Smart working 1/ Le industrie italiane sono davvero pronte per la rivoluzione culturale dello smart working?

di Gaia Fiertler ♦︎ Viaggio in un mondo che dovrebbe essere moderno. Sono 570mila in Italia i lavoratori agili (+20% rispetto allo scorso anno). Un esercito che cresce ma che in Europa rimane fanalino di coda. Sono soprattutto le grandi aziende (58% nel 2019) ad adottare questo nuovo modello di occupazione, tra cui EY, Intesa Sanpaolo, Tim, Vodafone, Bosch, Sap, Oracle e Microsoft. Ma l'organizzazione del lavoro è realmente flessibile? Una legge per regolamentare lo smart working esiste, ma chi pon mano ad essa? E la manifattura? …

Smart working, luci e ombre su un modello organizzativo che impatta sul come, quando e dove svolgere la propria attività lavorativa da dipendenti e che in Italia sta crescendo, ma lentamente e non riesce a esprimersi in tutte le sue possibilità. È il cosiddetto “lavoro agile”, che permette più flessibilità e autonomia nella scelta dell’orario e del luogo di lavoro, grazie a strumenti digitali che aiutano a lavorare in mobilità e a una legge del 2017 che lo regolamenta. Si lavora meglio, si risparmia tempo, si è più motivati e quindi più produttivi? In molti casi anche senza più la propria scrivania? Cosa comporta a livello culturale e organizzativo questo nuovo modello del lavoro? Alla luce dei dati appena pubblicati dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, abbiamo sentito il parere di alcuni esperti.

Lo smart working è una pratica aziendale e sociale che impatta e rivoluziona più dimensioni del lavoro: la prestazione, la cultura organizzativa, lo spazio-ufficio. In particolare, la prestazione passa “tendenzialmente” dal concetto di mansione da svolgere in presenza, secondo determinate procedure, alla cultura dell’obiettivo da raggiungere con una maggiore autonomia spazio-temporale e una maggiore responsabilizzazione individuale. La dimensione dell’ufficio si dilata nel cosiddetto “digital workplace”, dentro e fuori l’azienda, e l’organizzazione cambia per comportamenti, relazioni, comunicazione.
Negli ultimi anni, il lavoro agile ha preso piede anche in Italia soprattutto presso le grandi firme della consulenza, come Accenture e EY, nel banking e insurance, come Intesa Sanpaolo, Allianz a Citylife, Europe Assistance e Reale Mutua; delle Telco come Tim e Vodafone; dell’informatica come Sap, Oracle e Microsoft nella sua Microsoft House; dell’engineering come Maire Tecnimont a Porta Garibaldi e Bosch; nell’energia come Enel e nel food and beverage come Nestlé nel campus di Assago, Heineken e Coca Cola Hbc.







Benché ci siano interessanti progetti in corso che, come quelli citati, associano alla possibilità di lavorare in remoto anche il ripensamento degli spazi lavorativi, la diffusione in Italia è ancora lenta, è partita molto tempo dopo rispetto ai paesi anglosassoni e, di fatto, ci pone come fanalini di coda in Europa (“Working anytime, anywhere: The effects on the world of work”, studio condotto da Eurofound e Organizzazione Mondiale del Lavoro, 2015). Da questo studio in Italia solo il 7% dei lavoratori avrebbe la possibilità di sfruttare questa opportunità, contro il 37% dei danesi, il 33% degli svedesi, il 30% degli olandesi, il 26% degli inglesi e il 12% dei tedeschi. A onor del vero lo studio è precedente all’entrata in vigore della legge italiana 81/ 2017 che ha regolamentato lo smart working, dandogli un iniziale impulso (dal 36% delle grandi aziende nel 2017 al 56% nel 2018, con gli smart worker arrivati a 480mila con un +20% anche lo scorso anno) e introducendolo anche nelle prime aziende pubbliche. Ma restiamo comunque in fondo all’Europa, anche in questo senso.

Gli smart worker in Italia. Fonte Osservatorio della School of Management del Politecnico di Milano

 

Smart working: a che punto siamo?

Ora i dati appena pubblicati dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano ci danno un ulteriore aggiornamento. Sono il 58% le grandi aziende che hanno ormai avviato progetti di smart working, in lieve crescita rispetto al 2018, ma con un significativo aumento di maturità delle iniziative che hanno superato la fase di sperimentazione e vengono estese a un maggior numero di lavoratori. Circa metà dei progetti analizzati è ormai a regime e la popolazione aziendale media coinvolta passa dal 32% al 48%. Gli smart worker sono infatti cresciuti anche quest’anno del 20% rispetto al 2018, raggiungendo quota 570mila e sono mediamente più soddisfatti e coinvolti nel proprio lavoro rispetto agli altri colleghi che lavorano in modo tradizionale. Il 76% si dice soddisfatto della propria professione, contro il 55% degli altri dipendenti. Uno su tre (33%) si sente pienamente coinvolto nella realtà in cui opera (“engaged”) e ne condivide valori, obiettivi e priorità, contro il 21% dei altri colleghi.

Lo smart working nelle grandi aziende. Fonte Osservatorio della School of Management del Politecnico di Milano

Tra le pmi il fenomeno cresce, ma è ancora limitato: i progetti strutturati passano dall’8% dello scorso anno al 12% attuale, quelli informali dal 16% al 18%, ma aumenta sostanzialmente la percentuale di imprese disinteressate al tema (dal 38% al 51%). Le principali barriere dichiarate sono la non applicabilità alla loro organizzazione del lavoro (68%) e la mancanza d’interesse e resistenza da parte dei capi (23%). Nelle grandi imprese, invece, la resistenza dei capi la fa da padrona (50%), mentre sono a pari merito il timore per la sicurezza dei dati e la scarsa digitalizzazione (31%). Al contrario, i principali motivi di adozione dichiarati dalle imprese sono il miglioramento del work-life balance (78%), l’aumento di engagement e attrazione dei talenti (59%) e una nuova cultura del lavoro orientata agli obiettivi (43%). Tra i benefici riscontrati si confermano, anche se con percentuali più ridotte, il miglioramento dell’equilibrio fra vita professionale e privata (46%) e la crescita della motivazione e del coinvolgimento dei dipendenti (35%). Tra le criticità di gestione evidenziate dai capi, invece, le difficoltà nel gestire le urgenze (34%), nell’utilizzare le tecnologie (32%) e nel pianificare le attività (26%), anche se il 46% dei manager dichiara di non aver riscontrato alcuna criticità.

Lo smart working nelle pmi. Fonte Osservatorio della School of Management del Politecnico di Milano

 

Ma sono davvero flessibili le nostre aziende?

Siamo sicuri che nelle nostre organizzazioni ci sia tutta la flessibilità che la legge renderebbe possibile, o non si tende a istituzionalizzare lo stesso smart working, appiattendolo sulla possibilità di lavorare da remoto una giornata a settimana 9-18, soluzione che alla fine è la più frequente nelle imprese che hanno adottato una qualche forma di smart working? Salvo, in un caso su due, aver invece puntato molto di più sulla riorganizzazione degli spazi in chiave smart? Secondo i risultati dell’Osservatorio, la scelta più frequente sarebbe proprio quella dei 4 giorni al mese, un giorno a settimana, mentre solo in un quarto dei casi 8 giorni al mese (2 giorni alla settimana) e in un residuale, più avanzato, 10% di imprese non si pongono vincoli di presenza in azienda, come Microsoft o Maire Tecnimont che “impone” un solo giorno alla settimana in azienda per fare il punto sui progetti in corso. In particolare, le imprese con progetti avviati da meno di tre anni prevedono principalmente 4 giornate al mese (53%) o 2 (12%), mentre al crescere della maturità del progetto aumenta anche il numero di giornate contemplabili da remoto. Quanto al dove, il 40% permette di lavorare da qualsiasi luogo, ma l’opzione più diffusa è l’abitazione del dipendente (98%), seguita da altre sedi aziendali (87%), spazi di co-working (65%), luoghi pubblici (60%) e presso clienti o fornitori (56%).

Interno della Microsoft house sport hub progettata da Degw

«Stando così le cose, il lavoro agile in Italia rischia di essere più riconducibile a un servizio conciliativo di welfare aziendale, la giornata in cui si risparmia il tempo dello spostamento da casa all’ufficio e ritorno, che non associabile a una prospettiva di riorganizzazione del lavoro in termini davvero smart, orientata agli obiettivi e alla responsabilizzazione e autonomia dei dipendenti, commenta Luigi Serio, professore di Economia e gestione delle imprese all’Università Cattolica di Milano e direttore del master in risorse umane della Fondazione Istud, autore di “Medie eccellenti. Le imprese italiane nella competizione internazionale” (Guerini e Associati 2017). D’altronde, la classica giornata a settimana, volontaria e neanche sfruttata da tutti, forse è anche il modo più facile per orientarsi in un contesto di diritto del lavoro molto regolamentato, a costo di sacrificarne il potenziale smart.

«Limitare lo smart working a un aumento controllato di flessibilità interna, significa depotenziarne il valore e riportare al centro del processo di cambiamento l’unità di analisi “azienda”, protagonista individuale di un processo di crescita affaticato e minacciato dalla competizione internazionale», commenta «Mentre oggi ci sono numerose sperimentazioni che fanno perno su istituzioni hub, smart space di co-working come Copernico e Talent Garden, distribuiti in tutta Italia, in cui il lavoro smart diventa il tessuto connettivo su cui si innesta il potenziale di rete e in cui nuovi rapporti e nuove forme di distribuzione di conoscenza e valore si interconnettono all’interno dell’ecosistema (startup, grandi aziende, consulenti, pmi, incubatori universitari, centri di ricerca). Questi sistemi, formativi e aziendali, oggi competono a livello internazionale, fanno leva sul Made in Italy, ma si muovono in una logica di rete in chiave transnazionale. E sono i sistemi che stanno meglio, che sono osservati e studiati a livello internazionale e che attivano connessioni evolute e per certi versi sorprendenti in termini di combinazioni.»

Luigi Serio, professore di Economia e gestione delle imprese all’Università Cattolica di Milano e direttore del master in risorse umane della Fondazione Istud

Un fenomeno in crescita è infatti la nascita di “smart place”, pubblici e interaziendali, costituiti da spazi di co-working dove sorgono idee e progetti nuovi per startupper, liberi professionisti e anche dipendenti aziendali in giornate smart. È interessante notare come Bosch, per esempio, abbia delle postazioni fisse per i suoi lavoratori smart al Talent Hub di Torino e in un co-working di via Mecenate a Milano. Quando si lavora in remoto, infatti, non si è obbligati a stare a casa, ma grazie ai supporti tecnologici (rete, device, server aziendali in cloud, teleconferenze e skype) si ha più libertà, purché si rispettino le norme di sicurezza e, in molti casi, gli orari stabiliti dall’azienda.

«Per praticare davvero lo smart working occorre superare l’associazione che sia solo lavoro da remoto, ma interpretarlo come un percorso di trasformazione dell’organizzazione e della modalità di vivere il lavoro da parte delle persone», aggiunge Fiorella Crespi, direttore dell’Osservatorio Smart Working. «Sono ancora poche le organizzazioni che lo interpretano come una progettualità completa, che passa anche dal ripensamento degli spazi e da un nuovo modo di lavorare basato sulla fiducia e la collaborazione. Agire sulla flessibilità, responsabilizzazione e autonomia delle persone significa trasformare i lavoratori da ‘dipendenti’ orientati e valutati in base al tempo di lavoro svolto a ‘professionisti responsabili’ focalizzati e valutati in base ai risultati ottenuti. Fare Smart Working a un livello più profondo significa fare un ulteriore passo oltre, lavorando sull’attitudine e i comportamenti delle persone e promuovendo un pieno engagement per far sì che i lavoratori diventino veri e propri ‘imprenditori’ con un’attitudine all’innovazione e alla creatività».

Fiorella Crespi, direttore dell’Osservatorio Smart Working

Il rischio di ridursi a una pura pratica conciliativa è particolarmente evidente nella pubblica amministrazione, che ha avuto un primo slancio con l’entrata in vigore della legge nel 2017 e ha raddoppiato l’adozione dall’8% al 16% quest’anno, ma con un coinvolgimento di solo il 12% dei dipendenti, poco sopra il limite inferiore del 10% indicato dalla direttiva Madia. Il limitato livello di comprensione del pieno significato dello smart working in questo settore e la sua sostanziale associazione a un puro strumento di conciliazione, si deduce anche dal fatto che la selezione delle persone da coinvolgere è avvenuta principalmente in base alle esigenze familiari, come i rientri dalla maternità (70%) o la presenza di disabilità o familiari a carico (57%) e, solo in seconda battuta, tenendo conto delle caratteristiche delle attività svolte dal dipendente (57%).

«Raramente abbiamo riscontrato una implementazione basata su una visione strategica e sui principi chiave dello smart working, inteso come opportunità per digitalizzare i processi, ripensare l’organizzazione dal proprio interno e abilitare l’innovazione, interviene Massimo Palermo, country manager di Avaya, società specializzata in sistemi avanzati di comunicazione. «Nella gran parte dei casi infatti, nella nostra esperienza, lavorando nell’ambito di convenzioni pubbliche, questo ha comportato un processo di aggiornamento tecnologico dell’infrastruttura di comunicazione e collaborazione e una predisposizione per fornire servizi evoluti. Tuttavia, alcune hanno deciso di andare oltre gli obblighi normativi sperimentando lo smart working in modo esteso. In particolare, il Ministero Infrastrutture e Trasporti ha deciso di avviare un progetto per andare incontro alle nuove esigenze di flessibilità dei dipendenti e facilitare il processo di riorganizzazione delle sedi, mentre la componente tecnologica ha consentito alla Regione Liguria di continuare a fornire servizi ai cittadini nonostante le catastrofi naturali».

Sede Ibm Roma progettata da Degw Area relax

 

Smart Working: cosa serve, e cosa manca, per un approccio più maturo?

E poi, questa gestione più flessibile del tempo con la possibilità di organizzarsi in autonomia e quindi, almeno in linea teorica, una maggiore conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, come indicato dalle aziende come principale punto di forza (46%) e anche dai dipendenti (40%), è veramente vissuto sempre così? Siamo sicuri che tutti sappiano organizzarsi e vogliano lavorare più per progetto, che per mansione e che lavorino volentieri da casa? Non c’è il rischio che confini più labili tra vita aziendale e vita privata finiscano per invadere lo spazio privato, facendo lavorare di più e aumentando lo stress, anziché il benessere?

Di sicuro, un cambiamento così impattante sul modo di lavorare va accompagnato progressivamente e a più livelli, non potendo contando unicamente sul supporto tecnologico. «Lo smart working come riorganizzazione del lavoro non può applicarsi in modo deterministico, ma deve tener conto dei processi, della cultura e dei comportamenti delle persone in ciascuna realtà e della cosiddetta “employee experience”, spiega Adriano Solidoro, docente di Information Systems for Knowledge Management presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca, «Quindi richiede un intervento sulla leadership: fare empowerment delle persone (lavorare sull’aumento di consapevolezza delle capacità e potenzialità dei dipendenti, accompagnandoli con azioni di coaching e formazione dove necessario) e fornire loro gli strumenti metodologici e tecnologici per lavorare per risultati, che è un cambiamento di mindset non indifferente. Così, in tutto questo, il management ha delle precise responsabilità: potenziare la delega, uscendo da uno schema di controllo associato al potere e migliorare le proprie capacità comunicative, ascoltando, motivando anche a distanza e aggiungendo senso e contesto al flusso di informazioni».

Adriano Solidoro, docente di Information Systems for Knowledge Management presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca

Altrimenti, come sta accadendo, resta bassa l’adesione allo smart working anche tra chi ne avrebbe diritto: i senior preferiscono l’ufficio per status, i giovani per avere più visibilità. I dati del Polimi confermano questa paura dei dipendenti a essere tagliati fuori: le principali criticità indicate dagli stessi smart worker sono la percezione di isolamento (35%), le distrazioni esterne (21%), la difficoltà di comunicazione e collaborazione virtuale (13%) e la barriera tecnologica (11%).
Quanto alla confusione tra tempi di lavoro e tempi privati a causa della connessione costante, che potrebbe minare l’aumento di benessere promesso dallo smart working, è un rischio che esiste a prescindere dall’adozione o meno del lavoro agile, perché attiene all’uso indiscriminato che facciamo dei device mobili e della connessione H24.

«È un malcostume tutto italiano quello di scrivere mail e messaggi di lavoro a tutte le ore e aspettarsi la risposta immediata dai propri collaboratori. È un tema culturale importante: l’attenzione, la creatività, la produttività hanno bisogno di nutrirsi con lo svago e il riposo. Dovremmo imparare dal Nord Europa – aggiunge Solidoro – dove è un valore staccare tutti alle 17-18 e c’è solo demerito nell’estendere l’orario di lavoro, perché percepito come non capacità di organizzarsi. In Fastweb, che ha adottato lo smart working, sono rigorosi su questo punto. La giornata lavorativa si conclude per tutti alle 18, azienda che ha una cultura organizzativa piuttosto rara in Italia».

La diffusione dello smart working. Fonte Osservatorio della School of Management del Politecnico di Milano

La legge parla chiaro, stesso trattamento economico e normativo per i lavoratori agili, con “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, a favorire la crescita della sua produttività”. Produttività vuol dire lavorare in modo più efficace ed efficiente nello stesso numero di ore, o meno se si riesce, non in più ore perché si è a casa. Il tempo risparmiato nel trasferimento casa – ufficio, che non è retribuito, può essere usato per altro, come sbrigare commissioni personali, non per lavorare di più. Di fatto, se si tende a dilatare le ore dedicate al lavoro e se si tende a fare di più, magari per portarsi avanti, è una scelta personale, così come leggere le mail di lavoro la domenica sera.

Pro e contro dello smart working. Fonte Osservatorio della School of Management del Politecnico di Milano

Secondo il giuslavorista Francesco Rotondi, founding partner e managing partner di  LabLaw, non c’è neppure bisogno di regolamentare il diritto alla disconnessione, che è invece legge in Francia, in quanto già implicito nel nostro ordinamento del lavoro. Il suo ragionamento è che «se partiamo dal presupposto necessario che intendiamo “lavoro” il ricevere telefonate, e-mail e quant’altro, dobbiamo convenire che laddove fosse richiesta “fuori orario”, sarebbe anzitutto prestazione “straordinaria” e come tale non obbligatoria e a tale conclusione giungeremmo a prescindere dalla previsione di uno specifico diritto alla disconnessione del lavoratore. L’art. 1 del d.lgs. n. 66/2003, infatti, definisce l’orario di lavoro come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore e nell’esercizio della sua attività e delle sue funzioni”. Va da sé che l’attività normativa o delle parti sociali tesa a vietare e/o limitare la “connessione” al di fuori del proprio orario di lavoro, non fa altro che vietare ciò che è già da tempo ampiamente vietato, ossia la richiesta di una prestazione non prevista dalle regole contrattuali e, come tali, non giuridicamente esigibile». Con buona pace di chi invoca il diritto alla disconnessione. Ce l’abbiamo già.














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