Mediobanca/1: le medie imprese del quarto capitalismo si confermano leader del nostro sistema industriale. Ma ci sono tanti punti interrogativi…

di Filippo Astone ♦ In anteprima i risultati dell’indagine di Piazzetta Cuccia sugli ultimi 20 anni. In questa stagione di declino e di crisi, queste realtà hanno aumentato il loro fatturato del 25,3%, l’export del 49%, i dipendenti del 10,8% e l’attivo del 42,7%. Ma ci sono tanti punti interrogativi sulla crescita. I loro numeri uno sono anziani e ci potrebbero essere problemi di ricambio generazionale. Forse una svolta potrebbe arrivare dall’adozione delle nuove tecnologie…

L’industria italiana, e tutta la sua economia in generale, dipendono in modo vitale dalle medie imprese, che anche nel 2015-2016 si confermano come il segmento più brillante della nostra economia. Ma in futuro ci potrebbero essere gravi problemi legati alla loro governance, al ricambio generazionale e all’età avanzata di chi detiene le leve del comando. E comunque, c’è una sorte di “limite” alla loro crescita. Sono questi, in buona sostanza, i principali risultati che emergono dalla ventesima edizione dell’analisi sulle medie imprese che l’ufficio studi di Mediobanca  ha realizzato insieme a Unioncamere, e che Industria Italiana è in grado di anticipare.







 

 

Il grande capitalismo non c’è quasi più… Restano loro

Scomparsi o defilati dall’Italia i grandi campioni come Fiat, Italcementi, Pirelli, Montedison e tanti altri, la parte più significativa della ricchezza viene generata da aziende manifatturiere a controllo famigliare, leader nella loro nicchia di riferimento (che spesso si sono inventate loro), con una forte vocazione all’export e alla ricerca e sviluppo. Sono le 3.316 imprese del “Quarto Capitalismo”, che Mediobanca ha iniziato a studiare negli anni Ottanta quando l’ufficio studi era diretto da Fulvio Coltorti e che ancora adesso segue con attenzione.

Aziende come Brembo, Mapei, Brugola, Geox, Balocco e tanti altri nomi famosi o meno noti al grande pubblico. Queste aziende sono al centro dell’analisi annuale dell’ufficio studi, ora diretto da Gabriele Barbaresco. Dall’ultima edizione  viene ribadita la loro forza nell’ambito di un contesto che, tuttavia, è in netto declino (a differenza degli anni Ottanta, purtroppo). Forza che è da sempre uno dei cavalli di battaglia di chi scrive, che l’ha raccontata per esteso nei suoi ultimi saggi La Riscossa (Magenes 2014) e Industriamo l’Italia (Magenes 2016) ma che ne aveva già parlato negli “Affari di Famiglia” (Longanesi 2010) e in numerosi articoli pubblicati sul Mondo.

 

I dati dell’ indagine

Ma veniamo al merito dell’indagine, che si focalizza sul ventennio 1996-2015, con alcuni dati che includono anche una proiezione sul 2016. In questi anni di declino e di crisi, le medie imprese del Quarto Capitalismo hanno aumentato il loro fatturato del 25,3%, l’export del 49%, i dipendenti del 10,8% e l’attivo del 42,7%. Solo il valore aggiunto rispetto al fatturato di ciascuna azienda è rimasto sostanzialmente costante, passando dal 23,5% del 1996 al 22,2% del 2015. Ma questo si è verificato in un momento nel quale il valore aggiunto dell’industria italiana nel suo complesso è sceso dal 30,7% al 21,4%.  Insomma, mentre un sistema intero è declinato in modo drammatico, le medie imprese del Quarto Capitalismo sono rimaste al loro posto, in termini di valore aggiunto. Se invece guardiamo tutti gli altri indicatori, sono cresciute in modo formidabile.

 

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Importanti anche gli indicatori sull’incidenza delle medie imprese rispetto al totale della manifattura italiana. Il loro fatturato è passato dal 14,6% al 18,5%. L’export dal 15,6% al 18,8%. E il valore aggiunto dal 12,3% al 18,2%. Attenzione a non confondere questo dato sul valore aggiunto col precedente. Nel primo caso si parlava del valore aggiunto medio rispetto al fatturato di ogni singola azienda. In questo caso si parla del valore aggiunto del totale del Quarto Capitalismo rispetto al totale del sistema industriale. E’ cambiata anche la destinazione delle attività di esportazione. Se nel 1998 l’Unione europea assorbiva il 64,7% dell’export del Quarto Capitalismo, nel 2015 questa cifra è scesa al 50%. Si è invece moltiplicato per quasi sei volte il peso dell’Asia, passato dal 3,9% al 18,8%. Gli Usa hanno invece mantenuto un’incidenza sostanzialmente costante: rappresentavano il 9,8% nel 1998 e ora valgono il 9,5%.

 

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L’impasse della crescita

Come si è detto (e come si vedrà più approfonditamente  in fondo all’ articolo) le imprese del Quarto Capitalismo sono leader di una nicchia di mercato che, in molti casi, si sono inventate loro stesse. Da questo punto di vista, potrebbero anche essere viste come “grandi imprese”. Non a caso, in apertura della presentazione del suo studio, Barbaresco cita un saggio dell’economista Mario Cattaneo, che nel 1963 scriveva: « un’impresa è grande nella misura in cui esercita un controllo sul mercato di appartenza. E’ di converso piccola l’impresa che, pur più grande della prima in termini “fisici” (per dipendenti o totale attivo), non riesce a influenzare, anzi subisce, le dinamiche del proprio mercato».

Da un lato emerge che in Italia più aumentano le dimensioni delle imprese, più queste sono competitive e produttive. Dall’altro, a paragone con la media dei campioni europei (Francia, Uk, Germania), sono notevolmente più competitive le medie, mentre le piccole e le grandi arrancano. Il primo dato è evidente: la produttività manifatturiera media cresce in modo direttamente proporzionale al numero di dipendenti. Tra 0 e 9 è di 27.400 euro; tra 10 e 19 è di 44.500 euro; tra 20 e 49 è di 55.500 euro; tra 50 e 29 è di 69.600 euro; per le aziende manifatturiere superiori ai 250 dipendenti è di 79.300 euro.

 

Ma il dato più interessante (vedi la figura sopra) arriva da un calcolo relativo che è stato fatto mettendo al numeratore la media fra i valori aggiunti di Francia, Germania e Uk e al denominatore la media del valore aggiunto in Italia. Se il risultato è 100, significa che la produttività italiana è identica a quella del meglio industriale dell’Europa; se è sopra 100 che la produttività italiana è migliore; se è sotto 100 che è peggiore. Ebbene, l’Italia emerge grandiosamente per le imprese fra i 20 e i 49 addetti (106,4) ed eccellentemente per le Medie ovvero quelle fra i 50 e i 249 addetti (113,4). Se la cava malino per quelle sopra i 250 addetti (87,4) e decisamente male per le aziende fra 0 e 9 addetti (67,8). «A questo punto dobbiamo chiederci perché le medie aziende dovrebbero crescere, visto che sono già leader della loro nicchia di mercato e se aumentano le loro dimensioni rischiano di essere meno competitive dei loro omologhi europei», osserva Barbaresco. «Oltretutto, se per crescere devono occupare altre nicchie di mercato potrebbero perfino snaturarsi, distruggendo valore economico».

Ma perché non crescere?

Insomma, una rilettura del dogma della crescita. «Gli imprenditori piccoli, da un lato, e quelli medi dall’altro sanno bene che potrebbe non valere la pena di aumentare troppo le loro dimensioni», prosegue il numero uno dell’Ufficio studi. Ma come fanno i piccoli a restare sul mercato senza crescere? «Forse la loro dimensione non li espone alla concorrenza internazionale, per cui non ne hanno bisogno. E molto probabilmente ci sono casi di opacità fiscale o patrimoniale che rendono più conveniente, per alcuni, rimanere in una posizione appartata». E allora? Su questo Barbaresco non ha particolari risposte. Un’ipotesi la azzardiamo noi.

 

La crescita può essere rilanciata dalle nuove tecnologie

La crescita? Con le nuove tecnologie!

Le nuove tecnologie che stanno sconquassando l’industria significano davvero una rivoluzione e possono aumentare in modo assai significativo la produttività. Parliamo di Iot, Industry 4.0, manifattura additiva, robotica, nanomateriali, automazione e tanti argomenti che i lettori abituali di Industria Italiana conoscono bene. L’applicazione delle nuove tecnologie a intelligenti strategie di business potrebbe consentirci di crescere in modo importante. In altre parole, una risposta potrebbe arrivare proprio da tutto ciò che si usa mettere sotto il cappello 4.0. Si tratta di creare nuove nicchie, di allargare le proprie, di dare nuove possibilità ai piccoli più innovativi e competitivi di inserirsi nelle filiere globali. In economia, a differenza che in natura, è possibile fare dei salti quantici. E il tessuto industriale italiano, nei prossimi anni, potrebbe farli.

La leva del comando è in mani mature

(slide 20) Le medie imprese del Quarto Capitalismo sono famigliari per definizione. Dallo studio di Mediobanca emerge che ancora adesso, magari dopo decenni dalla fondazione, i padri fondatori anziani restano al potere. E i consigli di amministrazione sono in larghissima parte composti da famigliari dei fondatori. Mentre la presenza di manager esterni è ancora molto contenuta. Nelle medie imprese del Quarto Capitalismo la media di chi è contemporaneamente presidente e amministratore delegato ha 65 anni, contro i 59 delle altre imprese. I presidenti hanno 66 anni contro i 58 delle altre imprese. Gli amministratori unici (figura ancora molto diffusa, che assume su di sè tutti i compiti che nelle altre realtà spettano al consiglio di amministrazione) hanno i media 63 anni, contro i 58 anni delle altre imprese. Solo l’8,9% dei consiglieri di amministrazione ha meno di 40 anni. Il 51% ha tra i 40 e i 60 anni. E ben il 40,1% ha più di 60 anni. «Forse c’è un potenziale inespresso, ad esempio in termini di assetto manageriale. La famiglia è un valore. ma non può essere un dogma e diventa un disvalore se privilegia l’appartenenza alla competenza», conclude Barbaresco.

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Un dato che fa grande onore al Quarto Capitalismo: il costo del lavoro è direttamente proporzionale alla produttività

In tutto il mondo occidentale, e in Italia purtroppo in particolare, si è assistito a un fenomeno distruttore di valore economico e sociale: la riduzione degli stipendi, che si sono contratti mentre gli utili aziendali crescevano, riducendo anche i consumi interni. Ebbene, dall’indagine dell’Ufficio Studi di Mediobanca emerge che questo per le medie imprese del Quarto Capitalismo non si è affatto verificato. Tra il 1996 e il 2015 l’indice del costo del lavoro e l’indice della produttività sono cresciuti in modo assolutamente identico e coincidente.

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Di che cosa parliamo esattamente quando parliamo di medie imprese del quarto capitalismo?

Ma che cosa rappresentano davvero le medie imprese industriali oggetto delle indagini di Mediobanca e di Unioncamere? Vediamo di capirlo, prendendo a prestito alcuni stralci, debitamente riadattati, del libro dell’autore di questo articolo intitolato “La Riscossa”, e pubblicato da Magenes nel 2014. Le aziende del Quarto Capitalismo sono molto specializzate, con alta densità di ricerca e sviluppo, leader o co-leader a livello mondiale nella loro nicchia di mercato, fortemente esportatrici. La loro capacità di innovare viene dimostrata da quanto riescono incunearsi all’interno delle nicchie del mercato globale.

Tutte le imprese di questo particolare gruppo, sono attive – posizionandosi verso l’alto di gamma – nelle tre tipiche famiglie di prodotti del made in Italy: beni di consumo per il mercato finale (alimentare, sistema moda, casa); beni strumentali (macchine utensili e macchine industriali); intermedi e componenti (accessori per le macchine, componenti elettrici ed elettronici per l’automotive, forniture per l’edilizia, intermedi per i farmaceutici, imballaggi). Per fare qualche nome fra i più noti casi di successo del Quarto Capitalismo, si possono citare Mapei, Datalogic, Bracco, Tod’s, Isagro, Geox, Faber, Landi Renzo, Nice, Carel, Balocco. Oppure la Grafica Veneta (media impresa con 150 dipendenti), che produce 100 milioni di libri all‟anno. La Tesmec (700 dipendenti), si occupa di progettazione, produzione e commercializzazione di sistemi, tecnologie e soluzioni integrate per la costruzione, la manutenzione e l’efficientamento di infrastrutture relative al trasporto e alla distribuzione di energia elettrica, dati e materiali  in oltre 100 paesi. Il gruppo tessile bergamasco Albini (1300 dipendenti) propone centinaia di nuove varianti di tessuto in ogni stagione. Elica (2800 dipendenti) produce annualmente 17 milioni di cappe e motori per aspirazione.

 

la Mapei di Giorgio Squinzi è un esempio di impresa medio-grande di successo che si è inventata la nicchia che presidia: i collanti e i materiali chimici ad alto valore aggiunto per l’edilizia

«Il manifatturiero del Quarto Capitalismo funziona alla grande. E’ merito suo se negli ultimi dieci anni, siamo passati da un surplus manifatturiero di 60 miliardi a uno di ben 100 miliardi nel 2012, un incremento formidabile. Quello che più impressiona è come quasi tutta questa crescita sia ascrivibile alla meccanica e alla manifattura non artistica invece che ai settori più famosi, come abbigliamento, calzature o arredamento, cioè le più famosa tipologia di made in Italy) », osserva l’economista Alberto Quadrio Curzio.

 

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Fulvio Coltorti,ex Direttore Ufficio Studi Mediobanca
Perché Il Quarto Capitalismo è il nuovo motore dello sviluppo italiano

Secondo Fulvio Coltorti (per un quarto di secolo direttore dell’Ufficio studi di Mediobanca, iniziatore degli studi sul Quarto Capitalismo, oggi a riposo) ci sono tre motivazioni fondamentali per cui il Quarto Capitalismo rappresenti l’unico orizzonte di sviluppo possibile per l’economia del nostro paese. La prima è che «fondandosi largamente sui sistemi locali, e costituendone la logica trasformazione nei nuovi contesti globali, il Quarto Capitalismo mantiene molto ampia la platea degli imprenditori, garantendo un potenziale molto vasto per l’espressione delle nuove idee che producono le invenzioni e quindi il progresso tecnico».

La seconda è che il “nuovo motore” si basa su una nuova organizzazione della produzione che insiste su “sistemi” di imprese. «La struttura è flessibile dal lato della manifattura e dell’assetto finanziario, risultando solida patrimonialmente. Questa flessibilità in qualche modo supera il collo di bottiglia che limiterebbe altrimenti – per scarsità di mezzi finanziari – la possibilità di raggiungere scale produttive elevate», dice Coltorti. Inoltre, «L’insistenza sulla specializzazione a livello di fabbrica e sulla nicchia a livello di vendita assicura l’appropriazione dei rendimenti crescenti generati dallo sviluppo delle innovazioni».

La terza ma non certo meno importante ragione è che la nuova organizzazione del Quarto Capitalismo delle medie imprese manifatturiere è “non escludente”. Apre le porte ad ogni nuovo entrante nel mercato, capace di generare la sua nicchia. Del resto, i mercati di nicchia configurano regimi di concorrenza monopolistica.

Su tali contesti è chiaro che «l’unità di riferimento per la ricerca della competitività non è l‟impresa in sé, ma il “sistema” a cui appartiene e che viene organizzato prevalentemente ad opera delle unità di dimensione intermedia. E’ tale sistema che assicura a tutti i partecipanti la fruizione delle economie di scala esterne; in sei casi su dieci esso configura un’evoluzione di imprese distrettuali di fronte alle sfide e alle opportunità della globalizzazione». Questo dato di fatto contribuisce a spiegare come mai, secondo i dati Eurostat, l’Italia sia il paese che genera il maggior numero di nuove imprese. «La globalizzazione agevola queste imprese le quali possono estendere le loro nicchie su mercati più vasti», conclude Coltorti.

 

Giorgio Basile
Giorgio Basile, Presidente e AD Isagro. L’azienda è un esempio storico e noto di media impresa del Quarto Capitalismo italiano.
L’importanza di essere medie

Il dibattito politico-economico-mediatico tende sempre a porre l’accento sulle pmi oppure sulle grandi aziende in decadenza, lasciando ai margini le medie imprese o accomunandole alle pmi. E’ un errore. «Le medie imprese sono ormai una categoria a parte, completamente distinte e differenti dalle pmi e dalle grandi», osserva un imprenditore del Quarto Capitalismo come Giorgio Basile, presidente e amministratore delegato dell’azienda chimica Isagro. «Occorre produrre indicatori statistici a tutti livelli sulle medie imprese, e concentrare il dibattito su di loro», conclude l’imprenditore. In Italia infatti le medie imprese sono quelle complessivamente con i migliori risultati economici, anche nelle situazioni di relativa difficoltà.

 

Mario Moretti
Mario Moretti Polegato: anche la Geox è un esempio di successo del Quarto Capitalismo e si è inventata la nicchia di mercato che presidia al 100%: le scarpe che respirano
Da mercati di massa a mercati di nicchia: un trend che da un formidabile assist al Quarto capitalismo

Il Quarto capitalismo è stato studiato e messo a fuoco solo di recente. Inoltre, è diventato protagonista della scena economica solo da qualche anno a questa parte, anche per il venir meno della grande impresa. Ma come fenomeno esiste fin dagli anni Ottanta. Recentemente, va nella stessa direzione di un importante trend del commercio mondiale: la creazione di grandi mercati di nicchia, che in qualche modo sostituiscono o affiancano i mercati di massa. In questo modo, prodotti e processi vengono indirizzati verso l’alto di gamma dell’offerta.

Scrive Giuseppe Berta nel suo libro “Produzione intelligente”, edito da Einaudi nel 2014: «Nel sistema globale odierno, i mercati di massa tendono a scomparire, sostituiti da una moltiplicazione di mercati di nicchia, ognuno da presidiare con politiche di prodotto e di servizio altamente specializzate e differenziate. La produzione di massa ha cessato da tempo di essere il paradigma dell’industrializzazione perché è stata progressivamente privata dei propri mercati di riferimento. Oggi si ipotizza una dilatazione praticamente infinita delle nicchie e dei segmenti di mercato, che devono essere serviti con una attenzione crescente, tale da generare un feedback sulle capabilities delle imprese, sollecitate a rispondere con una offerta sempre più sofisticata di prodotti e di servizi».

Secondo alcuni, questa nuova tendenza sarebbe addirittura all’origine di una nuova rivoluzione industriale, non meno radicale e pervasiva di quelle che l’hanno preceduta. Una rivoluzione industriale che differisce da quelle precedenti per il suo carattere soft. Una rivoluzione morbida, destinata a incunearsi profondamente nel lavoro e nell’esistenza, senza possedere la brutale forza d’urto del passato. Secondo Berta, «Il futuro ci consegnerà probabilmente imprese più globali, di dimensioni molto ridotte a paragone dei grandi complessi industriali del passato, dedite a perseguire un grado più alto di omogeneità interna, sia per assicurare un efficace monitoraggio della produttività, sia per stimolare la concorrenza fra le unità produttive, sospinte per questa via a migliorare le loro performance».

Jody Brugola. L’impresa di famiglia dei Brugola si è inventata la vite che porta il loro nome e poi è diventata una multinazionale della viteria ad altissimo valore aggiunto, presente nei jet e nei principali marchi automobilistici. E’ stata scelta come testimonial da Mediobanca per presentare l’ultima analisi delle imprese del quarto capitalismo.

Ma perché si chiama Quarto Capitalismo? Storia di un modello di impresa

Lo sviluppo economico italiano si è distinto per alcune grandi fasi segnate da diversi modelli capitalistici. Il “Primo capitalismo” è riconducibile alle imprese che sostennero il primo decollo industriale nel periodo giolittiano (a cavallo tra fine 800 e primo 900). «Erano imprese nate “grandi”, spesso public companies quotate nella Borsa Valori dove erano state portate dalle grandi banche miste (Banca Commerciale Italiana e Credito Italiano principalmente)», spiega Fulvio Coltorti. Questo primo capitalismo cadde in gravi difficoltà in occasione della grande crisi del 1929; banche e industrie vennero salvate dallo Stato che per tale scopo costituì l’Iri nel 1933.

«In tale anno nacque il “secondo” capitalismo che si distingueva per la proprietà pubblica della gran parte delle imprese essenziali per lo sviluppo nazionale. Queste stesse imprese, insieme con gli altri grandi complessi rimasti sotto controllo privato, subirono una nuova grande crisi negli anni Settanta del secolo scorso. Ne derivò una ristrutturazione profonda che comportò dapprima un progressivo ridimensionamento del peso e del ruolo dei grandi gruppi e in seguito un ulteriore assottigliamento a seguito dei programmi di downgrading e di delocalizzazione».

 

La Balocco è uno dei brand più famosi del Quarto Capitalismo.
L’elemento distintivo dell’economia italiana: la crisi della grande impresa

Secondo Coltorti, la crisi della grande impresa rappresenta l’elemento distintivo dell’economia italiana e spiega perché il suo sviluppo abbia seguito sentieri diversi da quelli di altri paesi industrialmente maturi. «Giorgio Fuà interpretò per primo questo diverso sentiero pervenendo alla conclusione che per un paese a sviluppo ritardato come il nostro, una struttura “accentrata” nelle grandi città e nelle grandi fabbriche non era un passaggio obbligato sulla strada del progresso. I “fatti osservati” promuovevano con forza un’industrializzazione “diffusa” e le aree di riferimento erano quelle del Nord Est e del Centro». Lo chiamò modello NEC.

Fuà immaginava due fasi di sviluppo: la prima era tipica dei paesi arretrati, dove le imprese stanno sul mercato grazie a bassi salari, poche imposte e nessun vincolo sull’uso del lavoro e sul rispetto dell’ambiente. Nella fase successiva i controlli sociali si fanno però più stringenti e le imprese debbono necessariamente puntare sui progressi della produttività per restare competitive. In questa fase contano due “leve”: l’organizzazione di sistemi integrati di piccole imprese (i distretti e gli altri sistemi produttivi locali) e la specializzazione nelle produzioni di nicchia o su misura. «Questo è il terzo capitalismo, di cui i distretti costituiscono l’aspetto dominante», prosegue Coltorti. «Giacomo Becattini li aveva “annusati” fin dalla metà degli anni Sessanta e in seguito ne formalizzò il modello definendoli entità socio-territoriali caratterizzate dalla “compresenza attiva, in un’area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali”».

Come è nato il Quarto Capitalismo

All’incirca negli anni Novanta del secolo scorso i sistemi locali hanno cominciato a subire trasformazioni a causa delle spinte competitive provenienti dai paesi emergenti. Questi, avvalendosi di bassi costi di produzione (tipici dei paesi late comers), attaccano i mercati internazionali di tutti i prodotti, avanzati e non avanzati, guidati dalle imprese multinazionali che vi delocalizzano fabbriche e tecnologie. Tra i mercati contesi vi sono quelli dei beni per la persona e la casa (tessile e abbigliamento, soprattutto) che costituivano il core business di molti nostri distretti. «Le imprese distrettuali hanno reagito da un lato riorganizzando le filiere (non più ristrette al “luogo” di origine, ma sovente estese al di fuori di esso), dall’altro riqualificando i prodotti verso articoli a maggior valore aggiunto.

Queste trasformazioni sono state operate soprattutto da imprese nate nei sistemi locali che hanno assunto caratteristiche organizzative e finanziarie più adatte al confronto globale. Sono imprese di dimensione intermedia, non troppo piccole né troppo grandi, che abbinano la flessibilità operativa alle competenze delle grandi imprese le quali, come detto, sono sempre più rare e lasciano inoccupate le preziose risorse umane che sbocciano dai territori», racconta Coltorti.

 

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Enrico Cuccia. Fu lo storico numero uno di Mediobanca a volere che l’ufficio studi (all’epoca diretto da Fulvio Coltorti) facesse analisi puntuali sul mondo delle medie imprese italiane che poi, dopo un’intuizione del giornalista Giuseppe Turani, è stato battezzato Quarto Capitalismo

 

«L’industria resta dunque diffusa, prevalentemente a controllo familiare, tuttavia con regole di governance che ne assicurano assetti manageriali evoluti, essenzialmente basati su modelli commerciali che puntano a nicchie di mercato. Le nicchie non sono anfratti casuali lasciati scoperti dalle grandi aziende che si ritirano, ma costituiscono un obiettivo perseguito attraverso lo studio dei mercati di sbocco. Esse assicurano lo sviluppo e l’accumulo di competenze specifiche che sovente divengono esclusive e configurano una vera e propria posizione di monopolio rafforzata da una forte componente di servizi. I dati delle nostre indagini dimostrano una elevata capacità competitiva a livello internazionale. Quest’ultima fase storica, dominata dalle imprese di dimensione intermedia, è quella che abbiamo convenzionalmente chiamato “Quarto capitalismo”. »

«Un capitalismo che non trova più il collo di bottiglia delle limitate risorse finanziarie perché le organizzazioni industriali del mondo contemporaneo si basano sulla specializzazione dei mestieri e sulla costruzione di “sistemi” di imprese nei quali quei fabbisogni vengono frazionati. Dunque un’industria “leggera”, che consente di operare con strutture a basso consumo di capitale. Questi diversi modelli storici di capitalismo si combinano come stratificazioni successive nell’economia italiana contemporanea. I primi due, basati sulla finanza del mercato e dello Stato, sono in regresso; gli ultimi due, basati sull’apporto delle famiglie e sulla contendibilità, sono in espansione. In Italia gli ultimi due modelli risultano di gran lunga preponderanti, con un peso valutabile in due terzi della produzione manifatturiera. Essi fanno quindi “massa critica”, nonostante molti fatichino ancora a rendersene conto e indugino con i paraocchi di teorie superate dalla realtà».

Nel sottoporre ad esame costante queste aziende, l’Area Studi di Mediobanca sviluppa il filo ideale che lega i pensieri di Giorgio Foà e Giacomo Becattini alle considerazioni pragmatiche di Enrico Cuccia. «Il fondatore di Mediobanca vide in loro, fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, una gestione degli affari capace di rafforzare la democrazia trovando nella buona conduzione aziendale, e nell’autofinanziamento che ne deriva, la forza per evitare le viziose collusioni che invece hanno finito per minare la solidità dei grandi gruppi», conclude Coltorti.

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                                            Il modello del Quarto capitalismo in sintesi

Tale modello funziona egregiamente quando l’impresa è gestita da una famiglia e non è troppo complessa.
Nella fattispecie, il modello aziendale è stato sintentizzato dall’ufficio studi di Mediobanca come segue:

Proprietà concentrata

La norma è la famiglia
. Secondo dati Unioncamere, nel 70% dei casi il fondatore e i discendenti controllano e gestiscono; 
nel 20% dei casi la famiglia associa terzi alla gestione; 
nel 10% dei casi controllo e gestione non fanno capo alla famiglia del fondatore.

Produzioni specializzate

Il Quarto Capitalismo realizza solo produzioni a elevato grado di specializzazione. Queste produzioni vengono quasi sempre fabbricate attivando una filiera di fornitori in gran parte presenti sullo stesso territorio dell’impresa.

Strategia commerciale

Il Quarto Capitalismo punta sempre alla nicchia e a relazioni strette con la clientela la quale riconosce generalmente un plus di prezzo per la qualità percepita

I capitali finanziari provengono dai soci e dalle banche

I primi coprono il fabbisogno delle attività immobilizzate; le seconde finanziano il circolante. «Nel caso di problemi congiunturali, si può ridurre il circolante nel medio periodo, senza compromettere la sopravvivenza dell’impresa», spiega Coltorti. Questa struttura, che è alla base del successo dell’impresa e si confà alla personalità di imprenditori che vogliono essere sicuri di comandare in casa propria, in qualche modo presenta dei limiti, perché incoraggia poco l’azienda a crescere. Non a caso, spiega Coltorti, «le imprese del Quarto capitalismo tendono a permanere nella dimensione intermedia».

Forte specializzazione

A livello produttivo, le imprese del Quarto capitalismo sono fortemente specializzate. Il 90% di loro genera gran parte del fatturato grazie a un solo prodotto. Praticamente sono monopoliste nella loro nicchia di mercato, nella quale hanno dimostrato una forte capacità di innovazione. Questo consente loro di praticare prezzi unitari di vendita mediamente assai elevati, capaci di remunerare i fattori di produzione in un Paese ad alto tenore di vita come l’Italia.

«Nella nicchia di mercato in cui queste aziende sono semi-monopoliste non vi sono barriere all’ingresso. Teoricamente, dall’oggi al domani chiunque può far loro concorrenza e rovinarle. Questo le costringe a un continuo rinnovamento e aggiornamento dei loro prodotti, del brand, dell’immagine e della modalità di servizio. Insomma, sono continuamente costrette a rimanere competitive nella loro nicchia di mercato», spiega Coltorti. Se le medie imprese del Quarto capitalismo hanno un punto di debolezza apparente, è che la loro attività è perlopiù in settori a bassa tecnologia. Solo il 4% di loro, infatti, sono attive in settori ad alta intensità tecnologica, e il 27% in settori a media intensità tecnologica.

«Ma mentre le imprese hi-tech sono continuamente esposte al calo progressivo di prezzo dei loro prodotti (tipico dell’hi-tech)e alla facilità con cui possono venire copiati, le medie imprese del Quarto capitalismo, corrono assai di meno questo pericolo. Non si tratta infatti di settori hi-tech a concorrenza continua, ma di settori nei quali sono leader, con cui hanno un continuo rapporto col cliente che concorre assieme a loro allo sviluppo del prodotto».

La produttività è legata agli investimenti tecnologici, più che al lavoro

Un dato forse paradossale riguarda la produttività del lavoro in queste medie imprese del Quarto capitalismo, che – contrariamente ai luoghi comuni – diminuisce man mano che aumenta il numero dei dipendenti. Secondo uno studio di Mediobanca, nelle imprese del Quarto Capitalismo che hanno fra 50 e 99 dipendenti, il valore aggiunto netto medio è di 60 mila euro e il margine operativo netto di 19mila. Se i dipendenti sono fra 100 e 249, queste cifre calano rispettivamente a 53mila e 13mila euro. Se sono fra 250 e 499, calano ancora a 50mila e 11mila euro. E’ evidente, insomma, che l’incremento di produttività è legato agli investimenti tecnologici, più che al lavoro.

Grandi esportatori

In generale, il tasso di incremento dell’export è del 5,6% all’anno. Mediamente, il roi (cioè il ritorno sul capitale investito) è sempre superiore a quello delle grandi imprese.

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1 commento

  1. Eh si,come non si può essere d’accordo. Bisogna puntare ad essere leader di settore,puntando sulla qualità e bontà del prodotto che si offre al mercato,sbaragliando così la concorrenza di paesi che hanno disponibolilita migliori nel gestire il costo del lavoro (Cina e India per fare 2 esempi). In Italia pero’,ancora vige la regola del taglio dei diritti e salari ai danni dei lavoratori e,seguendo il mio parere,non credo che andremo troppo oltre.

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