In realtà i fondi UE rimangono… nei forzieri!

di Laura Magna ♦︎ I 209 miliardi che arriveranno nelle casse dell’erario devono essere impiegati tutti. Una tendenza che finora non si è mai vista. Dei 75 miliardi stanziati per il periodo 2014-2020, ne sono stati impiegati meno del 70%. Paghiamo anche la cronica carenza di investimenti in Ict: anche i recenti 800 milioni non bastano a coprire le esigenze di un settore trainante. La parola al professore della Bocconi Francesco Daveri

Il Recovery Fund è una grande occasione di rilancio, che l’industria italiana non può permettersi di perdere. Anche se il rischio è che si usi per pagare progetti di innovazione di aziende leader, che li farebbero comunque. Mentre l’obiettivo da perseguire sarebbe quello di spingere anche le imprese meno innovative a investire. Ma per Francesco Daveri, economista professore della Bocconi, non c’è dubbio: meglio allargare le maglie e fare una distribuzione a pioggia dei fondi europei. Anche a rischio che vadano solo a ripianare le perdite senza produrre reale sviluppo, che essere troppo selettivi e vedere fallire interi settori industriali.

I nuovi incentivi per la trasformazione digitale dovrebbero però integrare meccanismi che tengano conto della particolare situazione congiunturale. Ovvero modi – diversi dall’iper ammortamento e dal credito di imposta – per incentivare anche le aziende che, a causa del Covid, non fanno più profitti. «Si possono scontare le tasse», dice Daveri. «Un fatto è certo, non è il momento di andare per il sottile, bisogna agire e farlo in fretta e usare questa opportunità, probabilmente unica, di rilancio».







 

Le aziende che innovano poco rischiano di restare escluse

Francesco Daveri, professore di Macroeconomia alla Bocconi e direttore dell’Mba della Sda Bocconi School of Management. Foto di Niccolò Caranti

Il Recovery Fund ha una capacità di 750 miliardi di euro, di cui 209 destinati all’Italia (82 miliardi di sussidi e 127 di prestiti). Come li userà l’Italia è scritto nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, in cui ci sono però poche sorprese. «Per quanto riguarda la trasformazione digitale dell’industria, il piano italiano non contiene grosse novità rispetto agli incentivi già in essere: l’idea è di premiare le imprese che vogliono dotarsi di beni strumentali, con quella che sembra una nuova Sabatini bis; o concedere il credito di imposta sull’acquisto di tecnologie abilitanti, che è esattamente l’ultimo pacchetto Transizione 4.0. Sono appunto strumenti che già esistono e coprono sempre la stessa platea di imprese: il rischio è dunque che aderiscano a queste iniziative quelle aziende che l’hanno già fatto e che lo avrebbero fatto comunque, a prescindere dalle risorse disponibili».

Rischia cioè di restare tagliata fuori tutta la schiera delle aziende follower, le pmi meno innovative che non stanno al passo con la trasformazione digitale e che sono state anche le più colpite dalla pandemia. «Le imprese non investono nell’incertezza. E oggi vivono una situazione in cui i profitti sono scomparsi: pur volendo non potrebbero beneficiare di crediti di imposta su imposte che non pagano, in assenza di redditi».

 

Non possiamo correre il rischio di non usare i fondi europei

Però, anche considerando tutto questo non si può andare troppo per il sottile, perché «in cima alla lista delle preoccupazioni c’è quella che i fondi possano essere in qualche misura sprecati ovvero non utilizzati, come d’altronde accade da decenni in Italia rispetto ai finanziamenti europei. Solo che stavolta non possiamo permettercelo». I dati della nostra cronica incapacità di usare i fondi europei sono noti: a fine 2017 l’Italia era riuscita a spendere solo il 9% dei 75 miliardi destinati al Paese per il periodo 2014-2020. A fine 2018 era arrivata a utilizzarne il 23% e a destinarne il 68%, ma non aveva usato ancora il Fondo sociale europeo e Fondo europeo di sviluppo regionale (17,4 miliardi per il lavoro di Neet, over 45 e donne e altri 33,5 per sostenibilità e pmi, R&S e scuole).

Un ritardo che oggi rischia di farci perdere parte dei finanziamenti. Allora, resta legittima l’istanza di chi auspica che il Recovery Fund finanzi progetti aggiuntivi rispetto allo status quo e acceleri la capacità di investimento e innovazione del Paese. Ma in questo momento è davvero complesso fare una distinzione efficace tra progetti vestiti a festa e progetti realmente ex novo, «per cui allargando le maglie è vero che a beneficiarne saranno sempre gli stessi, ma nell’onda è possibile che sia travolto qualcun altro. Ed è un bene in ogni caso».

Gli obiettivi del Piano di Rilancio

Il ritardo italiano in termini di investimenti in Ict

Perché l’Italia è in profondo ritardo in termini di investimenti in innovazione. Alcuni dati che misurano questo ritardo sono contenuti nel primo Rapporto sulla ricerca e innovazione ICT in Italia, pubblicato a metà ottobre da Anitec-Assinform (Associazione per l’Information and Communication Technology di Confindustria). Secondo il rapporto le imprese italiane dell’Itc hanno investito in R&D 2,6 miliardi di euro nel 2018 (+6,4% sul 2017), insufficienti a compensare il gap dell’Italia rispetto al resto d’Europa. Gli investimenti in tecnologia ammontano allo 0,15% del Pil, rispetto allo 0,21% della Germania e allo 0,22% della media Ue.

Sono insufficienti anche i fondi pubblici: 801,7 milioni di euro, oltre il 26% in più rispetto al 2017, di cui circa la metà alle imprese Ict e il resto al complesso dell’economia. Ed è proprio il complesso dell’economia a restare indietro: i fondi in R&D nell’Itc tra il 2016 e il 2018 sono aumentati in media del 5,5% all’anno, rispettando l’Agenda Digitale Europea, mentre quelli relativi agli investimenti delle aziende utilizzatrici di Itc di ogni settore industriale è piatto, segnando un tasso medio annuo di -0,1%. Per stare al passo con la media Ue mancano 3,5 miliardi di investimenti privati e almeno 500mila di investimenti pubblici.

Spesa R&S nelle imprese del settore ICT e in tutti i settori in Italia 2007-2018 %. Crescita annua. Fonte: Istat Settembre 2020

Una proposta per incentivare con il Recovery Fund anche le pmi poco innovative

Ciò detto sfruttare bene i fondi di Next generation Ue vuol dire «usarli per la trasformazione digitale e anche ampliare la platea dei beneficiari potenziali. Perché solo se si allarga la platea se ne avvantaggia la capacità dell’economia di innovare e crescere». D’altro canto un effetto simile si ottiene in ogni caso perché «fornire sgravi ad aziende di successo può generare comunque un beneficio in termini di sostegno al made in Italy in un momento di crisi economica e con la concorrenza internazionale che è molto serrata. Certamente è legittimo che si valuti anche l’impatto sociale di questo sforzo».

Allora diventa necessario fare un altro passaggio, ovvero escogitare metodi per contribuire anche alla ripresa delle imprese in rosso. «Non è facile fornire supporto all’innovazione secondo canoni tradizionali in un contesto in cui tutte le regole classiche sono scomparse e dopo due trimestri di colo a picco del Pil – conclude Daveri – Si potrebbe pensare di scontare il pagamento di contributi, consapevoli che in un momento in cui non ci sono profitti rischia di essere trasferimento delle risorse per ripianare le perdite, un’operazione di grande salvataggio».














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