Per le macchine utensili una botta di vita! Però nel futuro…

di Gaia Fiertler ♦ Il settore è strategico e fornisce indicazioni importanti su tutta la manifattura italiana.  Ad oggi, si lascia largamente alle spalle gli anni di crisi. Ma per le aziende più piccole è stato più faticoso. Quali strategie per le prossime sfide ? Le indicazioni di EY 

La buona notizia è che l’Italia presidia saldamente il quarto posto tra i produttori mondiali di macchine utensili. Il settore è in buona salute, e ha affrontato la crisi con un basso tasso di indebitamento che ha consentito di continuare a investire anche dopo l’anno peggiore, il 2009. Il comparto ha infatti recuperato e superato il periodo pre-crisi, con un giro di affari di 5,5 miliardi di euro, che rappresenta il 7,3% del mercato globale (75,1 miliardi di euro); siamo quarti dopo la Cina (28,9%), la Germania (15,7%) e il Giappone (14%). La crescita media composta annua è stata dell’1,9% misurata nel periodo 2008-2016, che sale al 7,9% se si prende in considerazione come inizio il 2009, anno in cui c’è stato un azzeramento dei ricavi netti e un leggero rialzo dell’indebitamento.

 







 

Tuttavia, subito dopo, grazie alla solidità finanziaria del settore c’è stato un significativo miglioramento della struttura finanziaria con un rapporto debito netto/Ebitda (marginalità lorda) sceso progressivamente fino allo 0,4x nel 2016, con una partenza al 3,1x nel 2009 (era 1,3x nel 2008). L’Ebitda in questi anni si è attestato al 9-10%.

 

 

 

Ey, l’organizzazione mondiale che fornisce servizi professionali di revisione e organizzazione contabile, assistenza fiscale e legale e consulenza in ambito corporate finance, ha analizzato lo stato finanziario del settore delle macchine utensili attraverso l’analisi di 165 imprese associate a Ucimu-Sistemi per produrre, quelle (su di un totale di 220) con i risultati confrontabili tra il 2008 e il 2016.

 

 

Gianni Panconi, partner Ey M&A-Med Tas Industrial Product Leader all’ultima edizione di Bi-Mu

 

La cattiva notizia, se così si può dire, è che le aziende non hanno retto al colpo tutte nello stesso modo e, suddividendo il campione in quattro cluster in base al fatturato, (sotto i 10 milioni di euro, tra i 10 e i 50 milioni e i 50 e i 100 milioni di euro e sopra i 100 milioni di euro), emerge che le più piccole hanno sofferto un po’ di più, con un tasso di Ebitda più basso e quello di indebitamento leggermente più alto. «Le più grandi hanno reagito bene e soprattutto le medie si sono rivelate le più resilienti alla crisi di mercato, rispondendo in modo agile grazie a una struttura finanziaria sufficientemente solida per continuare a investire in soluzioni personalizzate e apertura di nuove opportunità, che hanno portato a una crescita dei ricavi netti – spiega Gianni Panconi, partner Ey M&A-Med Tas Industrial Product Leader – Le più piccole invece hanno patito un po’ di più, non avendo né le dimensioni, né la massa critica per sostenere investimenti dopo il crollo generale dell’Ebitda nel 2009.»

« Ad ogni modo, tutte le imprese del campione considerato hanno recuperato e oltrepassato i livelli pre-crisi. La specialità delle nostre aziende è infatti la flessibilità, il co-design e la capacità produttiva, che ci consentono di ritagliarci delle nicchie di mercato, laddove Paesi a più alta industrializzazione come la Germania non arrivano perché hanno strutture più rigide e standardizzate. Il limite può essere quello della crescita e dell’appetibilità per capitali stranieri, come per accordi e partnership in un mercato che sarà sempre più competitivo, rischiando di avere sempre meno voce in capitolo come singole imprese.» In sostanza, piccolo è bello e ha i suoi vantaggi, ma a certe condizioni. Le più piccole, sotto i dieci milioni di euro, per esempio, sono quasi la metà del campione (47%) con il 7% del fatturato, mentre le grandi sono solo l’8% per dimensioni, ma coprono il 50% del fatturato e le medie il 45% con il 43% del fatturato.

 

 

È evidente la necessità di trovare nuove strade per aumentare la massa critica e la valutazione da parte di capitali stranieri, visto tra l’altro che, quelle che per noi sono aziende medie sotto i 100 milioni di euro, per i parametri esteri sono piccole. Tuttavia, come comparto, l’Italia con la Germania contribuisce a posizionare l’Europa al secondo posto nel mondo con il 36,1% del mercato (27,1 miliardi di euro), battuta solo dall’Asia con il 46% (42 miliardi di euro); oltre la metà della produzione italiana (58%) è destinata all’estero, prevalentemente nei paesi che sono anche i più grandi produttori, a pari merito Germania e Cina con il 10,8% del valore e a seguire Usa con il 10%, dove ci ritagliamo spazi considerevoli.

Tra il 2008 e il 2016 i deal del comparto sono stati 33, nella maggioranza dei casi sotto forma di acquisizioni di realtà più piccole e per un 10-15% con ingresso nel capitale societario di fondi di private equity sia italiani che internazionali. «Dall’analisi di questi casi emerge che abbiano risultati finanziari migliori di quelli delle altre aziende del settore, sia per crescita media annua, sia per profittabilità. Partivano già con livelli di Ebitda più alti, ma dopo il deal la forbice si è ulteriormente ampliata. Se ne può trarre senza alcun dubbio che cresce e si consolida più velocemente chi non ha paura di aprire a terzi il proprio assetto societario (fondi), né di fare acquisizioni. Ovviamente va studiata la soluzione migliore in base al business e alla strategia della singola azienda», commenta Gianni Panconi.

 

 

In generale sono due le strade proposte da Ey. Per le imprese dai 20 milioni di euro in su, una crescita per acquisizioni con finanza straordinaria e, rispetto all’internazionalizzazione, joint-venture e partnership anche commerciali, che assicurano tempi più rapidi di sviluppo della produzione e della distribuzione nei nuovi mercati di sbocco. Per le imprese sotto i 20 milioni di euro, invece, la strada più percorribile sembra essere quella del consolidamento interno sia in termini di governance,  dotandosi di una struttura manageriale realtà che sono ancora molto spesso di stampo familiare, sia federandosi con altre aziende della filiera, facendo gruppi d’acquisto e creando anche nuove società (newco) per unire le forze, le competenze, ridurre i costi e avere più capacità negoziale sui prezzi negli acquisti e nella vendita e aprirsi quindi, anche loro, al processo di internazionalizzazione.














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