L’arretramento della produzione industriale nel primo trimestre? Solo la punta di un iceberg. E non è da escludere che possa essere il preludio della recessione. A dirlo a Industria italiana è Giulio Sapelli, professore alla Statale di Milano di Storia economica, di cui è uno dei massimi esperti in Italia. Sapelli ci ha concesso un’intervista nel corso della quale non ha risparmiato strali ai governi che si sono succeduti negli ultimi anni e «che si sono limitati a distribuire incentivi a pioggia senza pensare a una seria politica industriale mirata a riportare le produzioni industriali strategiche in Italia».
Verso l’Ue che assume decisioni, in particolare sui temi legati al conflitto ucraino e al taglio del gas russo, irresponsabili, perché «la guerra non si vince con le sanzioni, e le sanzioni fanno male di più alle economie che le impongono». Dunque fanno bene coloro che aprono il conto in rubli per continuare a rifornirsi di energia da Mosca, «perché fanno il bene del proprio Paese». E ci ha spiegato come, dal suo punto vista, si può cambiare rotta.
D. Professore, partiamo da un’analisi dei numeri. Dopo il forte recupero del 2021, la produzione industriale torna a rallentare nel 2022. Lo stimano Intesa Sanpaolo e Prometeia nel recentissimo rapporto di “Analisi dei settori industriali”, secondo cui la crescita 2022 sarà del +1,5% dal +4,9% stimato lo scorso ottobre. Lo dicono i dati rilevati da Istat, che a marzo mostrano una produzione flat rispetto a febbraio e un calo dello 0,9% nel primo trimestre 2022 rispetto all’ultimo 2021 e una riduzione dell’indice di fiducia delle imprese. Cosa significano questi numeri?
R. Si tratta di una tipica frenata che dipende dall’aumento dei costi di produzione. I costi energetici sono aumentati del 400% e molte produzioni non possono essere condotte a termine perché mancano le componenti e c’è la fila di navi ferme nei porti e i manager degli acquisti non si sono attrezzati per farvi fronte, nonostante la lezione pandemica, né hanno previsto l’aumento esponenziale dei costi dei noli marittimi. E direi che questa è solo la punta dell’iceberg.
D. Cioè, cosa abbiamo davanti? Il rischio di una recessione?
R. Non è da escludere. Negli ultimi trent’anni, ovvero sostanzialmente quelli della globalizzazione, c’è stata una colossale diminuzione dei costi di trasporto e un aumento della velocità con cui era possibile movimentare merci da un punto all’altro del globo: due effetti della tecnologia. È fortemente aumentato anche il trasporto su gomma, che ha fatto esplodere la produzione di CO2. Poi, prima la pandemia e oggi la guerra, hanno frenato il sistema. E c’è un elemento aggiuntivo da considerare. La questione di fondo è che i prezzi di energia e materia prima sono fondati non più sulla dinamica della domanda e dell’offerta, ma su quella dinamica delle aspettative, dunque sulla speculazione sui future. I prezzi sono alle stelle in conseguenza di questo fenomeno finanziario dominante. Un Paese come il nostro che ha scelto di non sfruttare il petrolio e non cercare gas pur essendo immerso in una bolla di gas e petrolio, e che ha puntato sulla produzione a bassi salari facendosi dominare dai componenti a basso prezzo in arrivo dalla Cina, non può che soccombere.
D. Oggi, tutto questo è acuito dalla guerra ucraina che minaccia la fornitura di gas russo, da cui dipendiamo per il 40%…
R. Innanzitutto, ritengo che il modo in cui l’Europa sta affrontando la crisi sia opinabile: le sanzioni non hanno senso, anche Napoleone aveva fatto il blocco continentale e sappiamo com’è finita. Le sanzioni fanno più male a noi, la guerra bisogna vincerla sul campo di battaglia. E per questo motivo, dobbiamo continuare a comprare il gas russo. Eni fa benissimo ad aprire il conto in rubli presso Gazprom Bank e ad aggirare di fatto le sanzioni: guarda l’interesse del Paese facendo conti in rubli. Non credo affatto nella politica che sta conducendo l’Europa in questa come in altre situazioni. E anche Draghi si sta dimostrando deludente: si illude di risolvere i problemi mettendosi contro il Parlamento, ma le cose si cambiano con il Parlamento. L’unico che ha una certa ragionevolezza è il presidente francese Macron, che fa gli interessi del suo Paese e che tutti dovremmo imitare.
D. C’è anche un altro tema, forse sottovalutato: la nuova crisi cinese da Covid e i lockdown che stanno frenando le produzioni e bloccando le movimentazioni delle merci.
R. La Cina è una costante che ha condizionato l’industria italiana negli ultimi venti anni. Prima le industrie italiane cercavano fornitori vicini poi poter verificare la qualità lungo la catena del valore e personalizzare i componenti. A un tratto questa logica da filiera è sparita. Ma rifornirci dalla Cina a basso costo non è stata una panacea: ci sono casi in cui per un rotore prodotto in Cina e importato in Italia, un primario produttore nel settore aeronautico riscontrava uno scarto del 40-50%, perché arrivava materiale che non funzionava. Oggi, il Paese è in una crisi profonda che insieme alla speculazione, causerà ulteriore pressione sui prezzi delle materie prime. La fabbrica del mondo non produce più e se produce non può esportare: tutti questi fenomeni segnano l’inizio di un cambiamento secolare nelle cui spire l’Italia rischia di essere inghiottita.
D. Non è forse un caso se la nostra industria ha perso dal 2008 un quarto del suo valore complessivo. Possiamo ancora fare qualcosa?
R. Bisogna smettere di dare soldi a pioggia alle imprese, ci vuole una politica industriale per favorire le produzioni mancanti e strategiche. Come per esempio i microprocessori in cui con Stm eravamo primi al mondo; le fonti energetiche. La robotica in cui siamo stati i primi al mondo con la Comau; il nucleare. La Olivetti, la Fiat: aver perso tutte queste produzioni ci colloca nella situazione attuale. E su questo bisognerebbe lavorare perché anche nel mondo del digitale, l’industria è sempre necessaria e lo sarà sempre. Anche se non si potrà riportare indietro l’orologio, è possibile arginare l’esodo ulteriore.
D. Tutto questo è attuale e funziona, a suo avviso, anche nel mondo digitale in cui viviamo?
R. Certamente. Bisogna ricostruire l’Iri in chiave digitale: dare vita a una internet delle merci, alle autostrade informatiche; bisogna rispondere con l’aumento della tecnologia, guidato dalla programmazione della ricollocazione delle produzioni in Italia. Basta guardare agli Usa, dove il processo è già iniziato con alcune decine di migliaia di imprese che sono tornate a casa. Noi preferiamo distribuire incentivi a pioggia che ci porteranno inesorabilmente verso anni di crisi industriali, che potremmo evitare se usassimo le risorse per fare reshoring.