Sostenibilità industriale & packaging: l’era del pet riciclato

di Marco de' Francesco ♦︎ L’alternativa a bioplastiche e bioderivati. Strategie e futuro di 138 impianti che compiono queste attività e cresceranno. Parla Giuseppe Vignali, noto esperto della materia

C’è un comparto strettamente legato alla sostenibilità industriale e all’economia circolare in cui l’Italia è un player molto avanzato. È quello del riciclo delle bottiglie in Pet, la resina polimerica utilizzata come contenitore di acqua e altre bevande. Di questo poliestere siamo sempre stati grandi produttori: Mossi & Ghisolfi, poi confluito in Versalis, ha guidato a lungo il mercato globale. Comunque, su 320mila tonnellate di bottiglie di acqua minerale immesse al consumo in Italia, 176mila, il 55%, sono trattate e rimesse in circolazione.

In Italia ci sono 138 impianti industriali di riciclo, che adottano tre metodi: il riutilizzo diretto, che però può comportare problematiche di contaminazione del contenuto; la depolimerizzazione, che tuttavia è costosa; e la frantumazione in scaglie, che sono decontaminate e riutilizzate insieme a Pet vergine per la produzione di nuovi involucri. Questo sistema è stato adottato, ad esempio, da Ferrarelle e San Benedetto. È coerente con direttive e regolamenti europei, che gradualmente stanno mettendo al bando la plastica “usa e getta”; e sfugge alla stretta della Plastic Tax, visto che l’imposta da 45 centesimi di euro al chilo non si applica ala fattispecie.







Il tema della sostenibilità della plastica in generale è però più ampio: in Italia la produzione di imballaggi vuoti a superato i 16,7 milioni di tonnellate. Una soluzione è la bioplastica, e cioè quella degradabile nell’ambiente realizzata trattando biomasse. Ad esempio, la Novamont di Novara utilizza l’amido di mais e gli oli vegetali. È un altro settore in cui l’Italia è forte, con una produzione di 88.900 tonnellate all’anno. Ma secondo Giuseppe Vignali – che all’università di Parma è presidente del corso magistrale in “Ingegneria degli impianti e delle macchine dell’industria alimentare” e aderente a CIPACK, centro sul packaging dell’ateneo – è una soluzione meno sostenibile del riciclo del Pet, perché sottrae spazio all’agricoltura. Sulla questione, abbiamo intervistato il docente.

 

D: Sempre di più si parla di sostenibilità del packaging. Qual è, secondo lei, la soluzione più efficace?

Giuseppe Vignali, presidente del corso magistrale in “Ingegneria degli impianti e delle macchine dell’industria alimentare” all’università di Parma e aderente a CIPACK, centro sul packaging dell’ateneo

R: «I pilastri della sostenibilità sono tre: ambientale, economica e sociale. Sono aspetti che dovrebbero essere in rapporto sinergico e sistemico. All’apparenza, alcune soluzioni appaiono ai consumatori più avanzate di altre, da questo punto di vista, ma in realtà non lo sono. Si pensi ai biopolimeri. Sono o da fonte biologica o biodegradabili o entrambi, e pertanto possono riscuotere successo presso un pubblico largo. Ma, per produrre da fonte biologica occorre coltivare terreni che sono generalmente destinati alle coltivazioni alimentari. Così, si sottrae spazio all’agricoltura per finalità diverse. In realtà, ad oggi, una delle soluzioni meno impattanti è quella di riciclare il Pet, la materia plastica più utilizzata nel confezionamento di acque e bevande. È leggero, economico, discretamente inerte e con buona impermeabilità ai gas. Tuttavia è non-degradabile, con una vita media stimata intorno ai mille anni. Il suo smaltimento è dunque estremamente importante. Più viene riciclato, meno ne serve di nuovo e minore è l’impatto ambientale dei contenitori di plastica. Inoltre, è una soluzione sostenibile economicamente e socialmente, ma di questo parleremo dopo».

 

D:  Cos’è esattamente il Pet?

R: «È un poliestere. Pet sta per polietilene tereftalato: in sostanza una resina termoplastica, insolubile, adatta al contatto alimentare e per questo usata spesso per bottiglie e contenitori in genere. Ma se ne fanno anche vestiti e componenti per auto. In Europa se ne producono 3,5 milioni di tonnellate all’anno».

 

D: Come funziona il riciclo?

R: «Anzitutto bisogna distinguere tra riciclo chimico e quello meccanico. Il riutilizzo diretto invece non è possibile; è un’operazione che comporta problematiche di contaminazione del contenuto e di rammollimento della plastica. Il processo chimico richiede invece una depolimerizzazione, e cioè di decomporre i polimeri nelle loro molecole originarie. È un procedimento piuttosto costoso, perché implica la spesa di energia e l’utilizzo di impianti avanzati. Il processo meccanico è sicuramente quello ad oggi preferibile. Si tratta di frantumare la plastica in scaglie o granuli. Questo metodo si compone di cinque fasi. Anzitutto, la raccolta selettiva dei contenitori riciclabili per alimenti, con l’invio ai centri di cernita, selezione per tipologia e colore la raccolta in balle. Poi, un’ulteriore cernita con i raggi infrarossi, che eliminano i materiali estranei. Ancora, la rigenerazione, con il prelavaggio per eliminare etichette e tappi, con la triturazione del materiale in scaglie e con l’essicazione tra i 150 e i 180 gradi centigradi. Segue per usi alimentari la decontaminazione, un trattamento termico a 280 gradi o chimico con un detergente caustico. Infine, la trasformazione in R-Pet, granulo disponibile per nuove lavorazioni».

Le 5 fasi del riciclo meccanico

 

D: Esattamente, dove finisce il Pet riciclato?

R: «In nuovi contenitori, che sono realizzati utilizzando ad oggi una quota di plastica vergine e una di scaglie riciclate. Grandi aziende del Food&Beverage come Granarolo, Parmalat, San Benedetto, Ferrarelle sono molto avanzate da questo punto di vista. Naturalmente, conferiscono grande importanza alla decontaminazione, che assume invece un minor rilievo nel caso in cui le plastiche riciclate siano utilizzate in altri contesti, ad esempio nella produzione di componenti per auto».

 

D: Quali difficoltà tecniche comporta l’utilizzo di R-Pet per i produttori e per gli utilizzatori di macchine che realizzano involucri di plastica?

R: «In realtà quasi nessuna, per gli uni e per gli altri. Le macchine sono le stesse che producono e utilizzano contenitori in Pet vergine. È solo una questione di settaggi, di impostazioni relative alla temperatura e alla pressione. La lavorabilità dell’R-Pet è molto buona. Se invece si cambia materiale, e invece di impiegare il Pet si vuole passare una plastica diversa, allora le cose cambiano».

Plastica nel mondo e in Europa, produzione e raccolta

 

D: In che senso questa operazione è anche socialmente ed economicamente sostenibile?

R: «Si responsabilizza il consumatore, i cui comportamenti contano. Si caldeggia la raccolta differenziata, perché non c’è altra soluzione: altrimenti, si verifica la dispersione di materiale non biodegradabile. E si sta cercando di incentivare la condotta positiva dei singoli. C’è ad esempio un consorzio, che si chiama Coripet, e ha sede a Milano. È riconosciuto dal ministero dell’Ambiente. La sfida è riciclare le bottiglie in Pet immesse sul mercato dalle aziende produttrici consorziate. Attualmente, dispone di 80 punti di raccolta; ma l’obiettivo è arrivare a 3mila. In alcuni casi, è previsto un piccolo contributo economico per coloro che portano il Pet utilizzato al compattatore. Quanto alla sostenibilità economica, il punto è: l’azienda che utilizza la plastica riutilizzata che cosa ci guadagna? Anzitutto, in alcuni settori l’immagine che l’impresa tende a proiettare sul pubblico, conta notevolmente. Questo vale nell’alimentare, ad esempio. Parmalat realizza un contenitore per latte fresco utilizzando il 50% di plastica vergine e il 50% di riciclata. Ora, la seconda costa leggermente di più, ma i benefici ambientali sono evidenti e si ha inoltre il vantaggio di apparire, agli occhi dei consumatori, come un’azienda green, volta all’economia circolare. E poi, a posteriori potrebbe anche guadagnarci economicamente: la Plastic Tax non si applica all’R-Pet. Anche se questa legge è finita in un contesto di tale incertezza che non è certo se e quando sarà mai applicata. Attualmente è stata rimandata a luglio, la concreta entrata in vigore. Ma, considerata la situazione economica del Paese con l’infierire del coronavirus, non è improbabile che vada tutto a monte. Stiamo a vedere».

riciclo imballaggi in plastica

D: Una legge che ha dato vita ad aspre polemiche, quella sulla Plastic Tax

R: «Quando è uscita la norma, nel contesto della Legge di Bilancio, era un po’ grossolana. Infatti, ha subito modifiche e rinvii. L’idea di fondo era forse quello di colpire i “macsi”, e cioè i manufatti in plastica con singolo utilizzo. Insomma, disincentivare l’usa e getta, ma non dobbiamo scordarci che in molti casi il confezionamento allunga la shelf life dei prodotti alimentari. Per molte industrie inoltre 45 centesimi al kg sono tanti e soprattutto vi possono essere altri modi per intervenire, ad esempio incentivando economicamente la raccolta. In questo modo, non si danneggia nessuno. Con la Plastic Tax, invece, tutto ricade sui costi dell’azienda e sul portafoglio del consumatore. C’è da dire, in positivo, che la legge ha smosso le acque: ora l’impulso a cambiare è molto maggiore. La legge, comunque, ammesso che entri davvero in vigore, va rivista ancora».

 

D: Come procede il riciclo di Pet in Italia?

R: «In realtà, non è un periodo particolarmente fortunato. E ciò non è dovuto al coronavirus, visto che il settore di riferimento è l’agroalimentare, che è quello che probabilmente sta risentendo meno della crisi. La questione va posta in questi termini: dodici anni fa la Commissione Europea aveva emanato un regolamento, il 282/2008, relativo ai materiali e agli oggetti di plastica riciclata destinati al contatto con gli alimenti. Sembrava particolarmente avanzato, per il tempo, e destinato a promuovere lo sviluppo dell’R-Pet. Poi c’è stata la crisi del petrolio, che peraltro in questi giorni si è acuita, visto che il greggio costa una manciata di dollari a barile. In queste condizioni, la produzione di plastica vergine diventa particolarmente vantaggiosa, e ciò può mettere fuori gioco il Pet riciclato. Di recente, nel giugno 2019, il Consiglio Europeo e il Parlamento Europeo hanno emanato una direttiva che impone agli Stati di far sì che le bottiglie di Pet contengano almeno il 25% di plastica riciclata entro il 2025; ma finché il mercato del petrolio sarà al ribasso o oggetto di oscillazioni importanti, l’investimento in R-Pet sarà a rischio. Quanto al riciclo in generale degli imballaggi in plastica, l’Italia è un Paese virtuoso: ha superato quota 44%, abbastanza in linea con le aspettative europee, che prevedono un obiettivo del 60% per il 2030. Inoltre la Cina, che è il più grande produttore al mondo di plastica, ha deciso che per il riciclo fa da sé: quindi, o noi ricicliamo interamente le nostre plastiche, o le destiniamo al termovalorizzatore».

Il riclo del pet













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