La politica industriale che non c’è: il disastro automotive raccontato da Marco Bonometti

di Marco de' Francesco ♦︎ Incentivi agli acquisti concessi in milioni e non in miliardi, mancata previsione di norme per rendere deducibili le auto delle flotte aziendali e di meccanismi per recuperare l’Iva sulle transazioni relative alle utilitarie. Sono solo alcune delle lacune del governo, secondo il numero uno di Confindustria Lombardia e Omr. Le soluzioni? Misure più efficaci per favorire le aggregazioni, programmi a lungo termine per aiutare la trasformazione digitale delle imprese e…

Marco Bonometti, presidente Confindustria Lombardia

«Le misure del governo sull’automotive? Un disastro». Una bocciatura su tutti i fronti, quella del vulcanico presidente di Confindustria Lombardia e di Omr (acronimo di “Officine meccaniche rezzatesi”), gruppo familiare bresciano che produce componenti per motori, trasmissioni e telai per auto e che l’uomo ha trasformato in una multinazionale di medie dimensioni. Marco Bonometti, industriale verace e antipolitico, refrattario alla seduzione del facile consenso, non dà tregua e non fa sconti all’esecutivo.

Dagli incentivi agli acquisti concessi con il “braccino corto”, in milioni e non in miliardi, alla mancata previsione di norme per rendere deducibili le auto delle flotte aziendali e di meccanismi per recuperare l’Iva sulle transazioni relative alle utilitarie – tutto ciò rappresenta, per Bonometti, quello che Nietzsche avrebbe definito “un grosso invano!”. Tante richieste al governo che, se fossero state accolte, avrebbero rimesso in moto il mercato, e che invece sono cadute nel vuoto. Ma non c’è nulla di ideologico nel ragionamento di Bonometti. Nessuna preclusione. Sono tanti gli argomenti sui quali l’esecutivo potrebbe «battere un colpo». Anche in campi che non riguardano solo l’automotive. Ad esempio, misure più efficaci per favorire le aggregazioni, o altre a lungo termine per aiutare la trasformazione digitale delle imprese. Non c’è tempo da perdere, dice Bonometti: sui mercati regna un’incertezza fatale, ed è ora di fare sul serio. Ma passiamo subito all’intervista.







 

D: L’automotive è un settore in crisi, che ha conosciuto, nell’anno in corso, una flessione a due cifre. Quali sono, secondo Lei, le principali ragioni della débâcle?

R: «La situazione era già critica prima nel 2019, prima dell’imperversare del Covid-19. Lo era – e lo è – soprattutto nel Vecchio Continente, dove le autorità hanno imposto limiti alle emissioni senza pensare che gli Usa e la Cina non avrebbero mai fatto altrettanto. Hanno rafforzato la concorrenza. E hanno erroneamente confidato nella congettura che la trasformazione green dell’industria delle quattro ruote sarebbe stata una passeggiata, senza impatto sulla produzione e sull’occupazione. Invece rischia di essere una catastrofe, sull’uno e sull’altro fronte. Anche perché occorrono investimenti giganteschi, sia per riconvertire gli impianti che per ridisegnare il mondo delle risorse umane. La verità è che la pandemia ha soltanto messo in evidenza gli errori strategici e le scelte sbagliate della politica europea sull’automotive».

Ordinativi e fatturato per attività economica Automotive. Fonte Anfia

D: Cosa possono fare i singoli Stati per rimediare agli errori strategici dell’Unione Europea?

R: «Non è facile, ma la strada giusta è stata imboccata dalla Francia, che ha messo otto miliardi di euro sul piatto della riscossa di settore, con il suo Piano di sostegno all’automobile (“Plan de soutien à l’automobile. Pour une industrie verte et compétitive”, reperibile in questo articolo di Industria Italiana; Ndr): il mercato transalpino ha ripreso immediatamente vigore. D’altra parte si tratta di un disegno forte, che ha come obiettivo la leadership di Parigi sull’elettrico, e che prevede un forte impegno dei due colossi, Psa e Renault. Altra storia in Italia, dove si è cercato di replicare questa strategia, ma investendo pochi milioni, inizialmente soltanto 50. Anche da noi, nonostante l’esiguità degli incentivi, qualcosa si è mosso; ma è solo un risultato temporaneo: non c’è stato nessun cambiamento strutturale».

Filiera automotive Francia

D: L’esecutivo Conte II poteva fare di più?

R: «Doveva. Noi avevamo proposto al governo di incentivare la sostituzione delle vecchie Euro 3 e Euro 4: ce ne sono, in giro, 13 milioni; e se al loro posto circolassero moderne autovetture ibride o anche a motore termico ma più efficienti sotto il profilo ambientale, assisteremmo ad una riduzione delle emissioni del 50%. Non ci ha ascoltato. L’esecutivo ha preferito buttare dalla finestra 100 miliardi, per lo più in assistenzialismo puro o in mancette elettorali. Eppure l’automotive vale il 7% del Pil nazionale, garantisce allo Stato 70 miliardi di tasse ed è molto rilevante per l’occupazione».

 

D: Il governo avrebbe potuto prendere altre misure?

Il presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte. Immagini messe a disposizione con licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT

R: «A parte gli incentivi, che andavano misurati in miliardi e non in milioni, si poteva rendere deducibile l’acquisto di auto per le flotte aziendali, ad esempio. Già questo, avrebbe costituito una forte spinta per il mercato. E si potevano studiare dei meccanismi per recuperare l’Iva nel caso di macchine di valore inferiore ai 25mila euro. Tutte richieste che non hanno trovato alcun riscontro. E poi, si parla tanto di transizione all’elettrico e di veicoli green, ma perché questo trend abbia successo occorrono appropriate infrastrutture. Sette italiani su dieci non hanno un garage: dove dovrebbero ricaricare la macchina? E non è finita qui».

 

D: Cosa manca, per completare il quadro?

R: «L’azienda che guido, la Omr, ha uno stabilimento a Indianapolis, negli Usa. A marzo non abbiamo fatturato quasi niente, ma il governo americano ha versato sui nostri conti un importo relativo al costo dei dipendenti oltre oceano. Questi sono gli interventi veri, quelli che aiutano le imprese. All’estero, gli imprenditori italiano hanno a talvolta un orizzonte diverso, e si chiedono se non sia il caso di andarsene definitivamente dall’Italia: da noi l’industria e il lavoro sono temi che riscuotono poca attenzione. Soprattutto adesso, occorrerebbero delle risposte immediate per le aziende, perché il momento è davvero critico».   

 

D: In vista della trasformazione digitale, le aziende dell’automotive possono accedere, come tutte le altre, al credito di imposta, che ha sostituito il ticket iperammortamento-superammortamento previsto dall’originario “piano Calenda”. La nuova politica industriale porta la firma del ministro Stefano Patuanelli. Funzionerà?

R: «No: è un’iniziativa destinata a rimanere sulla carta. È un peccato: si potevano far ripartire gli investimenti, attualmente in terreno negativo per quaranta punti, fra quelli pubblici e quelli privati. Invece non avrà alcun impatto anzitutto perché le aziende di settore hanno i bilanci in profondo rosso, e quindi non possono utilizzare strumenti come il credito di imposta; ma a prescindere dal momento attuale, avrebbe funzionato di più un modello misto, che prevedesse sia l’iperammortamento che il beneficio fiscale introdotto dal ministro Patuanelli. E poi c’è la questione dell’orizzonte temporale: le politiche di trasformazione digitale dell’industria funzionano quando sono strutturali, o perlomeno di durata quinquennale. Nessuno imprenditore apre il portafoglio se la prospettiva è annuale».   

Credito d’imposta previsto dal Piano Transizione 4.0 sulle spese in R&S, innovazione, design. Fonte mise.gov.it

D: Venendo alla pandemia, che tanto ha pesato sull’andamento dell’automotive, cosa è mancato in questi mesi per evitare una seconda chiusura?

R: «La voglia di decidere e di assumersi la responsabilità delle scelte. Già a marzo erano state apportate limitazioni alle produzioni, anche alla luce del Protocollo di contenimento del contagio e salvaguardia della salute delle persone nei luoghi di lavoro. Andavano protette le attività industriali essenziali, come quella farmaceutica e alimentare. Quello che mi colpisce è che stiamo tornando di nuovo nella morsa del Covid-19, e che in tutti questi mesi il governo e altre istituzioni non hanno fatto sostanzialmente nulla per fronteggiarne il ritorno. La protezione civile ha fatto una gara per l’acquisto di ambulanze solo una settimana fa. E poi, il problema è che il virus si diffonde nei trasporti pubblici: bisognava studiare una strategia per evitare gli assembramenti, e questo si fa solo aumentando il numero dei mezzi. Più autobus, più pullman, più corse, più treni. Ma nessuno vuole prendersi le proprie responsabilità, e comunque in Italia la catena decisionale è troppo lunga».

 

D: La crisi dell’automotive ha avuto un impatto fatale sui componentisti: nei primi otto mesi la produzione di comparto ha subito un calo tendenziale del 35,9%. Cosa possono fare per superare la fase recessiva?

R: «I componentisti devono capire che oggi devono lavorare insieme, mettendo a fattor comune le proprie competenze e gli investimenti nella tecnologia, che oggi fanno la differenza. È fondamentale avere delle grandi aziende, perché senza quelle non ci sono né le filiere né tutti i supplier di secondo livello».

Produzione industriale settore automotive. Ad agosto 2020, rispetto al precedente mese di luglio, il dato destagionalizzato della produzione industriale italiana del settore automotive (cod. Ateco 29) registra una variazione positiva del 6,2%, mentre nel trimestre giugno-agosto 2020, rispetto al precedente trimestre marzo-maggio 2020, risulta in crescita del 154%.

D: Sta parlando di aggregazioni? Perché il tema, storicamente, non ha mai riscosso grande fortuna nel Belpaese, neppure tra i componentisti dell’automotive.

R: «In realtà, tra i maggiori supplier si parla eccome di aggregazioni, e tutti i giorni: il nostro mondo è cambiato, e occorre ottimizzare la produzione, realizzare efficienze, incrementare il valore aggiunto, migliorare il servizio ai clienti e avanzare nell’innovazione. Ma sono tutti movimenti che si realizzano solo con una certa massa critica».

 

D: E allora qual è l’ostacolo alle aggregazioni tra aziende di comparto?

R: «Il problema è quello di trovare una soluzione che permetta da una parte di salvare l’identità delle aziende, dall’altra di mantenere integre le singole filiere, relative ad imprese che si occupano di cose diverse. Ci stiamo ragionando, ma la quadra va trovata: l’aggregazione non è solo un’opportunità di crescita; è una necessità storica. Certo lo Stato dovrebbe favorirla, e su questo fronte non ha fatto quasi niente. D’altra parte è troppo impegnato in salvataggi ricorrenti, come quelli dell’Ilva e Alitalia; e coltiva l’idea di sostituirsi ai privati, anche se non sa gestire la cosa pubblica».

Il mercato automotive in Italia dal 2007 al 2019. Fonte Anfia

D: Cosa accadrà nel caso in cui i componentisti non riusciranno a superare il problema dimensionale? Temono di fare la fine del Bianco, settore un tempo dominato dall’Italia e nel quale siamo scomparsi?

R «Direi che il paragone con il Bianco regga da un altro punto di vista, anch’esso importante: il problema con gli elettrodomestici è che, trenta anni fa, si era scoperto che era più conveniente produrli altrove. Ora, la componentistica per auto non è necessariamente un settore a basso valore aggiunto, come il Bianco; ma una riflessione sulla flessibilità e sulla produttività del personale delle industrie deve essere fatta. Molti ragionano come se la concorrenza cinese ed americana non esistesse, ed invece c’è ed è forte; d’altra parte solo 10 milioni di persone in Italia lavorano nel privato, e a tutti gli altri questi discorsi non interessano. Ma è evidente che il rapporto di lavoro deve essere integralmente ridisegnato, perché risponde a esigenze novecentesche e perché è difficile essere competitivi nel contesto del quadro legislativo disegnato ad esempio dal Decreto Dignità, che ha cancellato i contratti a termine. Direi che in generale la rigidità del nostro sistema è un grande limite alla attività industriale». 

 

D: Lei non è molto fiducioso nelle iniziative dello Stato per aiutare le imprese

R: «Ad oggi non esistono i presupposti per esserlo. Si decide una cosa, e la si cambia dopo tre giorni; o altrimenti si prendono provvedimenti retroattivi o incongrui. Si pensi al Recovery Fund, il fondo continentale che per l’Italia vale 209 miliardi fra sussidi e prestiti: l’Italia ha presentato quasi 600 progetti, relativi agli argomenti più disparati, che valgono tutti insieme tre volte il budget potenziale. È chiaro che l’Italia non ha delle priorità industriali, Vanno concentrate le energie su pochi e chiari progetti possibilmente a sostegno dell’industria, perché in caso contrario ed è evidente che l’Europa non ci prenderà mai sul serio. No, lo Stato non ci può salvare se non prende decisioni veloci e importanti per fare ripartire l’industria».














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