Perché la trade war di Trump danneggia l’industria italiana

di Laura Magna ♦︎ La guerra commerciale provocherà una contrazione dell’export – vero motore trainante della debole crescita del nostro Paese – che nel 2020 sarà in calo dell 0,6%. La frenata per l’economia globale varierebbe tra lo 0,5% e l’1,7%

La trade war? Potrebbe essere il colpo di grazia per la già ferita economia italiana. Questo effetto collaterale non è certamente l’aspetto più dibattuto della infinita guerra commerciale tra Cina e Usa – di recente allargata in verità anche a India, Messico ed Europa, ma sicuramente per il nostro punto di vista il più rilevante.

Sono diverse le ragioni per cui dovremmo preoccuparci delle nuove tariffe e della tensione protezionista usate come bandiere da Donald Trump per perorare la causa del suo “America first”. La prima di carattere generale è che, qualora il conflitto non dovesse ricomporsi, ciò avrebbe un impatto negativo diretto sui mercati emergenti, ovvero quelli che stanno trainando la crescita globale: la conseguenza sarebbe un rallentamento globale che impatterebbe soprattutto sulle economie più deboli e indebitate. L’Italia è tra esse. Ma non basta. Almeno dal 2010, l’unico fattore che cresce per il nostro Paese è l’export (+6,4% fino al 2017, secondo Sace) mentre tutti gli altri contributori del Pil, ovvero consumi, investimenti pubblici e privati, registrano un netto segno meno. Se oggi le previsioni per la crescita si attestano allo 0,3% nel 2019 – ultime stime Istat – possiamo solo immaginare che il dato passi al negativo con la frenata del commercio mondiale. Che in effetti è già iniziata. Ma potrebbe acuirsi. Tradotto in numeri, l’impatto della guerra commerciale sull’export italiano nel 2020 sarebbe dello 0,6% in meno; dell’1,1% in calo per le vendite verso gli Usa e di -1% per quelle verso la Germania.







Inoltre, anche se lo scontro non dovesse assumere le proporzioni apocalittiche che qualcuno – pochi in verità – si attende, l’incertezza che domina i mercati basterebbe a far crollare la fiducia di famiglie e imprese e a rimandare decisioni e investimenti.

Ne abbiamo parlano con Lucia Tajoli, ordinario di politica economica alla School of Management del Politecnico di Milano, e con Patrizio Bianchi, ordinario di economia industriale e rettore dell’Università degli Studi di Ferrara.

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump

Le tappe della trade war

Prima però cerchiamo di ricostruire le vicende salienti relative alla guerra combattuta a suon di dazi e di tweet. Le date topiche sono due: una nel futuro, i prossimi 28 e 29 giugno, in occasione del G20 di Osaka dove Donald Trump e Xi Jinping dovrebbero discutere ancora per trovare un accordo. E una nel passato prossimo, lo scorso 10 maggio, giorno del fallimento dell’undicesimo round di trattative, che si è svolto a Washington. Da quella data sono entrate in vigore le nuove tariffe (al 25% dal precedente 10%) su circa 200 miliardi di dollari di prodotti importati dalla Cina agli Usa. La Cina ha subito risposto con inasprimenti su circa 60 miliardi di merci in arrivo dagli Usa. Nel 2018 Trump aveva già imposto dazi su 250 miliardi di dollari di prodotti made in China importati negli Stati Uniti, ai quali Pechino aveva risposto con tariffe su 121 miliardi di export americano, colpendo prevalentemente prodotti chiave come la soia e il Gnl (Gas naturale liquefatto).

Non solo. Trump ha continuato ad alzare il tiro minacciando di ampliare a tutte le merci in arrivo dalla Cina le nuove tariffe (per ulteriori 300 miliardi di dollari) e puntando anche direttamente all’Europa: i prodotti europei minacciati avrebbero un valore di 11 miliardi di dollari e comprendono diverse categorie merceologiche, dall’aeronautica, ai prodotti alimentari, fino all’industria tessile, alla plastica e la carta (l’elenco completo dei prodotti in lista è disponibile sul sito dell’USTR – United States Trade Representative).

Il costo per le diverse economie è variabile in base alle tariffe che saranno effettivamente applicate e alle ritorsioni che gli Stati faranno verso gli Usa, ma in ogni caso è un costo pesante e in alcuni casi insostenibile. Possibili scenari globali li ha disegnati Oxford Economics, secondo cui agli Usa la trade war può costare, nel 2020, dallo 0,3% del Pil nella situazione attuale allo 0,5% in caso di applicazione delle maggiori tariffe su tutti i beni importati dalla Cina, fino al 2,1% nello scenario Armageddon, in cui la guerra si estenda a tutto il mondo. Per la Cina il prezzo da pagare varia tra lo 0,8% al 2,5%, passando per l’1,3% dello scenario intermedio. La frenata per l’economia globale varierebbe tra lo 0,5% e l’1,7%.

Grafico di Oxford Economics che stima i cali per le economie globali

L’incertezza è già sufficiente ad affossare i conti dell’Italia

«L’Italia non è stata colpita direttamente perché i dazi attualmente in vigore hanno rilevanza solo marginale per il nostro Paese. Ma è chiaro che la tensione commerciale pesa e uno dei problemi maggiori è che l’Italia potrebbe essere colpita dalla trade war indirettamente attraverso la Germania verso cui siamo esportatori. Anche se si esclude lo scenario peggiore, nel 2018 gli scambi mondiali hanno segnato una crescita a +3,5%, in forte rallentamento sul 2017, attestandosi a un valore inferiore alle stime», dice a Industria Italiana Lucia Tajoli. Il motivo principale per cui il rallentamento è preoccupante per l’Italia è che sull’export si è basata la debole crescita «dell’economia negli ultimi dieci anni: una frenata di questo parametro riduce quella importantissima fonte di crescita che ci ha impedito finora di finire in recessione». Non solo.

Non è scontato che la guerra inscenata da Trump funzioni. «La Cina sta cercando di spostare il suo modello di crescita sui consumi interni e dunque le minacce potrebbero fare meno effetto rispetto a un po’ di tempo fa. Inoltre gli Usa contano molto meno rispetto a dieci o venti anni fa e il rischio vero è che vengano sempre più marginalizzati nei mercati globali, se si prosegue sulla via della guerra senza quartiere. Le imprese Usa che fanno produzione all’estero vengono colpite direttamente e indirettamente dai dazi di ritorsione. Tutto sommato, l’economia americana non ha interesse a essere autosufficiente e come si vede un anno di dazi non ha avuto effetti sul disavanzo». Ciononostante, anche se la guerra dovesse rientrare, l’incertezza causata da essa nel frattempo potrebbe avere un effetto altrettanto pericoloso.

«Lo scenario è terribilmente incerto. Non credo che ci sarà un’esplosione complessiva della guerra commerciale, che in fondo solo Trump sembra volere fortemente, probabilmente sottovalutandone gli effetti. Lo stesso Congresso americano a inizio giugno ha obiettato rispetto alla proposta di dazi verso il Messico. Ma come abbiamo visto nei mesi scorsi, anche se non si verificherà lo scenario peggiore, le tensioni provocano un calo della fiducia, degli investimenti e dunque della crescita». Sommando i due effetti, rallentamento dell’export globale e incertezza, a rischiare di essere colpiti pesantemente sono innanzitutto gli emergenti, «ovvero quella parte del mondo che ha trainato di fatto la crescita globale negli ultimi anni, provocando un rallentamento globale serio» e poi le economie occidentali più fragili, «che dall’export dipendono e che hanno una situazione scricchiolante anche in termini di debito pubblico».

Perché senza export l’economia italiana crolla

Un rallentamento dell’export è un disastro per la crescita del Pil. Vediamo perché, facendo riferimento innanzitutto agli ultimi dati. Nel primo trimestre del 2019 il Pil, espresso in valori concatenati con anno di riferimento 2010, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, è aumentato dello 0,1% rispetto al trimestre precedente ed è diminuito dello 0,1% nei confronti del primo trimestre del 2018 (dati Istat).

«La domanda nazionale al netto delle scorte ha contribuito per +0,2 punti percentuali alla crescita del Pil: +0,1 punti i consumi delle famiglie e delle Istituzioni Sociali Private (Isp), +0,1 punti gli investimenti fissi lordi e un contributo nullo la spesa delle Amministrazioni Pubbliche (Ap). L’apporto della domanda estera netta è risultato positivo per 0,5 punti percentuali». La domanda estera è quella, da sempre, che traina la crescita italiana, per quanto debole. Se essa di riduce, il Pil crolla. Nel 2018, anno dello 0 virgola, l’export ha segnato cali mensili anche di mezzo punto per la maggior parte dei mesi dell’anno (dati Istat).

Per il 2019, nelle stime di crescita dello 0,3% in termini reali, Istat stima la domanda interna in crescita dello 0,3% e l’apporto dell’estero nullo. Con rischi «al ribasso rappresentati da una ulteriore moderazione del commercio internazionale e da un possibile peggioramento delle condizioni creditizie legato all’aumento dell’incertezza e all’evoluzione negativa degli scenari politici ed economici internazionali».

Che l’export sia stato l’unico driver di crescita per l’Italia tra il 2010 e il 2017 lo spiega, ancora, Sace qui .Mentre consumi privati (-1%), spesa pubblica (-0,8%), investimenti (-3,1%) e import (-2,3%) hanno segnato tutti valori in calo, l’export è cresciuto del 6,4%.

L’impatto della guerra commerciale sul Pil domestico

Quali sono, in termini numerici, i possibili danni per l’Italia? Una risposta è contenuta nell’ultimo rapporto sul commercio estero di Sace Simest.

«Qualora Washington decidesse, nel corso del 2019, di imporre un dazio del 25% su tutti i prodotti provenienti da Pechino e sulle importazioni di autoveicoli dal mondo (esclusi soltanto Messico e Canada, con i quali è stata raggiunta un’intesa per la modernizzazione del Nafta – ora denominato Usmca), le ripercussioni negative si estenderebbero a macchia d’olio sull’intero sistema del commercio internazionale. In caso di una simile escalation, le esportazioni italiane di beni verso il mondo aumenterebbero più lentamente (-0,2 punti percentuali nel 2019 e -0,6 p.p nel 2020), con impatti ancora più marcati per le nostre vendite verso gli Stati Uniti (-0,7 p.p. nel 2019, -1,1 p.p. nel 2020). A questo vanno aggiunti gli effetti di ulteriore rallentamento che una simile escalation potrebbe avere sull’economia cinese (con conseguenze a cascata su altre economie emergenti). Questo aggraverebbe ulteriormente l’impatto sulle esportazioni italiane di beni complessive, le quali sarebbero inferiori di 0,8 p.p. nel 2019 e 1,7 p.p. nel 2020», si legge nel report.

Infine non è da sottovalutare l’eventuale rallentamento della Germania, prima geografia di destinazione delle nostre merci e, più in generale, un’economia strettamente connessa a quella italiana. Una frenata più marcata del previsto influenzerebbe in maniera negativa l’export italiano.

Spiega Tajoli: «La Germania esporta molto più di noi verso la Cina e il rallentamento che ha subito l’economia tedesca dalla guerra commerciale è stato molto più forte che per noi. L’effetto la Germania lo ha già subito molto forte. Sempre secondo Sace, la combinazione della guerra commerciale e Brexit senza accordi, provocherebbe un calo dell’export italiano verso la Germania nel 2019 di oltre mezzo punto percentuale in meno, dal 2,7% al 2,2% e per il 2020 oltre un punto. L’effetto verso la Francia soprattutto per il 2020 è ancora peggiore. Sul mercato europeo l’effetto sarebbe serio e siccome metà del nostro export va in Europa dobbiamo aspettarci un rallentamento serio del nostro export».

Effetti della guerra commerciale: Rapporto Export 2019 Sace Simest

Guerra di tutti contro tutti che colpisce i produttori di macchine

Più precisamente, l’Unione Europea vale oltre 500 miliardi di scambi per l’Italia, il 58% del totale con il mondo. Lo rileva un calcolo della Camera di Commercio di Milano Monza e Brianza e Lodi insieme a Promos Italia su dati Istat, anni 2018 e 2017. La Lombardia è la prima regione con quasi un terzo del totale nazionale (161 miliardi, +5.6%), seguita da Veneto, Emilia Romagna e Piemonte. Ovvero le regioni che trainano grazie all’industria l’intero Paese e che saranno le più colpito da un calo dell’export. Germania, Francia, Spagna e UK sono i maggiori partner. In particolare la Germania vale 128 miliardi, la Francia quasi 85, la Spagna 44,6 e il Regno Unito 34 miliardi. Ci sono diversi motivi, che attengono a questi volumi verso l’Europa, per cui l’Italia sarà danneggiata da una questa commerciale generalizzata. Che tale è secondo Patrizio Bianchi, professore di economia a Ferrara.

«Il dato che rileva è che Trump ha dovuto allargare il quadro, attaccando anche l’India a cui ha tolto i vantaggi assegnati e allo stesso Messico. Trump è intervenuto persino su Brexit spingendo perché non si facesse un accordo. Quando si comincia una guerra commerciale diventa una guerra di tutti contro tutti, in cui i produttori di mezzi di produzione sono i primi danneggiati». L’Italia è un produttore di strumentazione meccanica ed è fornitore privilegiato di macchine alla Germania e anche agli Usa, che sono senza dubbio i due mercati principali per questo export. «L’impatto sarà forte su tutta l’Europa e l’Europa deve farsi sentire. La guerra commerciale aumenta la forte instabilità monetaria e avrà un effetto sui tassi di crescita complessivi».

Interscambio con Ue a 28 per Paese in Lombardia e in Italia

Un’occasione di nuova unione per l’Europa

Un altro aspetto da non sottovalutare secondo Bianchi è che «già dal 2015 si sia ridotto il tasso di crescita delle esportazioni reali mentre ha continuato ad aumentare il tasso di crescita degli scambi digitali. Questo deve farci riflettere perché modificherà in maniera sostanziale la natura del commercio. Con la conseguenza che si creerà una divaricazione tra economie avanzate basate sui prodotti digitali e produttori di mezzi reali: la batosta sarà pesante per i Paesi europei che hanno poca capacità di dire la loro nei servizi a elevato valore aggiunto.  L’allargamento della guerra commerciale non è un problema locale, ma di tutta l’Europa e rispetto a questo non vedo alcuna reazione». Come se la stessa Europa stesse sottovalutando i rischi connessi. Proprio nel momento in cui nel nuovo Parlamento e per la prima volta da venti anni non ci sarà una maggioranza Cdu-Ppe, per via dell’ascesa dei partiti populisti, ben lontani da una maggioranza, ma titolari di una fetta superiore al 20% che potrebbe essere rilevante in sede di votazioni in Commissione.

«Senza dubbio l’ascesa dei Paesi populisti in Europa che porta con sé una visione sovranista diventa pericolosa per paesi e regioni esportatori. In Europa esiste già una forte divaricazione tra regioni che vivono di mercato globale e altri Paesi. Se l’Europa non si muove in materia unitaria aumenteranno le spaccature. Gli sforzi dell’Ue in questi anni sono stati rivolti a politiche interne dei Paesi sui parametri di Maastricht piuttosto che occuparsi del valore complessivo che possiamo esprimere. Questa emergenza sul commercio internazionale richiede più che mai una riorganizzzione intera dell’Europa».














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