Pnrr di Draghi: non è la terapia d’urto che ci voleva!

di Laura Magna ♦︎ L’eccessiva articolazione in missioni e progetti rischia di creare mille rivoli e di non generare lo shock necessario. Manca una visione di politica industriale. Però le tecnologie abilitanti sono trattate come la chiave della crescita sistemica. E i 49,2 miliardi per la digitalizzazione a vario titolo sono utilissimi. Pro e contro del Piano con Giulio Sapelli, Carlo Altomonte, Giuliano Busetto (Anie), Fabio Moioli (Microsoft)

Il Pnrr di Mario Draghi? Promosso con riserva. «Manca una chiara visione di politica industriale – dice a Industria Italiana l’economista Giulio Sapelli – e l’eccessiva articolazione in missioni e progetti rischia di creare mille rivoli e di non generare la terapia d’urto di cui il Paese avrebbe bisogno». Quanto agli aspetti positivi, invece, rileva che nel piano sia centrale il tema delle riforme strutturali, come spiega il professore e consulente del governo Carlo Altomonte«Ce ne sono 40 ed esiste una tabella di marcia precisa: decreto semplificazioni a maggio; concorrenza a luglio e pa entro fine anno. Per quanto attiene ai finanziamenti, che sono ingenti, devono essere la spinta per attivarne di privati: che le imprese tornino a fare le imprese e a investire».

Con loro abbiamo parlato dell’impianto generale del Piano nazionale di ripresa e resilienza, andando nello specifico di aspetti più squisitamente tecnici con due rappresentanti dell’industria, ovvero Giuliano Busetto, presidente di Anie e manager in Siemens Italia e Fabio Moioli (Microsoft), uno dei massimi esperti italiani di intelligenza artificiale. Aspetti tecnici come la sorprendente riduzione del plafond dedicato a Transizione 4.0, segnale che potrebbe indicare che non se ne sia compreso il potenziale dirompente, non tanto per il credito di imposta in sé, ma per l’effetto indiretto sullo sviluppo della digitalizzazione. In compenso di digitalizzazione e tecnologie è pervaso l’intero impianto e tutte le sei missioni del Pnrr: il che, se effettivamente messo a terra, potrebbe proiettare l’Italia direttamente e finalmente nel futuro. 







 

I numeri del Pnrr di Mario Draghi

Il premier Mario Draghi

Prima di vedere nel dettaglio il pensiero degli intervistati, ricordiamo in sintesi i numeri del Pnrr di Mario Draghi. Il valore complessivo è di 222,1 miliardi di euro (191,5 miliardi che fanno capo al Next Generation Eu – più i 30,6 miliardi del Fondo complementare finanziato dallo scostamento di bilancio). Della cifra complessiva, 68,9 miliardi di euro sono sovvenzioni e 122,6 miliardi prestiti. L’impatto stimato, contenuto nell’introduzione del documento, è del 3,6% di Pil aggiuntivo al 2026 e di un’occupazione in crescita del 3,2%.

Le risorse sono spacchettate in sei missioni: il 27% è dedicato alla digitalizzazione (49,2 miliardi) che contempla tra le azioni principali l’estensione della Banda Ultra larga e connessioni veloci in tutto il Paese, la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione e il rilancio del turismo; il 40% al contrasto al cambiamento climatico (68,6 miliardi, per investire in economia circolare e gestione dei rifiuti, energie rinnovabili, incentivi fiscali per incrementare l’efficienza energetica degli edifici ed investimenti per ridurre i rischi del dissesto idrogeologico); e più del 10% alla coesione sociale, a cui vengono destinati 22,4 miliardi, più dei 18,5 dedicati al tema della salute. Infine, a Infrastrutture e mobilità sostenibile vengono destinati 31,4 miliardi, e su Istruzione e Ricerca 31,9 miliardi, con il fine di rafforzare il sistema educativo, le competenze digitale e Stem, la ricerca e il trasferimento tecnologico. Le riforme rappresentano, rispetto alla versione precedente, la novità più dirompente del piano. Ne sono previste cinque e sono le stesse che si tenta di fare da almeno venti anni con scarso, per non dire nullo, successo: la riforma della pubblica amministrazione; la riforma del sistema della proprietà industriale; la riforma della formazione obbligatoria per la scuola; la riforma delle politiche attive del lavoro; e la riforma della medicina territoriale.

Le risorse sono spacchettate in sei missioni: il 27% è dedicato alla digitalizzazione (49,2 miliardi) che contempla tra le azioni principali l’estensione della Banda Ultra larga e connessioni veloci in tutto il Paese, la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione e il rilancio del turismo

 

Altomonte: è un piano di riforme e non di investimenti

Carlo Altomonte, professore di Politica economica europea dell’Università Bocconi

Carlo Altomonte, professore di Economia dell’Integrazione europea alla Bocconi e consigliere economico del ministro per la funzione pubblica, nonché membro del team che ha messo a punto i negoziati con l’Europa sul Pnrr italiano. «Non dobbiamo guardare al Recovery come un piano di investimento, ma come un progetto di riforme a cui sono legati i finanziamenti necessari. Inoltre tra extra deficit, fondi europei e recovery superiamo i 600 miliardi di euro, quindi andare a ragionare sui milioni non ha senso. La cosa che rileva è che questo Pnrr delinei un programma di riforme che sono sia orizzontali, giustizia, pa e semplificazione e liberalizzazione sia verticali, in termini di settori: il vantaggio vero è che gli effetti di tutto ciò da qui a tre anni sono potenzialmente dirompenti» E c’è un altro tema che rileva: ovvero che gli investimenti pubblici vanno affiancati a capitale privato. «Le imprese dovranno fare le imprese, cioè non tanto capire dove sono i fondi per prenderli e usarli ma amplificarli. Se prendiamo il Recovery come l’ennesimo prestito bancario abbiamo già sbagliato e sprecato l’occasione».

Secondo Altomonte ha perfettamente senso l’accento sul Sud, che altrove è stato ampiamente criticato. «Al Sud va il 40% degli investimenti rispetto al 34% del Pil, ma il ritardo di sviluppo è chiaro: meno infrastrutture e meno lavoro, per colmare il gap ci vogliono più risorse. Uno dei freni italiani allo sviluppo italiano d’altronde è la mancanza di quel mercato lì, lamentarsi che si possa potenziare è un non senso logico». Secondo il professore c’è un mondo tra questo e il piano precedente presentato da Draghi: «quello precedente non aveva neanche una riforma, questo ne ha 40. Il focus è cambiato. Ed è per questo che i negoziati con Bruxelles sono durati dieci minuti sul fronte delle riforme, mentre il piano precedente non sarebbe passato». Ma non per una questione di competenze: «il governo precedente non aveva la forza di toccare giustizia e pa perché era a guida partitica. Questo è un governo di unità nazionale, non è un governo tecnico». Quanto all’attuazione, «si parte con questo meccanismo di governance che sarà condiviso tra dicasteri e Palazzo Chigi. Le prime riforme saranno emanate con il Decreto Semplificazione atteso per il mese di maggio, a luglio sarà sottoposta al parlamento la legge sulla Concorrenza e quella sulla Pa a dicembre e di sei mesi in sei mesi si trasferiranno i fondi per l’attuazione. Se non ci impiantiamo con veti incrociati alzate di ingegno e piccoli litigi andiamo avanti e bisognerà che ognuna capisca che deve mollare qualcosa».

Questa missione ha un ruolo di grande rilievo nel perseguimento degli obiettivi, trasversali a tutto il
PNRR, di sostegno all’empowerment femminile e al contrasto alle discriminazioni di genere, di incremento
delle prospettive occupazionali dei giovani, di riequilibrio territoriale e sviluppo del Mezzogiorno e delle
aree interne

Sapelli: il rischio è che invece di uno choc, l’intervento si disperda in mille rivoli con poca efficacia

Giulio Sapelli, economista e accademico

Una delle deficienze del piano è l’assoluta mancanza di linee guida di politica industriale. A dirlo è Giulio Sapelli, professore di Storia economica alla Statale di Milano, «Una deficienza che però riflette l’arretratezza in cui siamo immersi dal punto di vista delle infrastrutture sia digitali sia materiali, oltre a 30 anni di mancati investimenti in formazione e in sistemi e servizi avanzati all’impresa». Il dato è lampante se si confronta, secondo il professore, il piano italiano con quello tedesco e con quello francese. «La Germania concentra i finanziamenti, in totale 20 miliardi, per metà sul green e per metà sul digitale, con l’obiettivo di ridurre la dipendenza dalle fonti fossili e nella consapevolezza che possono andare a debito avendo un surplus strutturale di bilancio». La Francia invece ha un plafond di 40 miliardi, distribuiti in tre aree: cambiamento climatico, inclusione e sostegno alle imprese. «Noi prendiamo più di 190 miliardi, li articoliamo in sei missioni dove manca del tutto il sostegno all’industria. Il piano si articola in investimenti singoli tra il 15 e il 20% su una serie di interventi che coprono tutti gli spazi vuoti, ma nessuna terapia d’urto. Se poi si tiene conto che questi soldi verranno dati in un arco temporale lunghissimo, secondo un cronoprogramma ancora non ben definito, il quadro è chiaro».

Saranno, secondo Sapelli, rivoli nessuno dei quali potrà avere l’incisività di cui abbiamo bisogno. «Per frenare la decadenza industriale e infrastrutturale in corso serve un grande choc. Dovremo mettere in atto capacità di spesa che non abbiamo. Credo che questi soldi non avranno questo effetto choc soprattutto nelle infrastrutture materiali e digitali e nel sostegno alle imprese». E Sapelli mostra un forte scetticismo anche con riguardo al tema dell’inclusione sociale «che non si può fare dall’altro, ma scaturisce da una ripresa della crescita e dall’eliminazione delle disuguaglianze che si fa con la lotta sociale, con i contratti di lavoro. Nel frattempo continuano a diminuire le donne occupate: quel segnale, che molti hanno dimenticato comprese le femministe, è frutto del cambiamento dal basso e dovrebbe far riflettere». Allora il Pnrr è un passo avanti, ma rispetto all’immensità di fondi che vengono dati rischia di tradursi in un’occasione persa. «Se a tutto questo si aggiunge che a differenza di altri Paesi, come Portogallo e Grecia, che hanno rifiutato a prestiti e hanno accettato solo sussidi irredimibili, abbiamo preso molti soldi che dovranno essere ripagati è evidente che non solo non c’è terapia choc, ma siamo in zona pericolo se il tasso di crescita non supererà il tasso di indebitamento».

La componente “Politiche per il lavoro” mira ad accompagnare la trasformazione del mercato del lavoro
con adeguati strumenti che facilitino le transizioni occupazionali; a migliorare l’occupabilità dei
lavoratori; a innalzare il livello delle tutele attraverso la formazione

 

Busetto (Anie-Siemens): perché va posto, ancora di più, l’accento su Transizione 4.0

Giuliano Busetto, head of digital industries della filiale italiana di Siemens e presidente di Anie

Entrando più nel dettaglio delle misure pro industria, all’interno del piano sono rilevanti le modifiche apportate al pacchetto Transizione 4.0. Ne abbiamo parlato con Giuliano Busetto, presidente di Federazione Anie, l’associazione di categoria afferente a Confindustria, che rappresenta 1300 imprese elettriche ed elettroniche con un fatturato aggregato di 78 miliardi di euro circa. Busetto è anche a capo di Digital Industries in Siemens Italia. «Ci sono a mio avviso molte  luci e alcune ombre: è positivo che Transizione 4.0, prima ancora della presentazione del Pnrr, sia stato vagliato dal Parlamento, e che quindi abbia ora una continuità di due anni, il 2021 e 2022. Invece può destare sorpresa che nonostante fosse stato stimato un impatto consistente in termini di possibili investimenti di 23,8 miliardi di euro, sia infine stata ridotta la copertura del Recovery Fund a soli 11 miliardi in due anni. Mentre la parte restante pesi sul fondo integrativo nazionale, ovvero prevede si vada in deficit». Incrementare il debito non è una prospettiva da salutare con favore in un momento in cui si tenta di dare slancio a una ripresa che si sta manifestando oltre a essere nelle stime degli economisti. 

«Tuttavia l’auspicio è che ci sia maggiore attenzione sul piano Transizione 4.0 di per sé, per l’apporto concreto che esso può portare al rilancio della manifattura e dunque al nostro Pil in un contesto in cui, se aumenta ancora il debito, è a maggior ragione necessario potenziare». L’effetto del piano non è solo quello diretto per chi ha, investendo in tecnologie 4.0, il beneficio fiscale dato dal Credito d’imposta, ma anche quello indiretto per le pmi vocate all’export, che traggono beneficio dallo sviluppo delle tecnologie abilitanti, rendendo le macchine più 4.0 related, quindi più competitive sul mercato internazionale (e portando infine una ricaduta positiva sul Pil). «Nel nuovo Piano Transizione 4.0 sono stati estesi gli importi per tutte le categorie di investimenti, con aliquote interessanti e con la soglia portata a 20 milioni di euro. Una decisione che indurrà la possibilità di investire non più solo in singole macchine, ma aprirà all’acquisto di interi impianti 4.0», dice Busetto. E con questi fondi possono essere eseguiti progetti green: bisogna dire forte e chiaro che, in ossequio alla richiesta che gli stanziamenti del Recovery fund siano impiegati per non danneggiare le generazioni future, la digitalizzazione aiuta molto la sostenibilità. «Con i software industriali si può fare ingegneria a distanza, con un gemello digitale si può simulare qualsiasi prodotto e processo, anticipando errori nella fase di costruzione, riducendo il time to market e conseguentemente i tempi di lavorazione e gli scarti – spiega il manager – Con il virtual commissioning si può, ancora, simulare la messa in servizio di una macchina a distanza: sono tutti esempi che inducono alla sostenibilità».

E che la digitalizzazione sia a tutto tondo, ovvero pervada anche il tema delle infrastrutture e quello della riforma della pa è un ulteriore importante valore aggiunto. «Le infrastrutture fisiche, la rete di porti, la logistica, la tav: sono tutti interventi per aiutare lo sviluppo del Paese, aumentarne pil e competitività – dice Busetto – per realizzarli in Italia, dove l’orografia del territorio è complessa e frastagliata, servono investimenti più massicci che in Francia e Germania, senza considerare il gap che esiste tra le diverse realtà». Ora resta da capire quanto efficacemente tutto sarà attuato. «Tutto è stato dato in gestione al Ministero delle finanze, che però deve essere sostenuto, aiutato io credo dalle competenze tecniche che possiamo mettere a disposizione. Mi auguro che la cabina di regia sia quindi composta da esperti di finanza affiancati da esperti tecnici, con le giuste competenze atte finalmente allo sviluppo sostenibile del nostro paese».

La Componente 2 della Missione 1 ha l’obiettivo di rafforzare la competitività del sistema produttivo
rafforzandone il tasso di digitalizzazione, innovazione tecnologica e internazionalizzazione attraverso
una serie di interventi tra loro complementari

Moioli (Microsoft): per la prima volta le tecnologie abilitanti sono trattate come la chiave della crescita sistemica

Fabio Moioli, head Consulting & Services di Microsoft Italia

L’Italia sconta un forte deficit in termini di digitalizzazione, come ogni anno ci ricorda l’indice Desi della Commissione europea. Siamo quart’ultimi nell’Europa a 27, e fanno peggio di noi solo Bulgaria, Romania e Grecia, che però non sono Paesi manifatturieri com’è l’Italia. Il Pnrr può cambiare le cose su questo piano? Sì, secondo Fabio Moioli, direttore della Divisione Consulting Services di Microsoft Italia che ha l’obiettivo di supportare le aziende italiane nel percorso di digitalizzazione e di adozione delle più innovative tecnologie digitali. «Il Pnrr mi sembra efficace sul fronte della tecnologia, avendo combinato investimenti massicci di livello micro, con riforme abilitanti – dice Moioli – L’impressione è che l’impianto miri a diventare esecutivo nel breve, in quanto ogni previsione è direttamente legata all’azione. C’è anche un sostanziale investimento sulla ricerca, che in Italia in particolare è sempre Cenerentola»Il piano rappresenta per Moioli «un’opportunità unica per le pmi a patto che le si accompagni: il 18% infatti non prevede di fare investimenti e solo 2 imprenditori su 10 in Italia investono in formazione Ict, che invece è fondamentale». Non solo alla missione della digitalizzazione – che è appunto il core di tutta la tecnologia – sono state assegnate il 27% delle risorse disponibili (circa 49 miliardi). Ma intorno a questo cardine, «la tecnologia pervade ogni altra delle sei missioni: la transizione ecologica ha profonde implicazioni tecnologiche, così come le connesse infrastrutture per la mobilità che diventa sempre più elettrica. Quando parliamo di queste cose parliamo delle tecnologie abilitanti sottostanti».

Lo stesso dicasi per il capitolo healthcare, dove Moioli sottolinea il forte commitment in ottica di innovazione, con accenni diretti «all’uso dell’intelligenza artificiale per esempio, per la diagnostica, per le terapie complesse, per il patient caring anche a distanza», dice l’esperto. Gli esempi di utilizzo dell’Ai sono moltissimi: «dai progetti di droni per il monitoraggio degli scarichi illegali; dall’analisi e verifica di impatto della regolazione, con particolare riferimento all’efficacia delle iniziative normative e agli effetti sui destinatari nella pa; allo sviluppo di un data lake per analizzare (in forma anonima) i dati sul comportamento online degli utenti e i flussi turistici in aree di maggiore e minore interesse, al fine di una migliore segmentazione della domanda». Ma il piano prevede soprattutto il potenziamento di strutture di ricerca e creazione di «campioni nazionali di R&S su alcune Key Enabling Technologies». Misura che porterà alla creazione di un numero massimo di 9 centri di ricerca nazionale, su alcune tematiche come intelligenza artificiale, ambiente ed energia, quantum computing, idrogeno, biofarma, agritech, fintech, scienza quantistica e tecnologie dei materiali avanzati, mobilità sostenibile, tecnologie applicate e patrimonio culturale. Insomma, conclude Moioli, «mi sembra davvero ci sia tanta tecnologia e innovazione, ovunque nelle pieghe del piano. Ed è quello che ci serve di più a livello di sistema Paese. La vera sfida ora sarà realizzare queste linee guida a elevato potenziale».














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