Non sprechiamo la grande occasione del Recovery Fund

di Aldo Agosti ♦︎ Secondo l’economista e storico della Bocconi Andrea Colli è necessario usare i fondi per guardare al futuro, rinunciando allo statalismo. Ma non sarà facile

Diciamo la verità, 209 miliardi di euro in una volta sola, o quasi, non capitano tutti i giorni. Il momento è di quelli eccezionali e dall’Europa è arrivata una risposta altrettanto eccezionale. E allora perché non cogliere l’occasione per immaginare una rifondazione della politica industriale, da troppo tempo dimenticata?

L’industria italiana vive la sua notte più lunga, alle prese con il crollo della domanda interna e con una nuova ondata di semi-lockdown nei principali mercati di sbocco. Una combinazione micidiale, quasi letale, per un Paese che da anni vanta un avanzo commerciale vicino ai 50 miliardi, vendere i propri prodotti all’estero è pressoché fondamentale. Ecco che salire sul treno del Recovery Fund non basta se non ci si dota di una buona macchina. Tutto il carburante del mondo non basterebbe a far camminare un’auto con un motore malandato. Due numeri. In questo ventennio il ritmo di espansione si è via via affievolito (era il +1,8% nel 2010) e l’inflazione è passata dal 2,2% del 2000 all’1,8% del 2010, mentre quest’anno dovrebbe fermarsi poco sopra soglia zero (0,2%). In calo gli investimenti, dal 20,8 del Pil del 2000 al 18% del 2018, mentre resta alta la quota di risparmi, stabile sopra il 20% del reddito nazionale. Insomma, politica industriale cercasi. Industria Italiana ha interpellato in merito Andrea Colli, economista, autore di saggi sull’industria e professore ordinario di Storia Economica all’Università Bocconi.







 

D. Colli, mettiamola in questo modo. Il Recovery Fund è ormai alle porte, sono comparse le ormai famose linee guida del governo. La nostra politica industriale ha a questo punto un’occasione unica di rilancio. Da dove ripartire?

Andrea Colli, economista, autore di saggi sull’industria e professore ordinario di Storia Economica all’Università Bocconi

R. Innanzitutto va chiarito da dove non ripartire. Va evitato l’utilizzo dei denari del Recovery Fund per attivare politiche di breve termine e remunerazione elettorale – come ad esempio per abbassare le tasse su persone fisiche e per introdurre agevolazioni fiscali. Questo non significa che una politica fiscale non vada posta al centro dell’azione di governo, ci mancherebbe. Ma non vanno mescolate le cose. Il Recovery Fund non va neppure utilizzato per risanare delle situazioni di crisi aziendale endemica.

 

D. Si spieghi.

R. Certo. Un conto è sostenere aziende importanti danneggiate dall’emergenza Covid-19. Un altro è nascondersi dietro un dito, e utilizzare i denari del Recovery per salvare l’ennesima volta Alitalia, o evitare di chiudere il dossier Ilva, o in generale finanziare le pulsioni stataliste del Governo i carica.  I denari del Recovery Fund vanno impiegati invece per investimenti decisamente inusuali per un sistema politico abituato a orizzonti di breve o brevissimo termine. Al centro ci deve essere il tema infrastrutture, in particolare di comunicazione, e la loro modernizzazione. Compiendo non poche forzature, il governo si è impossessato delle Autostrade, e sta ipotecando un controllo importante sulla rete in fibra. Che si investano risorse dunque in questa direzione. L’altra infrastruttura da potenziare è quella formativa, ovvero il sistema scuola-università. Infine, va sviluppata una rete di istituti di ricerca che siano in grado di attrarre i Italia talenti stranieri e talenti italiani di ritorno.

 

D. L’Italia è la seconda manifattura d’Europa. Come cambierà secondo lei il nostro sistema produttivo dopo la pandemia?

R. Secondo me la pandemia è un fatto rilevante ma non va esagerato il suo impatto. Le dinamiche in atto che andranno a impattare sul sistema produttivo italiano erano già in atto prima della pandemia e continueranno a dispiegarsi anche dopo che l’emergenza sarà passata.

 

D. Addirittura. Di quali dinamiche parla?

I lavori iniziati da ArcelorMittal Italia all’ex Ilva di Taranto

R. In particolare, un sistema manifatturiero di trasformazione ed inserito pienamente nell’economia globale come è quello italiano è per natura direttamente influenzato dai grandi cambiamenti che vanno investendo il sistema economico internazionale sotto la pressione dei rivolgimenti politici e geopolitici in corso. L’illusione di un’Italia che basti a se stessa, cara a una certa retorica populista e sovranista, si scontrerà a breve con il mutamento di clima nelle relazioni internazionali e nel sistema di regole e istituzioni che consente il funzionamento dell’economia mondiale. Le imprese di punta del nostro Paese sono campioni globali in nicchie specializzate e possono funzionare bene solo in un sistema in cui al commercio globale è consentito di funzionare senza frizioni particolari.

 

D. Si dice spesso che il nostro Paese manchi da tempo di una vera politica industriale. Mi spiega che cosa è successo?

R.L’ultimo atto di politica industriale in questo Paese è stato all’epoca della grande stagione delle privatizzazioni nel corso degli anni Novanta. Giusto o sbagliato che fosse privatizzare, almeno in quella fase fu individuato un programma e furono disegnate delle regole che avrebbero consentito, almeno sulla carta, di modernizzare il sistema produttivo nazionale, al contempo tentando di attirare capitali e tecnologia dall’estero. Successivamente a ciò, però, ha prevalso una impostazione differente, che partiva dall’idea che l’Italia non avesse bisogno di una politica industriale perché tanto funzionava bene anche senza, con l’imprenditorialità creativa e ruspante dei distretti. L’impatto della globalizzazione ha mostrato che invece così non è e che son stati persi anni preziosi in cui si sarebbe potuto rafforzare invece il comparto di grande impresa.

 

D. Bel guaio per un Paese del G7…

R. Sì. E pensare che sin dall’inizio del secolo il Paese può vantare nel suo apparato produttivo l’industria elettrica, la siderurgica, la meccanica pesante e di assemblaggio veloce, parte della chimica, tutti settori al cui interno nascono imprese che rapidamente si collocano in posizione dominante e tali restano in larga misura, pur attraverso svariati cambiamenti sul piano societario, sino ai nostri giorni. Ciò che tuttavia differenzia l’Italia dalle nazioni d’avanguardia è l’attiva presenza nel processo di modernizzazione economica della banca universale e soprattutto dello Stato.

 

D. Ilva, Rete unica, Alitalia e Autostrade. Quattro asset prossimi ormai a tornare nelle mani dello Stato. Ammettiamo che sia tornato lo Stato padrone, è un bene o un male?

R. Bene o male è difficile dirlo. Dipende. Il ritorno dello Stato imprenditore non è un male se viene fatto tesoro delle lezioni del passato e da subito si evita il riprodursi di una gestione delle imprese finalizzata a obbiettivi politici e di efficienza economica. Sembra un ragionamento ovvio che però ovvio cessa di essere quando si sentono dichiarazioni contraddittorie, come quella che auspica una riduzione delle tariffe autostradali in presenza di una necessità di incremento degli investimenti e nello stesso tempo della necessità futura di remunerare azionisti retail e fondi.

 

D. Abbiamo citato Autostrade. A quale modello di società andiamo incontro?

Luciano Benetton, uno degli azionisti di riferimento di Edizione Holding, capofila della catena di controllo di Autostrade

Un nuovo modello fatto di piccoli azionisti, fondi, e proprietà pubblica. Non è detto che sia un male, per carità. Se i fondi, pur in posizione di minoranza relativa, sono in grado di esercitare un monitoraggio efficace, imponendo la scelta di un management professionale, efficiente, slegato dalle pressioni politiche, questo farà il bene della nuova Autostrade. Resta, però, da vedere come si riusciranno a conciliare le esigenze di ritorno sugli investimenti dei fondi, e quelle di una giusta remunerazione degli azionisti di minoranza, con le necessità di un proprietario che invece dichiara che taglierà i pedaggi. Insomma, o i pedaggi caleranno (e allora subiranno i piccoli azionisti), oppure non caleranno (e allora saranno presi in giro i cittadini) – che, gira e rigira, sono sempre gli stessi soggetti.

 

D. Colli, una conclusione. L’Italia quest’anno perderà il 10% del suo Pil o poco meno. Cinque azioni improrogabili per ripartire, subito.

Domanda da milioni di dollari (o di euro).

  1. Investire in infrastrutture di cui al punto primo.
  2. Attrarre capitali esteri senza timore, spianando loro la strada e snellendo le pratiche burocratiche
  3. Interrompere gli interventi pubblici a “gamba tesa” fornendo agli investitori privati, italiani e esteri, certezze
  4. Facilitare l’uscita dei lavoratori anziani facilitando i giovani, attraverso un sistema di incentivi alle imprese
  5. Aprire un tavolo serio di politica industriale per pianificare i prossimi 10-15 anni.

[Ripubblicazione dell’articolo del 2/10/2020]














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