento attuale una fase di crescita ci vuole coraggio, ma «non dobbiamo gioire, come non dovevamo piangere un trimestre fa, ma lavorare per rimuovere questo stato di cose. L’impostazione complessiva è che la domanda interna riprenda: perché ciò accada deve riprendere quota il mercato del lavoro e dunque, necessariamente, le imprese devono vivere in condizioni di competitività. Come si realizza questa impostazione? I temi sono i soliti che i governi si guardano bene dall’affrontare».

Infrastrutture, cuneo fiscale, formazione: i temi di lungo termine che nessun governo affronta

Di questi temi, spiega Noci «Il primo è uno spaventoso deficit infrastrutturale; il secondo è un cuneo fiscale oggettivamente insostenibile: non è possibile che le imprese italiane abbiano il costo del lavoro più elevato d’Europa, mentre i lavoratori italiani abbiano il libello salariale più basso del continente. Il terzo elemento forse meno scontato ma trascurato da venti anni sono gli investimenti nel sistema educativo: nel mondo in cui tutto è più complesso e la trasformazione digitale impone maggior formazione, l’Italia si distingue per avere il tasso di laureati minore al mondo, con piani formativi generalmente distanti rispetto alle esigenze delle imprese. Ma negli ultimi 20 anni i primi tagli sono sempre stati riservati a istruzione e università». Paradossale che non si riesca a intervenire laddove serve.

«Non direi: anche combattere l‘evasione fiscale è semplice, basterebbe schiacciare un bottone e incrociare i dati già disponibili. Perché non lo fa nessuno? Perché non conviene nel breve termine e vale per tutte le altre cose. L’orizzonte della politica è di brevissimo termine: un orizzonte in cui qualsiasi riforma di questo tipo non premia. Di più oggi che l’obiettivo è massimizzare il numero di like nella giornata. Non verrà fatto nulla che non si possa capitalizzare nell’immediato». In conclusione, secondo il prorettore del Polimi, «l’unica variabile che potrebbe far cambiare le cose, posto che la domanda interna non cambia e che mancano le condizioni per creare lavoro è una eventuale crescita esogena. Peraltro ipotizzando che gli altri non evolvano: la realtà è che mentre noi stiamo fermi gli altri invece stanno crescendo e dunque è come se noi arretrassimo e tra sei mesi saremo ancora più indietro». Il prossimo futuro, dunque, non promette nulla di buono.














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