Pubblicità on line: una web tax contro Facebook e Google. E non solo…..

di Marco de’ Francesco ♦ Dovrebbe favorire i piccoli imprenditori della filiera digitale nazionale il provvedimento della legge di stabilità che mira a contenere i vantaggi che consentono ai colossi della rete di spadroneggiare sul mercato. Ma come stanno realmente le cose in Italia? E come funziona questa forma di adverstising che potrà superare quella televisiva? Ce le spiegano il patron di DigiTouch Simone Ranucci Brandimarte e Carlo Noseda, presidente di Iab

«Occorrono provvedimenti legislativi per ristabilire la concorrenza nel settore e consentire a tutti gli operatori di giocare con le stesse armi». Lo ha detto tre mesi fa Carlo Noseda, presidente della charter italiana di Iab, la più importante associazione nel campo della pubblicità digitale. Nel Belpaese rappresenta l’intera filiera – investitori, editori, concessionarie, agenzie specializzate – e , ad avviso di Noseda, è interessata da un vero e proprio paradosso. Da una parte il mercato cresce a due cifre, e dall’altra gran parte dei soldi che gli inserzionisti versano alle imprese di digital advertising finiscono a due giganti della rete, Facebook e Google, che hanno in mano il traffico e il bacino delle utenze. Una situazione che determinerebbe poco valore, sia per l’occupazione che per il fisco.

Questo squilibrio sarebbe destinato ad accentuarsi, dato che gli Ott (over the top, i due colossi citati) godono di vantaggi fiscali nei Paesi in cui operano e possono reinvestire in acquisizioni, limitando le possibilità di crescita delle aziende pubblicitarie online nostrane. Ma ora una soluzione c’è, secondo l’Iab. Si attendono solo le disposizioni attuative, che saranno emanate con decreto entro il 30 aprile dell’anno in corso. Perché la legge di Stabilità ha definito un’imposta sui servizi digitali che sembra avvantaggiare i piccoli e le casse dello Stato colpendo i grandi. È una Web Tax tarata sugli Ott. Ma come funziona, veramente, il mercato della pubblicità online? Capirne i nuovi e sorprendenti meccanismi significa anche cogliere importanti cambiamenti nell’economia e nella società. Il funzionamento di Internet, infatti, è dirompente per definizione, e non sempre privilegia la qualità dei contenuti o la democrazia. Ne abbiamo parlato con Simone Ranucci Brandimarte, presidente di Gruppo DigiTouch, gruppo specialista nel MarTech – e cioè una società che definisce e organizza, con l’ausilio di nuove tecnologie di marketing e comunicazione, campagne pubblicitarie di promozione dei brand. È quotato all’Aim.







 

Simone Ranucci Brandimarte, presidente di Gruppo DigiTouch

Il boom del digital advertising in Italia

Nel nostro paese nel 2018 il digital advertising è cresciuto dell’11%, con investimenti che hanno raggiunto quota 2,9 miliardi. Si pensi che dieci anni fa valeva 0,8 miliardi. Rispetto alla pubblicità in generale, quella digitale rappresenta il 32%: è ormai il secondo mezzo per importanza, dopo la televisione che vale il 45%. Ma ha ormai superato la carta stampata, che vale il 12% e che anche l’anno scorso ha subito un calo considerevole, pari all’8%. La caccia alla prima posizione, a detrazione della tv, è in atto anche in Italia: è già accaduto negli Usa e nel Regno Unito. Secondo Noseda, il mercato occupa 250mila professionisti. «E per ogni euro investito in adv digitale ce ne sono 25 in indotto» – ha affermato su Engage.

Il successo della pubblicità online è senz’altro legato all’analisi dei dati e all’intelligenza artificiale, che possono rendere le campagne molto efficaci. Per esempio, si parla di retargeting per indicare una particolare strategia grazie alla quale il visitatore di un sito web che ne è uscito senza comprare nulla viene “richiamato” con banner personalizzati per convincerlo finalmente a fare l’acquisto. La prima attività è stata memorizzata, l’utente è targetizzato: sarà oggetto di successive operazioni di marketing in automatico. Si parla molto anche di programmatic advertising: un software acquista spazi online dedicati alla pubblicità su siti e piattaforme. Secondo taluni, eliminando la componente umana dalla negoziazione, ci sono meno errori e costi minori.

 

Mark Zuckerberg, Ceo di Facebook (foto di Anthony Quintano)

Il dominio degli Ott

Per capire come funziona il mercato del digital advertising, bisogna valutare in che modo società come DigiTouch investono il denaro che degli inserzionisti per le campagne pubblicitarie. « Il 75% viene investito su Google e su Facebook, che dispongono di un insieme di funzioni e applicazioni in tema di advertising, il 10% in programmatic e tutto il resto su canali come Instagram, in attività di celebrity o giornali tradizionali come Repubblica», afferma Ranucci Brandimarte. DigiTouch agisce, secondo Ranucci Brandimarte, «in linea con il mercato», così come altre società della pubblicità online: la percentuale degli investimenti in Ott è esattamente il 75%, in crescita dal 71% del 2017. Del resto, sono i clienti stessi a spingere in questa direzione.

«Con i due giganti – continua Ranucci Brandimarte – si possono attuare operazioni di marketing online spendendo di meno e ottenendo maggiori risultati». È una questione di “reach”, e cioè del bacino di utenti che un certo contenuto può raggiungere. La quota degli Ott è pari al 75%, per cui tutto torna in modo matematico. «A mio avviso – afferma Ranucci Brandimarte – il reach di Facebook e Google è destinato ad aumentare, e con esso la concentrazione degli investimenti pubblicitari nei loro strumenti. Si pensi che solo cinque anni fa il loro bacino di utenza non superava la metà del totale».

Il ruolo delle società di digital advertising

Resta da capire perché inserzionisti e investitori non utilizzino sempre e direttamente gli Ott. Per esempio, Google Ads, uno strumento di Google per pianificare e lanciare campagne pubblicitarie. Annunci in rete di ricerca, in display, in video e per app: l’inserzionista, grazie a diverse possibilità di targeting, può scegliere dove, quando e a chi mostrarli. In realtà, un’azienda media fatica ad utilizzare direttamente gli strumenti messi a disposizione dal gigante social e dal motore di ricerca. Sono sempre più articolati. «La loro complessità – afferma Ranucci Brandimarte – è frutto della necessità di rendere queste soluzioni sempre più performanti». Dunque, meglio, per l’inserzionista medio, ricorrere alla consulenza della società di digital advertising, che può utilizzare le proprie competenze (per esempio nella profilazione e nei big data, per tracciare tutto il percorso dell’utente di riferimento) per realizzare campagne più efficaci. E poi le agenzie servono agli Ott, che le usano per “rivendere” le loro cose: in fondo sono canali di vendita sul territorio.

 

Carlo Noseda (dal profilo twitter)

 

Come è stata rimodulata la Web Tax

Una prima Web Tax era stata inserita nella legge di bilancio 2018: prevedeva un’imposta del 3% sul valore delle transazioni online, ma è rimasta sul limitare a causa della mancata emanazione dei decreti attuativi. Così com’era strutturata, dicevano da Iab (Interactive Advertising Bureau) Italia, danneggiava i piccoli. L’associazione chiedeva che la tassa fosse applicata non su tutte le transazioni online, ma solo alla pubblicità; che fosse definito il perimetro di applicazione ad imprese di considerevoli dimensioni di fatturato e che fosse inserito un meccanismo premiale, con un credito di imposta basato su criteri di trasparenza.

La legge di Stabilità 2019 ha ascoltato solo in parte queste richieste. La norma colpisce non solo i ricavi del web advertising e quelli dei servizi a pagamento dei social network, ma anche trasmissione di dati raccolti da utenti, generatisi tramite l’utilizzo dell’interfaccia digitale. Ciò che però Carlo Noseda guarda con favore è l’ambito soggettivo della legge: «Il limite dei 750 milioni di euro e i 5.5 milioni di ricavi realizzati in Italia per questo tipo di servizi ci sembra vada proprio nella direzione di tutelare le Pmi italiane, individuando le economie rilevanti e ponendo un correttivo alle situazioni di distorsione del mercato» – ha affermato a CorCom. L’aliquota è rimasta pari al 3% del valore (Iva esclusa) dei ricavi tassabili realizzati in ciascun trimestre. Per Noseda, lo Stato ci guadagnerà mezzo miliardo all’anno. Ma non tutti sono d’accordo. Le proteste maggiori sul fronte dell’e-commerce. Secondo Netcomm, consorzio di aziende di questo comparto, in tre anni la norma porterà a una perdita di 17 mila posti di lavoro, all’aumento dei prezzi per i consumatori finali e ad un calo della produzione di due miliardi di euro, a fronte di un maggior gettito fiscale di poco superiore a 250 milioni.

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Il digital advertising per singoli formati

In testa c’è la display, e cioè gli spazi nei social, i video, i banner. Raccoglie il 62% del mercato. Segue il search a quota 28%. Cresce il programmatic, a quota 482 milioni e con una fetta percentuale pari al 16%. Ancora, il classified advertising (piccole inserzioni pubblicitarie in apposite rubriche dei quotidiani o sezioni/bacheche di siti web dedicate alla compravendita di prodotti o servizi) al 7% e l’email al 3%.

 

 

Il Gruppo DigiTouch

Il gruppo, fondato nel 2007 e quotato sul mercato Aim Italia, sede a Milano e a Roma, è uno dei principali player indipendenti in Italia attivo nel digital marketing ed è specializzato nel MarTech, e cioè nelle tecnologie di marketing e comunicazione a supporto delle vendite ( vedi Industria Italiana qui ). Ha fatturato nel FY 2017 28,9 milioni. Definisce e organizza campagne pubblicitarie di promozione dei brand. Online, si opera sui social, su mobile, su Google e in programmatic. In quest’ultimo caso, l’utente target viene individuato da sistemi di monitoraggio; in base alle informazioni ottenute sono acquisiti spazi pubblicitari in maniera automatizzata. Peraltro, il gruppo agisce anche sui media tradizionali, ad esempio realizzando progetti editoriali, o contenuti come video e altro.

Una attività di grande rilievo per DigiTouch è poi quella basata sulle performance, per generare risultati misurabili sui quali vengono applicati i costi. Si pensi, ad esempio, alle sottoscrizioni di conti correnti delle banche, alle vendite degli e-commerce o alla raccolta di utenti interessati, ad esempio, a provare un’automobile. «Tutto in funzione di indicatori chiave di prestazione dei nostri clienti». Fra le attività correlate, quelle dello sviluppo di siti di e-commerce e di infrastrutture server e quelle di business intelligence e data analytics. Quanto a queste ultime, sono sempre più essenziali: appunto perché si tratta di monitorare tutto il percorso dell’utente, e di ingaggiarlo automaticamente – e cioè sulla base di algoritmi – a prescindere dal canale in cui si trovi.














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1 commento

  1. Ottimo articolo e ottimo anche il consiglio di rivolgersi a professionisti di settore soprattutto per avere un risultato. Il fai da te, lo noto nel quotidiano nelle aziende che seguo, porta le aziende ad avere poca fiducia nel sistema. Pare che il web renda ricchi con un click e che sia alla portata di tutti, ma non è così.

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