Recessione: l’industria vittima della sindrome Tafazzi?

di Marco de’ Francesco ♦ È ufficiale: con il calo dello 0,2 % nel quarto trimestre 2018 sancito dall’ Istat, il Paese sta ingranando la marcia indietro. Le politiche sbagliate sull’automotive in Europa e in Italia, la guerra dei dazi Usa-Cina, il nostro debito, la debolezza del mercato interno e la riconferma solo parziale dei provvedimenti 4.0  rischiano di mettere ko un settore in ripresa. Come la vedono Castro, Fortis, Dal Poz e Beltrametti

È probabilmente vero, come attestato dal Fondo Monetario Internazionale, che incombe un rallentamento dell’economia a livello globale; ed è senz’altro vero che l’Italia, gravata da un eccesso di debito sovrano, rappresenta un pericolo per se stessa, a causa dei possibili riflessi sull’attività bancaria e quindi sui crediti, e per l’Eurozona, visto che potrebbe suscitare episodi di rischio generalizzato. La nostra crescita è stata ridotta per l’anno in corso allo 0,6% appunto dal Fmi. D’altra parte il premier Conte anticipando i risultati dell’analisi dell’Istat ha confermato che anche il quarto trimestre dello scorso anno, come il terzo, è in calo. Siamo, ufficialmente, in recessione tecnica. Non solo: l’ Istat ha detto che il calo al quarto trimestre è stato pari allo 0,2%. E’ il peggior risultato negli ultimi 5 anni.

Ma è anche vero, secondo diversi osservatori, che in Europa e in Italia «ci siamo fatti del male da soli». Colpendo al cuore l’industria, e in particolare l’automotive. Con un peccato di hybris soprattutto da parte dei tedeschi, che secondo l’ex direttore scientifico del Master della Business School Cuoa Maurizio Castro si sono intestati la battaglia dell’elettrificazione quando loro stessi erano in ritardo, e con lo zelo europeo sulle emissioni di Co2 che ha di fatto messo al tappeto linee produttive di carmaker e componentisti, anche di settori diversi. Poi ci si è messo anche l’esecutivo nazionale, con un’ecotassa che rischia di colpire anche l’italica produzione.







 

Il peresidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte ha anticipato i dati dell’ Istat parlando di recessione di fronte agli industriali di Assolombarda

 

Ed è probabilmente vero che  l’industria europea rischia a causa della recessione cinese o dei dazi che Trump intende estendere all’automotive, dopo aver colpito acciaio e alluminio. Ma è senz’altro vero che i Paesi europei non stanno giocando una partita cooperativa, pur essendo evidente a tutti che soluzioni al problema possono essere solo di portata continentale. Senza una posizione europea che favorisca i carmaker del Vecchio Continente, non si può superare il momento. Che in Italia è particolare: attualmente, sono caduti in sofferenza molti comparti industriali, come le attività estrattive, la plastica, la chimica, i mezzi di trasporto, la metallurgia, i macchinari, e altri. Un ulteriore rallentamento forse ci sarà, e quei settori che hanno i conti risicati potrebbero soffrire molto. Anche perché alla flessione globale va associata la cronica debolezza della domanda interna, che è poi la causa della scarsa crescita del Paese. L’industria, infatti, va assolta: numeri alla mano, la produttività delle aziende italiane sopra i 50 dipendenti, quelle che fanno quasi tutto l’export e quasi tutto il fatturato industriale, è più alta di quella delle aziende dei Paesi concorrenti. Ne abbiamo parlato con Maurizio Castro, con i docenti in materie economiche Marco Fortis e Luca Beltrametti, e con il presidente di Federmeccanica Alberto Dal Poz.

 

Christine Lagarde,Direttore Operativo del Fondo Monetario Internazionale (photo by MSC)

Sorvegliati speciali

C’è più di un accenno dedicato all’Italia nell’ultimo report del Fondo Monetario Internazionale, quello relativo all’outlook per il 2019. Se ne parla soprattutto in un capitoletto concernente i sentiment dei mercati finanziari. La preoccupazione per la politica fiscale italiana è considerata uno degli elementi, al pari dello shutdown a stelle e strisce, che hanno contribuito alla diminuzione dei prezzi azionari durante la seconda metà del 2018. Su scala globale. Ora, sempre secondo il Fondo, rischiamo di diventare uno dei fattori in grado di compromettere la crescita globale, scatenando episodi di rischio generalizzato. Perché? «Gli spread italiani si sono ridotti rispetto ai picchi di ottobre-novembre ma rimangono alti – si legge nel documento -: un protratto periodo di rendimenti elevati metterebbe ulteriormente l’accento sulle banche italiane, peserebbe sull’attività economica e peggiorerebbe la dinamica del debito».

Che è un debito consistente, in grado in influenzare le borse e i mercati. Secondo Bloomberg «le banche francesi e tedesche detengono più di 400 miliardi di dollari di debito italiano, rispetto ai 115 di debito greco all’inizio della crisi di quel paese nel 2010». Pertanto agli occhi del mondo, non solo siamo un Paese a rischio, ma soprattutto una possibile fonte di guai. Anzi, per Bloomberg i guai italiani potrebbero far passare all’Europa un annus horribilis. Quanto a noi, alla fine il Fondo ha deciso di rivedere le stime della crescita. Per la verità, le proiezioni sono al ribasso per il mondo intero, passando dal 3,7% al 3,5%; e per l’area euro, dall’1,9% all’1,6%. Altre economie avanzate sono colpite, soprattutto la Germania (dall’1,9% al 1,3%); ma solo l’Italia, tra i Paesi con un qualche peso, finisce così in basso: dall’1% allo 0,6%.

In realtà non è una novità. Goldman Sachs e   Oxford Economics avevano già ridotto la percentuale, e anche di più, rispettivamente allo 0,4% e allo 0,5%. La Banca d’Italia l’aveva già fissata allo 0,6%. Si sa che tutte queste valutazioni non sono state prese seriamente dal governo italiano. Va detto che prima di fissare la soglia dell’1%, il governo aveva previsto l’1,5%. «Non ci credeva nessuno – afferma Dal Poz – e quando abbiamo fatto presente che si trattava di previsioni irrealistiche, ci hanno tacciato per gufi». Comunque sia, secondo il ministro all’economia, Giovanni Tria, «il rischio sono le politiche consigliate dal Fondo Monetario Internazionale». Resta il fatto che, se le previsioni di Fmi si avverassero, uno 0,4% in Pil di meno significano 6,9 miliardi di Pil in meno. È stato osservato che, considerata una tassazione pari al 43%, ciò significa che le entrate dello Stato saranno minori per circa 2,9 miliardi, che vanno sommati ai 23 per le clausole sull’Iva. Pertanto, già si parla di manovra correttiva per il 2019. Va ricordato che la produzione industriale italiana è crollata a Novembre del 2,6% su base annua. Ma il tema, per Industria Italiana, si declina così: che rapporto c’è tra la crisi e l’industria? E quali conseguenze potrebbe avere la crisi sull’industria?

 

Per il Ministro Giovanni Tria “il rischio sono le politiche consigliate dal Fondo Monetario Internazionale”

L’industria italiana è più vittima che carnefice

In genere, dal 2008, tra le ragioni della crisi si tira in ballo l’industria. Si parla di arretratezza, di scarsa produttività. «È il cavallo di battaglia del declinismo – afferma il docente di economia industriale alla Cattolica di Milano Fortis – ma è poi vero? Secondo me no: le fabbriche sopravvissute alla crisi mostrano una produttività molto alta. D’altra parte, potrebbe essere diversamente? Ci sono aziende piccole, con fatturati da 50 a 100 milioni di euro, che hanno fatto investimenti enormi in tecnologie di processo, relativamente alle proprie dimensioni. Basta entrarci: si può trovare un solo tecnico che controlla una decina di robot industriali. Sono così efficienti che potrebbero fare concorrenza alle migliori aziende cinesi». In effetti, secondo i dati Oecd (organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) la produttività delle aziende italiane è bassa – equivalente a quella spagnola – per le imprese tra uno e 9 dipendenti; ma è più alta di quella francese, britannica e tedesca se si considerano le classi dimensionali da 50 a 249 dipendenti e oltre i 250 occupati. Quelle che fanno la stragrande maggioranza della produzione industriale e dell’export.

 

Fortis
Marco Fortis: “ciò che non consente al Paese di decollare è la lentezza del settore dei servizi pubblici, ed altre cose.”

 

E poi tra le piccole aziende, molte sono microattività legate alla persona; pertanto non ci si può attendere chissà quale crescita. «Affermare che la nostra crescita è limitata perché l’industria non cresce è un errore – continua Fortis -. In un certo senso, anzi, l’industria italiana sopravvissuta alla crisi del 2008 ne è uscita rafforzata. Tra quell’anno e il 2013 abbiamo perso pezzi, ma si trattava di imprese marginali. Certo, parallelamente c’è stata la crisi dell’edilizia, che ha creato problemi ai produttori dei materiali per l’edilizia e a settori contigui, come il Bianco. Ma le aziende industriali rimanenti ne sono uscite a tassi galoppanti: nel triennio 2015-2017 la crescita è stata del 10%. Per la verità anche il turismo e il commercio sono cresciuti». Ma allora, perché l’Italia cresce meno degli altri Paesi?

«Credo di non avere dubbi – afferma Fortis – nell’affermare che ciò che non consente al Paese di decollare è la lentezza del settore dei servizi pubblici, ed altre cose. Le banche, le assicurazioni, fanno pochi profitti. Con l’home banking gli sportelli chiudono, e gli impiegati vanno a casa. Non hanno più capacità di spesa. Anche i professionisti sono stati travolti dalla crisi del 2008 e non si sono mai ripresi. Si pensi agli ingegneri e agli architetti, legati a doppio filo con la crisi del mattone. È il mercato interno a fare fatica, è la domanda interna che è ferma». Anche il Centro Studi di Confindustria lo sottolinea: «Dopo la flessione sia dei consumi sia degli investimenti nel 3° trimestre, si conferma l’attesa di una dinamica fiacca anche nel 4°. In particolare, le valutazioni sugli ordini interni dei produttori di beni di consumo e di beni strumentali sono meno favorevoli, le vendite al dettaglio sono sostanzialmente piatte negli ultimi mesi, le immatricolazioni tendenzialmente in flessione. Inoltre, la riduzione della ricchezza finanziaria delle famiglie, a causa della discesa dei prezzi delle attività, potrebbe accentuare la già cresciuta prudenza nella spesa; ma il greggio meno caro aiuta».

 

palazzo confindustria
Il Centro Studi di Confindustria “la riduzione della ricchezza finanziaria delle famiglie, a causa della discesa dei prezzi delle attività, potrebbe accentuare la già cresciuta prudenza nella spesa”. Nella foto , la sede di Confindustria, Viale dell’ Astronomia, Roma

L’Europa e l’Italia si stano facendo del male da sole

Quali effetti sull’industria? Si assiste, attualmente, a quello che Dal Poz chiama «il rallentamento della fase espansiva», con tendenza alla recessione. Tra le ragioni, anzitutto la questione dell’automotive. Castro la definisce «un peccato di hybris da parte dei Tedeschi, che ha determinato un rischio enorme per l’Europa. In generale, nel Vecchio Continente ci siamo fatti del male da soli. E non capisco perché i tedeschi, invece di fare la guerra all’elettrificazione dell’auto, si siano intestati la causa. L’elettrico è un prodotto completamente diverso dal termico, è un vero cambiamento di paradigma; comporta competenze differenti, sulle quali in Europa siamo molto indietro. E non è detto che chi era bravo nel vecchio mondo lo sia anche nel nuovo. Sono molto perplesso: il rischio è che anche altri carmaker possano vacillare sull’elettrico, come ad esempio Fca, perché ci si va a scontrare con la qualità già presente in altre parti del mondo».

 

Maurizio Castro, direttore scientifico del Master della Business School Cuoa

 

Secondo Dal Poz, «il rallentamento dell’auto è iniziato nel 2018, con i nuovi, stringenti regolamenti europei sulle emissioni di anidride carbonica e quelli internazionali sull’omologazione dei veicoli (sul punto, si consiglia la lettura di questa intervista  di Industria Italiana al vice presidente di Alix Partners Stefano Aversa). Il fatto nuovo è che queste normative, a fronte della paralisi dei produttori, hanno generato il blocco delle linee dei componentisti, dei fornitori di primo e di secondo livello. In un certo senso, siamo riusciti in Europa, forse per la prima volta nella storia industriale del continente, a bloccare ex lege la produzione. Eppure tutti sapevano che i tempi del riallineamento al verde e all’elettrico e quelli della produzione non coincidono sul breve». Da noi, poi, sempre secondo Dal Poz, anche il governo ha fatto la sua parte.

«L’ecotassa! – continua Dal Poz -: qualcuno ha sbagliato Paese. Non siamo la Norvegia, dove la mobilità elettrica sta soppiantando quella fossile. È stato scorretto, da un punto di vista tecnologico, agevolare l’elettrico a scapito di vetture tradizionali. Non si è tenuto conto dei processi, e si è generata una grande incertezza sul mercato». Altro motivo di forte preoccupazione è la flessione del mercato cinese. «La crescita al 6,2% indicata dal Fondo è più bassa delle aspettative. Potrebbe calare, per le aziende cinesi, il fabbisogno di componentistica europea». Ancora, la questione dei dazi.

 

Alberto Dal Poz, Presidente Federmeccanica

«Non preoccupa solo la guerra dei dazi tra Usa e Cina, i due colossi dell’economia mondiale. Il presidente Donald Trump ha infatti affermato che valuterà il rischio nazionale derivante dalla diffusione nel mercato Usa di auto non europee. Se così fosse, sarebbe un guaio grosso per i produttori del Vecchio continente, e a cascata per le aziende di componentistica. Gli Usa, come con l’acciaio e l’alluminio, potrebbero puntare a colmare per legge il gap con l’industria europea, colpendo i prodotti più competitivi». Secondo Bloomberg, c’è del resto un’alta probabilità che «gli Stati Uniti aumentino le tariffe sulle importazioni di auto, innescando una vera e propria guerra commerciale con l’Europa. Il G-20, reso impotente dall’aumento del nazionalismo, perderà rilevanza». Infine, le difficoltà di ordine valutario. «Riguardano anzitutto Turchia e Argentina. Preoccupa soprattutto il primo Paese, che produce elettrodomestici e auto. Una crisi turca potrebbe causare problemi».

Prospettive per l’industria italiana

Serve la coerenza del governo e una reazione europea sull’automotive. Secondo il docente di politica economica all’università di Genova Beltrametti, al di là degli effetti inevitabili di una crisi europea, e al di là delle vicende, come quelle sui dazi, che sono in capo al presidente degli Stati Uniti, «ci saranno sempre aziende nostrane forti e capaci di competere; ma bisogna fare i modo che la pattuglia dei resistenti si ampli. Invece, si nota sul punto un clima di indifferenza da parte del governo. L’atteggiamento dell’esecutivo è importante. Mi preoccupa, ad esempio, la rimodulazione degli incentivi al 4.0, che ora sembrano premiare le piccole aziende. Mi sembra che ci sia un pregiudizio contro le imprese medie e grandi, che invece premiano l’innovazione e il merito. Nelle piccole spesso avanza il figlio del fondatore. Bisogna fare in modo che aziende di qualsiasi dimensione convivano nello stesso sistema. Vedo in questa scelta sul 4.0 qualcosa di dannoso per l’economia italiana».

 

Maserati, fabbrica di Grugliasco
Beltrametti: “occorrerebbe una posizione europea coesa sull’automotive”. Nella foto la fabbrica Maserati di Grugliasco

 

Sempre per Beltrametti, per evitare danni, occorrerebbe una posizione europea coesa sull’automotive. «Negli ultimi dieci anni il mercato dell’auto è cresciuto del 33% nel globo, ma la produzione europea è calata del 2%. La produzione europea di auto è scesa in 10 anni dal 27% di quella totale al 20%. Questo è lo scenario da avere in mente. L’industria, la manifattura europea è connessa, dobbiamo giocare una partita cooperativa invece di fomentare polemiche inutili e faziose. In particolare, quelle contro la Francia che colonizza l’Africa sono anacronistiche». Tanto ci si giocherà sull’automotive. «L’Europa è particolarmente vulnerabile – continua Beltrametti -: siamo indietro con le nuove tecnologie digitali, e il car-sharing è destinato ad aumentare perché oggi le tecnologie ne consentono la diffusione. Dunque la domanda è destinata a calare in modo strutturale. Certo, la Germania, in un contesto in cui le auto sono commodity e in cui si salva la nicchia medio-alta, è molto esposta; ma bisogna evitare il gioco di tutti contro tutti e fare il gioco di squadra. Non bisogna cedere a tentazioni sovranistiche, perché i dati ci dicono che non funziona. Il Italia ci siamo persi la fase espansiva che ha riguardato tutto il mondo nell’ultimo decennio, e ora con il rallentamento siamo ancora più fragili. Se l’Europa non prende posizione, potrebbero avverarsi tristi presagi».

Secondo Fortis, «molti settori industriali rischiano di essere colpiti. Non solo l’automotive e la manifattura. Il primo, di per sé, è collegato ad altri, come quello della plastica. Ma la verità è che stanno rallentando anche comparti che da tempo crescono a due cifre, come la farmaceutica. Anche gli alimentari per ora si salvano. Ma in questo momento, dal punto di vista della produzione, stanno soffrendo il legno, le attività estrattive, la plastica, la chimica, i mezzi di trasporto, la metallurgia, e anche i macchinari, il tessile, l’elettronica i prodotti petroliferi. Certo, quei settori che hanno i conti risicati, come il tessile, rischiano molto di più».

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La lente di ingrandimento delle agenzie internazionali

Un atteso fuoco di fila sui conti italiani. Si comincia i 22 febbraio, ricorda Il Sole 24 Ore, quando «Fitch rivedrà i rating per l’Italia, attualmente fissato a BBB con out look negativo». Il 5 marzo la Banca d’Italia diffonderà «la stima sui conti pubblici italiani relativi al 2018». Saranno presi in considerazione sia il deficit che il debito pubblico. Il 15 marzo, sempre secondo il noto quotidiano economico, Moody’s, che già ha tagliato il rating da Baa2 a Baa3, si occuperà appunto della revisione del rating sovrano. Il 10 aprile il governo presenterà il Def, e cioè il documento di economia e finanza aggiornato alle nuove stime. Per il 26 dello stesso mese è atteso io rating di Standard & Poor’s. Il 30 l’Istat renderà nota la stima preliminare del Pil relativo al primo trimestre dell’anno in corso, mentre la prima settimana di maggio sarà la Commissione europea a diffondere le previsioni economiche di primavera. Infine, ricorda ancora Il Sole 24 Ore, il 31 maggio arriverà la stima definitiva concernente sempre il primo trimestre.

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