Recessione in arrivo? Sarà l’industria italiana a pagare il conto per tutti?

di Marco de’ Francesco ♦ Se le diverse previsioni di crescita negativa per il Paese saranno confermate, presto ci vorranno nuove risorse economiche. E a pagare i costi di una strategia di discontinuità con quanto fatto dai governi precedenti potrebbe essere il manifatturiero, già ora sotto scacco. Ci vuole una nuova politica industriale? Come la vedono gli economisti Maurizio Castro, Marco Fortis e Luca Beltrametti

È vero: l’automotive è il grande malato dell’industria italiana, ed è una ragione forte del recente crollo della produzione industriale, che nel dicembre 2018 ha perso il 5,5% rispetto allo stesso periodo del 2017. Il comparto in sé vale 96 miliardi di euro, il 6% del Pil, mentre la componentistica collegata quasi 47 miliardi. Il calo del 12,3% dell’automotive si è tirato dietro anche quello del 9,2% dei fornitori, con rimbalzi in altri comparti, come la plastica, l’elettronica e le lamiere. Ed è vero che quella dell’auto è una questione continentale: è stato lo zelo europeo sulle emissioni di Co2 a mettere al tappeto linee produttive di carmaker, in Germania più che in Italia.

Ma è anche vero che questa crisi di settore non spiega per niente la flessione di comparti che hanno poco a che vedere con l’auto, come l’alimentare, il tessile, il legno e come il farmaceutico che, forte e resiliente, dopo anni di corsa a due cifre ha perso il 4,5%. E non chiarisce neppure perché la Commissione Europea abbia rimodulato la stima di crescita italiana allo 0,2% per il 2019 (da precedente previsione dell’1,2%) rispetto all’1,3% di aumento medio nell’Eurozona. In pochi mesi, per l’Italia, è cambiato tutto. L’industria prima e le istituzioni internazionali dopo hanno percepito che si prospetta per il Paese una “crisi di sistema”, che si verifica quando saltano i fondamentali. E ciò è avvenuto perché l’ Italia, già gravata da un eccesso di debito sovrano, ha voltato improvvisamente le spalle al ricettario mainstream di soluzioni europee od Ocse, mettendo in atto provvedimenti in materia fiscale e pensionistica ritenuti, anche dall’agenzia di rating Fitch, anti-competitivi e controproducenti.







 

L’automotive è il grande malato dell’industria italiana

 

Per almeno due decenni esecutivi di diverso colore politico avevano mantenuto la barra dritta su alcune posizioni di fondo, allineandosi a misure coerenti di finanza pubblica, largamente ispirate da sovrastrutture internazionali. L’improvvisa inversione di rotta, unita all’assenza di un piano industriale per il Paese, ha determinato una situazione di grande incertezza nei mercati e fra gli industriali, semplicemente perché nessuno sa, a questo punto, come andrà a finire. L’ipotesi più plausibile resta quella di una manovra bis, per rimettere un po’ a posto i conti dello Stato per raccogliere i miliardi necessari a disinnescare i rincari Iva previsti dal 1° gennaio 2020, e che sarebbero fatali per l’industria; ma anche qui, si naviga a vista e non si conoscono progetti seri. Ne abbiamo parlato con l’ex direttore scientifico del Master della Business school Cuoa Maurizio Castro e con i docenti in materie economiche Marco Fortis e Luca Beltrametti.

 

Maurizio Castro, ex direttore scientifico del Master della Business school Cuoa

L’uscita dal mainstream

Per esempio, consideriamo le politiche del lavoro. «È arduo – afferma Castro – immaginare uno slittamento da una parte o dall’altra, in questo settore. Tutte le riforme organiche degli ultimi 20 anni si sono ispirate ad una visione neoliberista e riformista. Si è declinata la Seo, per esempio, la strategia europea per l’occupazione, che in nome dell’adattabilità e dell’imprenditorialità aveva individuato nella rigidità il nemico da abbattere. Dal “pacchetto Treu” del 1997, che intendeva contrastare la disoccupazione disciplinando la flessibilità lavorativa con contratti a tempo determinato, con il lavoro interinale, il job sharing e altre forme atipiche; alla “Legge Biagi” del 2003, che introduceva i co.co.pro (contratti di collaborazione al progetto) accanto ai co.co.co (contratti di collaborazione coordinata e continuativa) e sviluppava altre tipologie come la somministrazione, il lavoro intermittente e altro. Perfettamente sulla stessa linea, il Jobs Act del 2015, che modificava l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e introduceva forme di conciliazione veloce. Tra una legge e l’altra, diverse sfumature, ma la linea era quella, e penso che ciò non sia in discussione».

Ora, invece? «E’ la restaurazione che l’industria non si attendeva: limiti all’utilizzo dei contratti di lavoro a tempo determinato, aumento dell’indennizzo per i lavoratori ingiustamente licenziati e divieti di delocalizzazione delle imprese che hanno ottenuto aiuti statali per ampliare le proprie attività economiche. Questo, con il solo “Decreto Dignità”. Quanto al “Decreto Urgenze”, rimette in pista la cassa integrazione per cessata attività, già esclusa dal Jobs Act».  «Una vera e propria inversione di marcia, rispetto a ciò che l’Ue e l’Ocse ci hanno sempre consigliato di fare. Noi per 20 anni abbiamo svolto benino i compiti, in vista di una maggiore competitività del Paese. L’idea era che esistessero delle direttrici sicure per costringere l’Italia a correre e a diventare più forte. Per esempio, tutti sanno che le piccole imprese sono fragili, e vanno aiutate ad irrobustirsi. Andava in questa prospettiva la Legge Tremonti del 2010, che prevedeva la sospensione triennale di imposta sugli utili d’esercizio delle imprese in rete. Va in una direzione opposta la flat tax ad aliquote basse per piccoli redditi, per ora introdotta solo per partite Iva e professionisti. Come dire: rimanete piccoli, mi raccomando».

Secondo Castro, l’uscita dal mainstream dell’Italia ha frenato l’industria, gli investimenti e ha choccato i mercati, visto che sull’Italia si addensano «pesanti ombre sulla tenuta dei conti pubblici». Il Belpaese è visto come una piccola barca alla deriva, che ha deciso di non prendere più in considerazione i naturali riferimenti, come la costa, il faro e la bussola. Ma l’Italia non è l’unico Paese ad aver abbandonato il mainstream: il Regno Unito lo sta facendo con l’Ue, mentre gli Usa lo fanno con l’Ocse. «Appunto: quando il sistema è più turbolento, i deboli soffrono più degli altri». Siamo, secondo Castro, il vaso di coccio di quella che potremmo definire “l’internazionale sovranista.”

 

Fortis
Marco Fortis, docente di economia industriale all’ Università Cattolica di Milano

 

Fuga dalla realtà: senza un piano per la salvezza

Secondo il docente di economia industriale alla Cattolica di Milano Marco Fortis, il cambiamento di rotta è stato paralizzante per l’industria perché l’ha colpita nel momento di uno sforzo solenne. «Avevamo fatto tanto per diventare un Paese moderno; e nell’industria i risultati si vedevano eccome. Un piccolo esempio, che riguarda la diffusione dei robot: non tutti sanno che siamo il quarto Paese al mondo come impiego nell’alimentare, e il secondo nella moda. Sono stati fatti investimenti colossali, che ora sono rallentati a causa della dispersione delle risorse in provvedimenti anacronistici, come il reddito di cittadinanza o la riforma delle pensioni con “finestre”. Chi ha scelto la nuova direzione dello Stato deve assumersene la responsabilità, che è grande». La dicotomia tra Paese-reale e funzione politica è stata notata anche dall’agenzia di rating Fitch che, confermando il rating BBB con outlook negativo, ha definito controproducenti il Decreto Dignità e le misure sulle pensioni, e ha rimarcato che a fronte di un «livello estremamente elevato del debito pubblico» non sono stati definiti «adeguamenti fiscali strutturali», concludendo che la crescita del Pil si è arrestata non solo a causa di una debole domanda estera, ma anche per via «dell’incertezza politica».

Tornando a Fortis, ammette che il governo non è certo responsabile del crollo dell’automotive. «Ma lo si sapeva da mesi – continua Fortis -; nonostante ciò, non ci siamo applicati per il rilancio della domanda interna e della crescita, ma per gratificare bacini elettorali, concedendo (politicamente) scarpe spaiate, come Achille Lauro». La cosa più preoccupante, secondo Fortis, è che l’abbandono del mainstream non ha coinciso con la definizione di una vera e propria strategia definita che indicasse una direzione alternativa. Anche secondo Fitch manca un progetto organico per risolvere le criticità del Paese. «Non c’è niente: sulla manifattura, sulle infrastrutture – afferma Fortis – nessuno è in grado di capire cosa si farà. È tutto paralizzato, ed è venuta meno la possibilità di dar vita ad una staffetta tra l’investimento privato, quello penalizzato dalle incertezze del governo, e quello pubblico in grandi opere. Sarebbe stato un passaggio fondamentale per il Paese. Comunque sia la nostra industria, sopravvissuta a due crisi, nel 2008 e nel 2011, non ha la forza per affrontarne una terza, almeno in parte auto-inflitta».

Secondo il docente di politica economica all’università di Genova Luca Beltrametti «stupisce che in un Paese che non cresce non sia stato messo a punto un piano generale di rinascita ma siano state attuate solo politiche redistributive. Invece di ingrandire a torta, si pensa solo ad una suddivisione più equa delle fette, che restano sempre piccole. Peraltro, la disattenzione per l’industria e per la manifattura in particolare incide sugli investimenti esteri. Chi dovrebbe mai investire in un Paese così? E le manovre esclusivamente elettorali fanno la differenza sul mercato, perché diventiamo debitori meno affidabili. Se il governo non riesce ad impostare un progetto, per lo meno lanci un messaggio chiaro ai mercati: abbiamo una strategia di sviluppo che non si fonda sul blocco Tav o sui navigator».

 

Luca Beltrametti, docente di politica economica all’università di Genova

 

La manovra bis per salvare l’industria dal rincaro Iva

Se le previsioni della Commissione Europea si avverassero, uno 0,8% in Pil di meno rispetto a quanto stimato dal governo (1%) significa 13,8 miliardi di Pil in meno. È stato osservato che, considerata una tassazione pari al 43%, ciò vuol dire che le entrate dello Stato saranno minori per circa 5,9 miliardi, che vanno sommati ai 23,1 per le clausole sull’Iva. «Semmai non fossero disinnescate – afferma Fortis – per l’industria italiana sarebbe una catastrofe, una fine». Pertanto, è normale che si parli di manovra correttiva per il 2019. Ma dove trovare 29 miliardi? Sulle pagine dei giornali circolano congetture e indiscrezioni che farebbero ridere se l’argomento non fosse drammatico. C’è, ad esempio, chi ipotizza la vendita dei 95mila lingotti della Banca d’Italia, che potrebbero valere più o meno 20 miliardi. In realtà, con l’adesione all’euro il Paese ha ceduto la sovranità in materia, per cui bisognerebbe chiedere l’autorizzazione della Bce, che presumibilmente non la concederebbe.

 

Il peresidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte. Finora ha sempre negato la necessità di una manovra correttiva

 

L’ipotesi più credibile resta quella della patrimoniale: sarebbe politicamente vendibile, visto che al governo ci sono forze anti-establishment. Poveri contro ricchi; piccoli contro grandi: potrebbe funzionare. Si colpirebbero, ad esempio, aree di esenzione come i patronati o come le organizzazioni di rappresentanza sindacali e datoriali. Ma sono mere indiscrezioni, che come tali vanno considerate. Nessuno sa cosa abbia in mente il governo. Peraltro, al Senato il premier Giuseppe Conte ha affermato di non ritenere necessaria alcuna manovra correttiva. «Dobbiamo solo continuare nel razionale utilizzo delle risorse già stanziate» – ha affermato. Sì, ma di quali risorse parla? «Sarà la Commissione Europea – termina Fortis – a chiederci il conto dopo le elezioni europee. Non è un ente di beneficienza; e noi siamo parte dell’euro, che è più di una moneta. Ci chiederà sacrifici. Ultimamente, abbiamo dato la sensazione di voler resistere alle richieste comunitarie, ma alla fine ci siamo adattati. Andrà così anche questa volta».














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