Nelle bozze del Recovery Plan l’industria è praticamente assente

di Filippo Astone ♦︎ Quello che dovrebbe essere il principale driver di crescita del paese viene toccato solo di striscio nel documento del governo. Completamente trascurata la componentistica auto, così come macchinari, chimica, farmaceutica e siderurgia. Eppure, si pensa di erogare 17,2 miliardi per parità di genere e coesione territoriale e 9 miliardi per la Salute. Un mare di soldi distribuiti per accontentare un po’ tutti, che rischiano di non servire a nessuno

C’è una famiglia in cui padre e madre lavorano, ma sono molto indebitati e devono mantenere due figli e due nonni. Questa famiglia ha la fortuna di essere proprietaria di un’azienda un po’ sgangherata ma funzionante, e di qualche immobile. Un brutto giorno, i due capofamiglia si ammalano. La malattia dura quasi un anno intero: per tirare avanti e non vedersi pignorare l’azienda e gli immobili, continuando a mantenere altre quattro persone che non lavorano, i due capofamiglia devono fare altri debiti. Quando la malattia finisce, hanno due possibilità. La prima è di guadagnare di più col loro lavoro, ristrutturando e rilanciando la loro azienda, e riuscire così a ripagare gli interessi mostruosamente alti su debiti ancora più mostruosamente alti. Ma per mettere in pratica questa chance devono avere denari da destinare a investimenti. La seconda possibilità è di rimanere così come sono, fino a quando i debiti non li divoreranno, costringendoli a vendere gli asset di famiglia e a togliere risorse ai nonni e ai figli, gettandoli nella miseria, insieme a se stessi. Per fortuna però arriva uno zio ricco, che rende loro praticabile la prima possibilità. Lo zio dice loro: vi darò un bel po’ di soldi, da spendere per rinnovare, rilanciare e far crescere la vostra azienda un po’ sgangherata ma tutto sommato valida. Così, coi soldi generati dal rilancio della vostra attività, potrete pagare i debiti fatti per sopravvivere durante la malattia, e magari, nel giro di qualche anno, riuscirete perfino a stare un po’ meglio di prima. La famiglia prende questi soldi, si dà alla pazza gioia, e quasi si dimentica del loro scopo. Li spende perché la figlia abbia pari opportunità rispetto al figlio (anche se la destinazione dei denari è incerta) e avendo come criterio principale una discutibile idea di giustizia sociale a breve termine tra i suoi membri. E li disperde in mille rivoli. Mentre per l’azienda resta, forse, meno della metà di quei soldi. Che succederà in futuro a quella famiglia?

Solo l’industria può garantire lo sviluppo economico indispensabile alla coesione sociale, al pagamento del maggior debito pubblico d’Europa, a non ritrovarsi nella situazione che nel 2011 produsse la macelleria sociale di Monti e della Fornero. Ma le bozze del Recovery Plan sembrano non tenerne conto

Il presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte. Immagini messe a disposizione con licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT

La metafora è appropriata per l’Italia alle prese con la scrittura del Recovery Plan, ovvero le scelte di destinazione dei soldi, circa 196 miliardi di euro, messi a disposizione dall’Unione Europea attraverso il Recovery Fund. “Recovery Plan” tradotto letteralmente significa piano di recupero. Se si esaminano con attenzione le bozze, come faremo noi più avanti, vengono i brividi: di denaro destinato al recupero vero e proprio ce n’è forse la metà. Emerge la totale mancanza di attenzione verso progetti industriali finalizzati alla crescita economica. Già, perché solo l’industria può garantire quella crescita economica indispensabile in futuro. Solo l’industria: lo diciamo chiaramente e senza ipocrisie. Perché l’industria (che genera direttamente il 20% del pi italiano l e indirettamente quasi il 60%) ha un effetto moltiplicatore che gli altri settori non hanno, e fa vivere le banche, la finanza, i servizi. E genera ricchezze tali da sostenere il turismo, i consumi, la cultura, l’agricoltura e l’alimentare. E crea posti di lavoro stabili più degli altri, con contratti nazionali e i più bassi tassi di precariato. E gli stipendi più alti, soprattutto nel chimico-farmaceutico e nel manifatturiero avanzato. Questo non accade con il turismo. Non accade con l’agricoltura. Non accade con i beni culturali. Accade poco con la finanza e meno ancora con i servizi. L’Italia ha bisogno di irrobustire e far crescere la sua industria, seconda in Europa e settima al mondo. Industria Industria. Industria. Nient’altro che industria.







L’industria del pharma in Italia. Fonte Farmindustria

I settori portanti della manifattura italiana non vengono neppure citati. Non bastano le tecnologie abilitanti se non si fanno crescere ed evolvere gli abilitati

Eppure, nelle bozze del Recovery Plan che ci è toccato leggere, non si parla mai di progetti specifici per i quattro settori portanti della nostra manifattura: componentistica auto; produzione di macchinari in vari comparti che vanno dal packaging alle macchine utensili; chimica e farmaceutica (siamo i primi produttori farmaceutici in Europa…); siderurgia (secondi in Europa dopo la Germania). Non vengono neppure citati. L’industria è presente solo a livello di tecnologie abilitanti (Ict, 5G, IoT, informatizzazione e digitalizzazione a vari livelli) che certamente sono importantissime. Ma che perdono gran parte del loro effetto se non evolvono anche i settori in cui quelle tecnologie devono trovare applicazione. Poi, certo, c’è l’effetto trascinamento sull’Industria provocato da alcuni investimenti nella Transizione Verde, nella mobilità, nella ristrutturazione degli edifici e nelle infrastrutture. Ma è un effetto secondario. Un “di cui”, di cui l’industria beneficerà indirettamente e non fa certo la parte di Protagonista che le spetterebbe in un vero piano di crescita economica. Enormi perplessità (ed è un eufemismo), e lo vedremo meglio più avanti, destano i 17,2 miliardi in Parità di genere e coesione territoriale e i 9 miliardi destinati al capitolo Salute: la cifra è del tutto insufficiente, e forse questi fondi dovrebbero provenire dal Mes (che ne mette a disposizione addirittura 36) e non dal Recovery Plan, che ha finalità completamente diverse.

Risorse disponibili e politiche di rilancio. Fonte PIANO NAZIONALE DI RIPRESA E RESILIENZA

La rinuncia volontaria ad alcuni investimenti! Leggendo le bozze, emerge un altro dato che spaventa: la rinuncia volontaria ad alcuni possibili investimenti, nella quasi certezza di non riuscire a renderli produttivi.  Lo ha messo bene in evidenza Federico Fubini sul Corriere della Sera dello scorso 8 dicembre. « La bozza precisa che la parte di prestiti del cuore del Recovery Plan italiano– 127,6 dei 196 miliardi del «Dispositivo di ripresa e resilienza» – sarà spesa in nuovi progetti aggiuntivi solo per 40 miliardi. Anche il resto dei prestiti verrà usato, ma per finanziare piani preesistenti a costi un po’ più bassi di quelli che il governo sosterrebbe sul mercato. In sostanza la quota netta di investimenti supplementari del Recovery Fund scende da 208,6 miliardi a circa 120», scrive Fubini. «La ragione è evidente: il governo non vuole aggiungere investimenti in più – benché magari utili alla ripresa – per non far salire ancora il debito. Ma è tutto qua? Forse no. Se dal Duemila lo Stato italiano avesse investito come nella media della zona euro, in proporzione al prodotto lordo, avrebbe impiegato 196 miliardi in più», prosegue l’editorialista. «Dunque il ritardo da colmare è colossale e il costo del debito per farlo oggi è quasi zero. Il fatto che il governo rinunci in partenza a 88 miliardi di investimenti supplementari è la spia di un’insicurezza di fondo: qualcuno deve temere che la politica e l’amministrazione italiane non siano in grado, oltre una certa misura, di eseguire nei prossimi anni investimenti validi: quelli con rendimenti positivi, che si ripagano da sé e dunque non creano problemi di sostenibilità del debito». L’articolo completo si può trovare qui: https://www.corriere.it/economia/finanza/20_dicembre_08/recovery-plan-ecco-che-cosa-funziona-quello-che-non-va-bene-4e7fd678-399e-11eb-97f0-6f118c19c928.shtml

Da recuperare c’è moltissimo: siamo i peggiori d’Europa a livello di debito e di perdita di pil. Se non provvediamo, a breve arriverà una situazione analoga a quella che ha prodotto il Governo Monti, con pesanti tagli su welfare e pensioni

Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea

L’Italia, per stare in piedi nei prossimi anni, ha bisogno di far crescere notevolmente il suo pil, in modo da recuperare la ricchezza persa col Covid e riuscire a garantire occupazione e prosperità agli italiani, pagando anche gli interessi sul debito, che nel frattempo è diventato elevatissimo. Qualche numero basterà a farlo capire. La contrazione attesa del nostro pil nel 2020 del Covid e del lockdown è infatti del 9,5%, rispetto all’8,2% della Francia; al 6,5% Germania; al 6,5% degli Stati Uniti e all’8,3% del Regno Unito. La nostra fragilità, insomma, ci ha reso i più esposti d’Europa. Ci batte perfino, anche se per un soffio, la Spagna, che perderà il 9,4% di pil. Con il Covid l’Italia ha consolidato e rafforzato la posizione di Paese più indebitato d’Europa e fra i più indebitati al mondo. Le risorse necessarie a sostenere l’economia nella fase di lockdown faranno crescere il debito pubblico italiano a fine 2020 a quota 2.540 miliardi, cifra che aumenterà ancora nel 2021 e nel 2022 e in tutti gli anni successivi. In pratica, ogni cittadino italiano – compresi i lattanti – ha un reddito pro capite medio di 26 mila euro ed è intestatario di una quota di debito pubblico pari a 42 mila euro. Niente male. I 2.540 miliardi italiani sono superiori ai 2.516 della Francia, ai 2.364 della Germania e ai 2.248 del Regno Unito. Ma se si guarda al rapporto debito/pil il confronto è ancora più penalizzante. In Italia è pari al 158,9%, rispetto al 116,5% della Francia, al 75,6% della Germania, al 102,1% del Regno Unito, addirittura al 62,1% dell’Olanda. Ma ci batte perfino la Spagna, con il 115,6%.

Se non vengono presi provvedimenti in favore della crescita, il rischio è di trovarsi, fra qualche anno, in una situazione analoga a quella che nel 2011 produsse il Governo Monti. E quindi con pesanti tagli delle pensioni, della sanità, dell’istruzione, del welfare. Con tanti saluti alla teorica equità sociale di breve e illusorio termine alla quale si vorrebbero destinare oltre 17 miliardi del Recovery Plan. Ma vediamo nel dettaglio le bozze. Come si è detto, sono previsti sei settori articolati in 17 cluster.

Settore numero uno: 48,7 miliardi per digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura

I cluster di questo settore sono tre: digitalizzazione della pubblica amministrazione (10,1 miliardi), digitalizzazione e competitività delle imprese (35,6 miliardi), cultura e turismo (3,1 miliardi).

Commento. Il primo dato che balza all’occhio sono i 3,1 miliardi genericamente attribuiti a cultura e turismo. Briciole che sarebbero spese meglio se destinate a progetti specifici per l’industria. Da apprezzare la volontà di migliorare e digitalizzare la pubblica amministrazione con investimenti importanti. Investimenti che però sarebbero vani senza un contemporaneo piano di semplificazione ed efficientamento strategico-organizzativo. Digitalizzare la pubblica amministrazione serve a poco se non si semplifica il rapporto delle aziende con le varie strutture dello Stato, se non si riformano e riducono le decine di migliaia di leggi, se non riduce il numero di enti con i quali si è costretti ad avere a che fare. Riforme che richiedono anni e la scrittura di dozzine di leggi, accompagnate da decreti applicativi e da tutto l’indispensabile contorno. Siamo sicuri che questo capitolo di spesa, pertanto, abbia così forti effetti sulla crescita economica di medio termine? Ultimi ma non meno importanti i 35,6 miliardi per la digitalizzazione e la competitività delle imprese. Investimenti senza alcun dubbio utili, ma che devono essere accompagnati dal sostegno allo sviluppo e alla modernizzazione dei settori sottostanti. Altrimenti, l’eccesso di tecnologie rischia di essere inutile se non addirittura controproducente. Viene da pensare alla situazione di quelle aziende un po’ arretrate che anni fa si impantanavano nell’installazione di sistemi Sap teoricamente dirompenti, ma così impegnativi e difficili da far girare da impantanarle. E il problema principale del tessuto industriale italiano è il suo essere a macchia di leopardo, con vaste aree di non competitivtà e sottosviluppo. Ci sono tante aziende all’avanguardia, le famose 5 mila medie imprese del Quarto Capitalismo che sostengono il Paese e di cui su Industria Italiana abbiamo parlato tante volte: vanno sostenute nel loro sviluppo, soprattutto con investimenti pubblici nella ricerca di base da mettere a loro disposizione. Ma tante pmi, troppe pmi che non sono competitive e hanno modelli di business vecchi e polverosi: se non evolvono, le tecnologie abilitanti non serviranno a niente. E poi ci sono imprese un tempo eccellenti che sono alle prese con shock esterni che devono fronteggiare e che non vanno lasciate sole. Per esempio le tante aziende (componentistica auto) della filiera del diesel, che in Italia è un’eccellenza mondiale (e dà lavoro a 50 mila persone) di cui si è decretata la morte precoce solo per assecondare smanie ecologiste e filo-ambientaliste completamente sganciate dalla realtà scientifica.

Settore numero due: 74,3 miliardi per rivoluzione verde e transizione ecologica

Qui ci sono quattro cluster: impresa verde ed economia circolare (6,3 miliardi), transizione energetica e mobilità locale sostenibile (18,5 miliardi), efficienza energetica e riqualificazione degli edifici (40,1 miliardi), tutela e valorizzazione del territorio e della risorsa idrica (9,4 miliardi).

Commento. Nelle bozze si parla quasi esclusivamente di decarbonizzazione e di una concezione elementare dell’economia circolare, con finalità prevalentemente ambientali. Finalità sicuramente importanti, oltre che indispensabili per rispettare i parametri che l’Unione Europea impone. Ma si potrebbe anche fare di meglio, e con una maggiore attenzione alle ricadute industriali. L’impressione (di cui abbiamo dato conto anche in questo recente articolo: https://www.industriaitaliana.it/recovery-plan-industria-italiana-remanufacturing-demanufacturing-economia-circolare/) è che la sensibilità ambientale (e forse anche un po’ l’ideologia, e il voler cavalcare le mode del momento) abbia preso un po’ troppo la mano, facendo dimenticare l’imperativo economico dello sviluppo economico necessario a non fare arrivare, tra breve, un altro Mario Monti e un’altra Elsa Fornero, con tutte le ricadute in termini di macelleria sociale che sicuramente ci sarebbero.

Quando parliamo di attenzione all’industria, ci riferiamo ai paradigmi più moderni e industriali dell’economia circolare stessa: il remanufacturing e il demanufacturing, di cui abbiamo parlato tante volte su Industria Italiana. Vedere ad esempio questo articolo: https://www.industriaitaliana.it/la-prossima-rivoluzione-industriale-il-remanufacturing/ e questo: https://www.industriaitaliana.it/i-nuovi-modelli-di-business-generati-dal-remanufacturing/.  Anche se in Italia per ora si fa poco e ancor meno se ne parla, il remanufacturing è uno dei più importanti trend dell’industria mondiale, ed è destinato a crescere fortemente di importanza nei prossimi anni. Nel 2015 in Europa il remanufacturing valeva 30 miliardi di euro e, secondo le stime dello European Remanufacturing Network, arriverà a 100 miliardi nel 2030. Già oggi, negli Stati Uniti, vale circa 100 miliardi di dollari. I calcoli in termini di benefici ambientali (e di conseguenza anche economici) sono stati fatti dallo European Remanufacturing Network in riferimento al settore dell’auto: risparmio dell’88% sui materiali, del 56% sul fabbisogno energetico, del 53% sull’immissione di Co2. In poche parole, remanufacturing vuol dire smontare un prodotto o un componente già utilizzato, rimetterlo a nuovo e riportarlo sul mercato, facendo crescere il vantaggio per: il produttore, che guadagna di più rispetto alla fabbricazione ex novo e, come vedremo, può più facilmente accedere a modelli di business 4.0; il consumatore finale, che spende di meno; l’ambiente, meno consumo di materie prime e di energia, meno rifiuti da smaltire; l’occupazione visto che il remanufacturing come vedremo è ancora ad alto tasso di lavoro umano, e può permettere di recuperare una parte della disoccupazione frizionale generata dall’automazione. Il remanufacturing è particolarmente attrattivo per industrie che realizzano prodotti ad alta densità di capitale, durevoli e con un ciclo di vita relativamente lungo: aerospazio, automotive, ferroviario, macchinari, elettronica, mobili, elettromedicale, periferiche di pc. Tra gli esempi più noti, purtroppo tutti extra italiani, ci sono automotive, aeronautica, stampanti e fotocopiatrici. Tra gli Oem automobilistici, emergono Renault e Bmw, che eccellono nel recupero di veicoli fuori uso e a fine vita e dei loro componenti. Già da qualche anno, Renault progetta vetture e componenti prevedendo il riutilizzo o il riciclaggio a fine vita.

I numeri della componentistica automotive in Italia Osservatorio sulla componentistica automotive italiana di Anfia (presidente Paolo Scudieri) e della Camera di commercio di Torino

Da tenere presente il commento di Federico Fubini, sempre nello stesso articolo del Corriere che abbiamo citato prima. «Di certo il grosso delle misure per l’ambiente sono ben 40 miliardi per ristrutturazioni ecologiche di immobili pubblici e privati. Dunque una grande espansione dell’ecobonus al 110%, considerato da alcuni troppo generoso e socialmente ingiusto (beneficia chi ha maggiori patrimoni immobiliari) . Né è chiaro come tutto ciò possa portare alle previsioni di crescita inserite nel piano: per il Sud, tra il 4% e il 5% in più all’anno», scrive l’editorialista del maggior quotidiano italiano. E noi condividiamo ogni parola.

Settore numero tre: 27,7 miliardi su infrastrutture per una mobilità sostenibile

Qui ci sono due cluster: alta velocità di rete e manutenzione stradale 4.0 (23,6 miliardi) e Intermodalità e logistica integrata (4,1 miliardi).

Commento.  Gli investimenti sull’Alta velocità e, in generale, sul trasporto ferroviario a discapito della gomma ce li impone l’Europa senza via di scampo. L’intermodalità è necessaria, ma viene da dire, come nel caso delle tecnologie abilitanti di tipo informatico: a che cosa serve se non facciamo crescere in quantità e qualità le merci che vengono trasportate? Per quanto riguarda la manutenzione stradale, doverosa se non vogliamo trovarci con altre tragedie tipo Morandi: ma è proprio necessario prendere i soldi da qui?

Settore numero quattro: 19,2 miliardi su istruzione e ricerca

Gli stanziamenti vengono divisi in due cluster: potenziamento della didattica e diritto allo studio (10,1 miliardi) e Ricerca per l’Impresa (9,1 miliardi).

Commento. La cifra destinata alla ricerca per l’Impresa è una buona notizia, ma è incredibilmente bassa. Dovrebbe essere almeno triplicata. L’Italia è in coda alle classifiche europee e dei Paesi occidentali per investimenti nella ricerca, che è indispensabile per aumentare la competitività dei nostri prodotti e quindi alzare i margini. Anche grazie agli scarsi investimenti in ricerca, abbiamo una produttività del capitale investito e del lavoro che è fra le più basse del mondo e continua a scendere.

Quanto a sviluppo economico siamo non solo più indietro della grande crisi del 2008-2009, ma addirittura più indietro del 2000, con un impoverimento collettivo che non ha eguali in Europa. Fatto 100 il pil pro capite nel 2020, l’Oecd ha calcolato che nel 2020 l’Italia è a quota 98, la Germania a quota 124, la Francia a 122, la Spagna a 117, e il Regno Unito a 115

Settore numero cinque: 17,1 miliardi per parità di genere, coesione sociale e territoriale

Qui i cluster purtroppo sono ben quattro: Parità di genere (4,2 miliardi), Giovani e politiche del lavoro (3,2 miliardi); Vulnerabilità, inclusione sociale, sport e terzo settore (5,9 miliardi), Interventi speciali di coesione territoriale (3,8 miliardi).

Commento. Sembra l’apoteosi della follia, del clientelismo e dello spreco. Ancora più grave se si pensa al disperato bisogno di risorse per la crescita economica che il Paese ha in questo momento storico. Ma a che cosa serviranno mai 4,2 miliardi per la parità di genere? Sono oltre ottomila miliardi di vecchie lire, una cifra enorme. Se si vuole raggiungere la parità di genere la via maestra sono i progetti Stem, cioé le iniziative per incentivare le donne a studiare le discipline che il mercato del lavoro premia maggiormente in termini di opportunità di carriera e di retribuzione, nonché quelle di cui l’Italia ha più bisogno per crescere. Stem infatti è l’acronimo di Science Technology Economics and Mathematics, aree nelle quali la percentuale di laureate è inferiore al 30%. Lo sviluppo economico trainato dall’Industria e dalla tecnologia produce di per se stesso maggiore parità di genere. Mentre, senza sviluppo economico, saremo costretti a tagliare fra qualche anno (o prima) proprio il welfare, e quindi i sostegni alle donne che lavorano. Dove andranno a finire i 3,2 miliardi per giovani e politiche del lavoro, poi? L’idea che il lavoro si trovi o si crei grazie alle politiche del lavoro (ricordate i Navigator tanto cari a Luigi Di Maio?) è una futile e sciocca illusione. Non c’è politica del lavoro che funzioni se non crea lavoro con lo sviluppo economico, ovvero con investimenti in industria, scienza e tecnologia. Che cosa significa Terzo Settore? Le cooperative vicine a Comunione e Liberazione e alla Lega delle cooperative di sinistra che si spartiranno questi fondi da buoni amici? E gli interventi speciali di coesione territoriale? Mance elettorali per l’elettorato meridionale?

Settore numero sei: 9 miliardi per la salute

Qui i cluster sono due: assistenza di prossimità e telemedicina (4,8 miliardi); innovazione, ricerca e digitalizzazione dell’assistenza sanitaria (4,2 miliardi). 

Commento. Pochi soldi e presi dal cespite sbagliato. Quei nove miliardi andrebbero destinati a progetti di sviluppo economico prevalentemente a carattere industriale, o alla ricerca scientifica con chiare ricadute sulle imprese. La Sanità dovrebbe essere finanziata con i 36 miliardi del Mes, che si continua a rifiutare solo per corroborare la demagogia di alcuni partiti politici, che così fingono di opporsi a inesistenti pretese di dominio dei “burocrati di Bruxelles”. Anche in questo caso, Fubini lo scrive in modo perfetto: «Come anticipato dal «Corriere» il 23 ottobre, il ministro Roberto Speranza lavora a un piano industriale sulla Sanità da 65 miliardi. Il pezzo forte è un rafforzamento della medicina territoriale da 25-30 miliardi. Il Recovery Plan italiano però sulla Sanità ha solo 9 miliardi, di appena quattro per la medicina territoriale. Eppure oggi l’Italia è terza al mondo per numero di morti da Covid per milione di abitanti e per età media della popolazione. Siamo certi che i prestiti sanitari del fondo salvataggi Mes non servano?».














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