Smart working 2/Ma come cambiano le postazioni di lavoro? E come tutto ciò muta il modo di operare?

di Gaia Fiertler ♦︎ Viaggio nel mondo del lavoro che perde il posto. Anche gli uffici hanno subito una vera e propria rivoluzione, a seguito della digital transformation e di una mentalità che guarda più al risultato e alla produttività che non all'orario. La classica scrivania personale è obsoleta – sta scomparendo a una media del 20% annuo -, superata da più locali progettati ad hoc, occupabili a seconda delle diverse finalità produttive. In questo modo gli spazi sono ottimizzati. Ma si lavora meglio? E quanto si rende davvero?

Aiuto, dov’è finita la mia scrivania! Quanti progetti, mal di pancia, speranze, pensieri e preoccupazioni hanno preso forma nelle nostre giornate seduti alla scrivania? Quante fotografie, disegni e trofei ci hanno fatto sentire “a casa” in ufficio e ci hanno fatto conoscere un po’ di più dagli altri? Quanto ha contribuito proprio quella postazione di lavoro a creare la nostra zona di comfort, con le nostre piccole sicurezze, guardando gli altri dalla nostra prospettiva e del nostro vicino di banco? Ecco, tutto questo salta con il concetto di smart office, conseguenza di una più ampia concezione di smart working, modello organizzativo che impatta e rivoluziona più dimensioni del lavoro: la prestazione, lo spazio-ufficio, la cultura organizzativa.

Il ripensamento degli uffici e la loro disposizione, funzione e dimensione è infatti uno degli aspetti fondamentali del modello di lavoro smart, favorito dalla digital transformation che aiuta la mobilità non solo per il lavoro in remoto, ma anche in azienda. Finora sulla rivisitazione complessiva degli spazi ha investito un’azienda su due tra le grandi imprese che in Italia hanno adottato una qualche forma di smart working, che sono il 58% secondo l’Osservatorio Smart Working 2019 del Politecnico di Milano.







La caratteristica principale è la spersonalizzazione delle classiche postazioni di lavoro, assegnando loro funzionalità e “senso” a seconda delle attività da svolgere nel corso della giornata. La seconda caratteristica è la loro riduzione numerica rispetto al totale della popolazione aziendale, con una media del 20% in meno. Questo modo di concepire lo spazio lavorativo, che sottende una diversa cultura detta “Activity based work” (Abw), prevede infatti una macro-suddivisione degli uffici tra spazi collaborativi, individuali, di relax e di concentrazione/privacy. Il modello seguito è di J. Myerson (2010), che misura il grado di maturità degli spazi proprio in base alla capacità di gestire le quattro C: collaborazione, concentrazione, comunicazione, contemplazione (Istud Business School, “Smart Work e place”, 2018-2019).

Fameccanica a San Giovanni Teatino (CH) spazi di lavoro progettati dallo studio Degw

Smart office: meno scrivanie e più spazi sociali

In pratica, il posto di lavoro non è più identificabile con una sola postazione a risorsa, la classica scrivania personale, ma con più spazi progettati ad hoc, occupabili a seconda della diverse finalità produttive. Così, per attività individuali si potrà utilizzare una scrivania disposta a isole, o secondo l’“hot desking” (sequenza lineare e concentrata di postazioni) in open-space, che sono aree di lavoro organizzate per divisioni aziendali per mantenere un ordine spaziale all’organizzazione, ma che per la logica stessa dello smart working non impediscono ai dipendenti di scambiarsi di posto e di sedersi dove trovano libero. Poi, nel corso della giornata può capitare di aver bisogno di chiudersi in un “phone-booth”, una sorta di moderna e confortevole cabina telefonica con sgabello per telefonate riservate; oppure in sale riunioni di varie dimensioni, prenotabili via mail e così pure frequentare aree relax, come belle cucine con divanetti e poltroncine in continuità con gli altri spazi. In LinkedIn è sempre disponibile la frutta fresca per tutti, mentre nelle cucine di Bosch, che ha appena completato il nuovo lay-out della sede di Milano, c’è un tocco di personalizzazione con la presenza di tazze colorate portate da casa, mentre in Sky hanno lasciato la libertà di colorare e addobbare il proprio armadietto.

Qual è la necessita delle sale riunioni? Fonte Degw

Avere ciascuno un proprio “locker” è una novità dei nuovi uffici open. «Anche sul posto di lavoro, le persone danno agli oggetti una dimensione affettiva – commenta Adriano Solidoro, docente di Information Systems for Knowledge Management presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca – il pupazzetto e la fotografia oggi non sapresti più dove metterli visto che si è in regime di “desk sharing”, o “hot desking”, ma le aziende più illuminate comprendono queste necessità e lasciano qualche spazio da trattare in modo più individuale, anche se slegato dalla scrivania.»
L’altro fenomeno interessante, aggiunge Solidoro, «è la reazione di rimando alla spinta sul remote working, e cioè il tentativo di “riportare” dentro le persone creando più spazi sociali informali, dove incrociarsi, parlarsi, farsi venire idee, anche tra colleghi di divisioni diverse. Sono nuovi luoghi sociali, accoglienti e confortevoli, dentro l’ufficio, perché si sta comprendendo che l’identità e la cultura aziendale passano dalle persone che, nonostante i potenti strumenti di connessione, hanno bisogno di “esserci” per sentirsi parte. Forse, si ha bisogno di vedersi anche per una non ancora sviluppata capacità dei manager di ricreare un contesto di appartenenza, di collaborazione e condivisione coi soli strumenti digitali». Le principali criticità sottolineate proprio dagli smart worker sono la percezione di isolamento (35%) e la difficoltà di comunicazione e collaborazione virtuale (13% – dati Polimi).

Adriano Solidoro, docente di Information Systems for Knowledge Management presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca

 

Ottimizzazione degli spazi e agile working

A monte di questa rivoluzione del lay-out dell’ufficio con più aree sociali e meno spazi individuali, ci sono almeno due aspetti, uno più logistico di risparmio per l’azienda e uno culturale di cambiamento dell’organizzazione del lavoro.
Da un lato, infatti, l’analisi della media di occupazione degli uffici ha dimostrato che ci sarebbe un 23% di non utilizzo delle postazioni giornalmente, e quindi sacrificabile, e un 77% di presenza in ufficio, suddivisa tra un 42% al proprio posto per attività individuale e il restante 35% in giro per l’azienda per riunioni varie (fonte Degw). L’altro aspetto è un modo nuovo di concepire il lavoro che scommette sulla capacità d’innovazione e di collaborazione tra le persone, attraverso la loro contaminazione e condivisione, anche informale, degli spazi. Le attività sono sempre più articolate su team di progetto, che si formano e si sciolgono in base alla cosiddetta metodologia “agile”, sempre nella logica di anticipare o cavalcare l’innovazione e garantire competitività all’azienda. Inoltre il lavoro è molto più mobile rispetto agli anni Novanta, con progetti seguiti direttamente dal cliente, oltre ai classici commerciali sparsi sul territorio e raramente in ufficio, il tutto reso possibile dalla portabilità degli strumenti e dei documenti di lavoro su un device (tablet e smartphone) con accesso ai server aziendali in cloud, ovunque ci si trovi e quando si voglia, mantenendo la connessione con l’ufficio e accelerando il flusso di comunicazione tra centro e periferia.

Perchè gli spazi aziendali devono essere ottimizzati? Fonte Degw

 

Open space la vendetta?

«Gli open space degli anni duemila, intensificatisi all’epoca per esigenze di efficientamento degli spazi – spiega Alessandro Adamo, architetto, partner di Lombardini22 e direttore di Degw, brand del Gruppo L22, dedicato alla progettazione integrata di ambienti per il lavoro – tendevano alla compressione dei metri quadri per persona, mentre oggi la tendenza è quella di dilatare lo spazio vitale per ciascuno, grazie alla differenziazione degli ambienti e, soprattutto, grazie a quell’aumento di mobilità che non porta più alla completa occupazione quotidiana di tutte le scrivanie presenti. Combinando questi diversi elementi, è stato possibile ripensare gli spazi stessi in termini di ottimizzazione dei consumi e dei metri quadri (con una media del 20% di scrivanie in meno ad azienda), nonostante la maggiore presenza di aree sociali, come nei numerosi casi di consolidamento delle sedi di imprese che hanno riportato in un unico edificio i dipendenti distribuiti in più building della stessa città, come Allianz a Milano e Banca nazionale del lavoro a Roma. Infine, c’è anche un impatto positivo sull’inquinamento, grazie a una riduzione del commuting quotidiano (trasferimento casa-ufficio e ritorno) nelle giornate di smart working».

Alessandro Adamo, architetto, partner di Lombardini22 e direttore di Degw, brand del Gruppo L22

 

Smart office: si lavora meglio? Sì, a patto che…

Ma stanno tutti bene i dipendenti delle grandi aziende nei nuovi open-space dell’era digitale, che si perdono a vista d’occhio intrecciandosi con aree colorate, puffi, sgabelli, vetrate e salette trasparenti per riunioni e telefonate, tutte perfettamente insonorizzate?
Sì, ma con riserva. Si lavora meglio se vengono rispettate almeno tre condizioni: educazione, utilizzo appropriato degli spazi dedicati alle diverse attività lavorative e ricreative e aggiornamento del lay-out, se cambiano i numeri dei dipendenti residenziali. Se queste condizioni vengono disattese, si rischia infatti l’effetto boomerang della nuova organizzazione del lavoro, che dovrebbe migliorare il clima aziendale, facendo infatti parte dei servizi di welfare aziendale per la conciliazione vita-lavoro e per un maggior benessere dei dipendenti.

Microsoft house sala riunioni

«In alcune organizzazioni la direzione HR sta iniziando a raccogliere malumori, come spesso accade se cambiamenti così significativi non vengono accompagnati da azioni e programmi anche culturali, ma siano banalizzati con l’esclusiva focalizzazione sulle tecnologie abilitanti. Anche un bel progetto architettonico, se calato dall’alto e non contestualizzato e adattato alla specifica cultura aziendale e ai comportamenti organizzativi, rischia di non essere efficace», avverte Solidoro. In certi casi si sta correndo ai ripari per inserire delle regole di buon comportamento che, se disattese, in ambienti comuni e in spazi da prenotare rischiano di rallentare i tempi dei progetti, di disturbare l’operato individuale e di inasprire il clima interno, anziché favorire collaborazione e benessere come da manuale.

Qual è stata l’evoluzione nell’uso degli spazi aziendali? Fonte Degw

«Per fare esempi concreti, che registriamo nelle nostre osservazioni, la phone booth va usata in modo volante per qualche chiamata riservata, e non come ufficio privato. La durata delle riunioni va rispettata per non far perdere tempo a chi occupa lo spazio a seguire, altrimenti si moltiplicano i ritardi e le prenotazioni delle diverse sale riunioni vanno commisurate al numero di persone coinvolte. Ovviamente, all’origine, ci dev’essere una corretta proporzione tra disponibilità e varietà dimensionale di sale riunioni e scrivanie rispetto alla popolazione mediamente presente, facendo le medie relative per divisioni aziendali», racconta Adamo. E a proposito di proporzioni, una terza condizione necessaria è che si faccia l’upgrade del layout, qualora cambi sensibilmente il numero di persone medio presente in azienda, perché diversamente si assisterà alla corsa ansiogena alle scrivanie e alle sale di supporto. Infine, per quanto si utilizzino ormai materiali fonoassorbenti ovunque, per soffitti, pareti e pavimenti e soluzioni varie per garantire privacy e concentrazione anche in spazi aperti, come divanetti dalle alte testate, poltrone avvolgenti che ricordano navicelle spaziali e lampadari fonoassorbenti, se una suoneria del telefono è troppo alta disturberà lo stesso e, ancor di più, se si aggiungerà ad altre suonerie, realizzando un bel concertino.














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