Le tecnologie entrate in fabbrica col Covid hanno spinto la produttività. E ora?

di Renzo Zonin ♦︎ La bassa produttività è un problema molto italiano e storicamente incancrenito. Lo shock dello smart working da Coronavirus ha finalmente costretto gli imprenditori a investire in tech e i dipendenti a cambiare abitudini. Per godere pienamente di tutti i vantaggi occorre reperire adeguate competenze, adottare nuovi modelli di formazione, creare nuovi modelli di business e opportunità. La parola a a Masperi (Sap), Busetto (Siemens) e Taisch (Made)

direttore dell'Osservatorio Industria 4.0|Le competenze più importanti per Industria 4.0.|Marco Macchi
Marco Taisch, presidente di Made e docente al Politecnico di Milano

In Italia, la scarsa produttività è un problema ormai più che ventennale, sulle cui cause molto si è dibattuto. Ma la crisi del Coronavirus, che ha “forzato la mano” alle aziende costringendole ad adottare tecnologie avanzate per continuare a operare, ha dimostrato che proprio la resistenza al progresso tecnologico è la palla al piede che inficia la nostra competitività. Aprendoci al digitale, avremo ottime armi per superare la crisi economica che seguirà la pandemia. Sarà possibile sviluppare nuovi servizi e business model, e si apriranno interessanti opportunità riguardo alla formazione e al reperimento delle competenze, grazie all’eliminazione virtuale delle distanze.

In tutto questo, sarà importante che ciascuno faccia la sua parte, dalle istituzioni, che devono comprendere l’importanza di mantenere in Italia un forte comparto manifatturiero, alle aziende, che devono innovare e innovarsi, alle università, che devono essere in prima linea nell’evangelizzare e diffondere il know-how sulle tecnologie di Industria 4.0. Di tutto ciò si è parlato all’interno del Webinar “Manifattura digitale post-Covid”, organizzato dal Competence Center Made del PoliMI, che ha visto la partecipazione di Carla Masperi, Coo di Sap Italia, Giuliano Busetto, Head of Digital Industries in Siemens Italia, e Marco Taisch, Presidente di Made in veste di moderatore. Questo articolo è, in parte, una rielaborazione dei contenuti emersi in quell’incontro. Nel precedente articolo (qui) avevamo parlato del processo di adozione delle tecnologie digitali nell’industria, spinto dal Covid. Ora trattiamo della bassa produttività delle aziende italiane, che si può neutralizzare portando in fabbriche le tecnologie digitali. Questo webinar fa parte di un ciclo di incontri del Made che si può trovare Qui.







 

La produttività aumenta con la tecnologia

Da anni l’Italia soffre di un problema di scarsa produttività rispetto ai partner Europei. Una criticità che, invece di ridursi, nell’ultimo decennio si è lentamente ma sensibilmente amplificata. Le stime Ocse registrano l’ultimo miglioramento significativo del dato italiano nel quinquennio 1995-2000 (con un +1%), e da lì in avanti mostrano un generale appiattimento: +0,1% nel 2000-2005, -0,2% nel 2005-2010, +0,3% fino al 2015, e poi ancora in calo di qualche decimo di lì in avanti.

Crollo dei consumi in marzo 2020 causa Covid: abbigliamento, non food e ristorazione i settori più colpiti. Fonte EY e Centro Studi Confimprese

A livello europeo, navighiamo a metà classifica, apparentemente senza infamia e senza lode, ma ci sono due problemi: il primo è che altri Paesi Ue negli ultimi vent’anni vantano incrementi di 10/15 punti percentuali; il secondo è che tutti i nostri concorrenti diretti dal punto di vista industriale fanno meglio di noi. Germania, Francia, Olanda ci sono davanti. L’Irlanda addirittura ci doppia (anche se il suo eccellente risultato è in parte drogato dalla politica fiscale governativa). Il perché si intuisce confrontando i due parametri con i quali si può definire la produttività: il rapporto Pil/numero del lavoratori e quello Pil/ore lavorate. Dal confronto (sui dati della Commissione Europea) emerge un fatto: gli altri Paesi ci superano principalmente nel rapporto Pil/ore, il che fa pensare che da noi si lavori molte ore producendo poco. E questo fa piazza pulita delle tesi portate avanti negli anni, che davano la colpa di questa stasi di volta in volta ai lavoratori, ai partiti, ai sindacati, agli assenteisti e via discorrendo. La causa principale della mancanza di produttività, in realtà, è da ricercare nel contesto produttivo. Molti esperti concordano da tempo sul fatto che sono la mancanza di innovazione e il forte ritardo nell’adozione di moderne tecnologie digitali a castrare il sistema industriale in Italia. Ebbene, la pandemia ha permesso di dimostrare, se ce ne fosse ancora bisogno, questa tesi. Da un giorno all’altro, il Paese si è trovato in lockdown ed è stato necessario “inventarsi” un altro modo di lavorare e di fare business. Migliaia di aziende hanno adottato tecnologie di smart working, facendo lavorare da casa milioni di impiegati. Dopo qualche assestamento iniziale, si sono cominciati a vedere i risultati. E sì, la produttività è aumentata. È troppo presto per misurare gli effetti sul Pil, ma le indicazioni che arrivano dalle aziende sembrano abbastanza concordi nel registrare il trend positivo.

Giuliano Busetto di Siemens ha dichiarato che incontrandosi in videocall invece che di persona «ci sono stati dei casi dove in una giornata magari abbiamo fatto tre cose importanti, che prima avrebbero probabilmente richiesto tre giorni di tempo, con viaggi e costi» In pratica, l’adozione generalizzata di una nuova tecnologia aveva improvvisamente tolto di mezzo tempi morti, divagazioni e costi inutili, portando a condurre il business in modo nuovo e più efficiente.

Durante il lockdown causato dal Covid migliaia di aziende hanno adottato tecnologie di smart working, facendo lavorare da casa milioni di impiegati. Dopo qualche assestamento iniziale, si sono cominciati a vedere i risultati: la produttività è aumentata

Tecnologie da adottare rapidamente

Accelerare l’implementazione di queste tecnologie ci consentirà di recuperare il gap di produttività, o lo soffriremo ancora di più rispetto ai paesi di riferimento? «È un discorso lungo da affrontare, – ammette Busetto – perché noi prima del virus eravamo in una situazione di sofferenza, sia in contesti internazionali, sia per alcuni fattori tipo la crisi dell’automotive e della Germania, dove molte nostre imprese esportano. Ma deve essere chiaro che anche il governo deve spingere sugli incentivi, e comprendere fino in fondo quanto noi abbiamo bisogno di avere in Italia un’industria competitiva, un’industria nazionale che aiuti le Pmi ma non solo, perché l’unico elemento positivo del nostro Pil è di nuovo la crescita dell’export, creata dalle molte imprese presenti in Italia che operano nel manifatturiero».

L’accelerazione serve dunque, e dobbiamo anzi sfruttare a fondo questo periodo, perché è un’occasione unica per capire l’importanza della digitalizzazione nell’industria, e non solo. «Queste tecnologie vanno applicate anche altri comparti, infrastrutture, edilizia, mobilità, urbanistica. Siamo l’unica nazione che negli ultimi 20 anni ha registrato un andamento negativo del Pil pro-capite, abbiamo una produzione industriale crollata negli ultimi due mesi e abbiamo un indicatore Pmi (Purchasing Managers Index) ancora abbondantemente sotto il 50 (che indica recessione). Se non ci si rende conto che la situazione è drammatica, sarà dura uscirne. Da qui il nostro convincimento che si debba spingere ancora su questi temi perché molta strada è ancora da fare».

Secondo Carla Masperi di Sap, è probabile che qualche azienda non ce la farà. «Il problema è che se non si investe sul digitale non c’è molta storia, anche il Covid ce lo ha ricordato, perché abbiamo mercati emergenti che stanno accelerando in quella direzione. La competitività si gioca su tecnologie, flessibilità e resilienza, e quindi occorre avere la prontezza di cogliere tutta la ventata innovativa delle tecnologie per poter stare sul mercato. Il Covid in qualche modo mi ricorda il vulnerability assessment che viene fatto dalle aziende di sicurezza. È stato un po’ un modo per metterci alla prova, per capire dove sono le debolezze. Chiaramente oggi la sfida è correggerle e rafforzare le nostre aziende grazie alla tecnologia».

Ariba Discovery, la piattaforma di Sap b2b dove ogni azienda può affacciarsi e trovare nuovi fornitori, alleggerendo i problemi di approvvigionamento che in queste condizioni di mercato si sono trovate ad affrontare

I Competence Center saranno gli evangelist

In questo i Competence Center e il Made in particolare dovrebbero rivestire un ruolo importante, sia nel diffondere il know-how, sia nell’accelerare un cambio di mentalità, sia nel far capire come certi investimenti, se ben pianificati, siano alla portata delle aziende, anche delle Pmi che sono l’ossatura della nostra struttura produttiva. La mentalità, il modo di pensare in azienda, in particolare, è un punto critico. Secondo Busetto, «a volte è più difficile superare la ritrosia dello staff interno delle aziende che non varare il vero investimento in termini monetari, ma il ritorno di investimento è drammaticamente importante per le imprese. Avere a disposizione molte tecnologie, dimostrare i vantaggi di una rispetto all’altra e come questo può facilmente essere implementato nell’impresa credo sia il vantaggio del Made, ed è per questo che molte imprese hanno deciso di investire e di essere partner».

Tuttavia, c’è a questo punto il rischio che passi un messaggio sbagliato, e cioè che le tecnologie digitali dobbiamo implementarle come strumento difensivo per evitare di perdere competitività rispetto agli altri paesi. In realtà, esse vanno usate perché consentono di realizzare nuovi servizi e nuovi business.

 

Remotizzare e servitizzare, i nuovi paradigmi del business

Molte aziende si sono trovate costrette, durante la pandemia, a cambiare anche profondamente il loro modo di dare servizi ai clienti. Ma la cosa ha sortito effetti positivi, dimostrando che “qui abbiamo sempre fatto così” non è un buon modo di procedere. Quanti prima del Covid utilizzavano la tecnologia per eseguire da remoto i collaudi di impianti installati in giro per il mondo? Praticamente nessuno, ma ora lo si è dovuto fare, si è visto che funziona, costa meno, il cliente è contento, e diventerà probabilmente il modo standard di operare. E magari l’azienda potrà creare altri servizi in remoto, manutenzione, consulenza, gestione eccetera. Quindi si potrà pensare di lanciare nuovi business che creano valore, nuovi servizi, perché nel business tutto sta prendendo la forma del servizio. «C’è anche il concetto di impianto as a service, – spiega Marco Taisch, presidente del Made – dove l’azienda usa per produrre un impianto non suo, per il quale paga una fee, di fatto noleggiandolo. Si poteva fare anche prima ma forse adesso la pratica si diffonderà».

Sia i servizi che il manifatturiero a marzo 2020 sono in forte contrazione causa Covid-19. Fonte Centro Studi Confindustria

I modelli di business stavano cambiando già prima del Covid, ci si stava mano a mano spostando verso il pay-per-use, verso il XaaS o “Tutto as a Service”, e questo fenomeno è destinato ad ampliarsi in era post-Covid, non fosse altro perché le aziende hanno poca liquidità e non possono permettersi grandi investimenti in conto Capex. «Fino a poco tempo fa era impensabile offrire una macchina utensile sulla base della sua produttività – esemplifica Busetto – E invece oggi questo è molto più vicino alla realtà, ci sono modelli di business in cui la macchina non viene più venduta come bene o come manufatto, ma per la tipologia di produzione che fa, per esempio nel packaging quante bustine produce, nel tissue quanti rotoli di carta, eccetera. Non in tutto il mercato il cliente è ancora pronto a questo, o anche chi produce manufatti, ma sicuramente avrà un’accelerazione molto intensa, come vediamo nella mobilità – e questo è un altro aspetto». Sembra incredibile che un evento estremamente negativo come una pandemia possa aver messo in moto un’evoluzione così positiva. Secondo Masperi, la pandemia ha tolto alle imprese, e al management, gli alibi dietro i quali si nascondevano. «È chiaro che certe resistenze stanno calando, – suggerisce Masperi – quante cose ci sembravano impossibili due mesi fa, si diceva c’è l’impatto organizzativo, il change management… è bastato un virus per spazzare via questi approcci. Forse avevamo un po’ paura di fare questo salto nel digitale, che altre economie emergenti stanno facendo più rapidamente di noi. Di questo dobbiamo prendere atto, e questa esperienza del Covid ha dimostrato che invece la flessibilità, la creatività e la capacità di reagire come italiani ce l’abbiamo. Ho visto aziende, anche nel settore pubblico, portare migliaia di dipendenti in smart working in due settimane».

 

La ricerca di competenze diventa globale

L’impatto delle tecnologie si estende al mondo del lavoro anche in modi non immediatamente evidenti. «Pensate per esempio a quali competenze potrebbe accedere un’azienda anche piccola con lo smart working, perché prima la distanza geografica rappresentava una barriera, mentre se puoi lavorare in remoto puoi dotarti di persone che possono risiedere anche di là dall’oceano, che ti servono per l’azienda, ma che non è necessariamente importante avere fisicamente vicino. Quindi si apre un ventaglio di possibilità che riesce a dare all’azienda maggiore potenzialità e creatività» suggerisce Masperi.

Il rischio, naturalmente, è che se si andranno a prendere le competenze all’estero tramite smart working potrebbe innescarsi una fuga di cervelli 2.0. Ovvero non perché se ne andranno, ma perché non useremo più le competenze che abbiamo nel paese. E c’è anche qualche altro fattore critico. Per esempio, le relazioni con gli altri membri del team. Secondo Masperi, «il bisogno di relazione, di tornare in azienda, lo sento da molti colleghi, e infatti stiamo aprendo gradualmente per motivi di sicurezza. Il nostro modo di tornare in azienda tiene conto delle distanze ma anche dell’importanza dell’aspetto relazionale, perché la vita aziendale non è solo contenuto e competenza. È lì che poi tutta la componente di competenze e soft skill diventa importante. Oggi se c’è una cosa che ci ha insegnato il Covid, è l’importanza della resilienza, sul business ma anche sulla persona: la capacità di adattarsi in continuo alle mutate esigenze diventa una competenza chiave. Le skill ci sono già, sono quelle di sempre, al più possiamo dire che subiranno un’accelerazione certe professionalità rispetto ad altre».

Quali sono le competenze che chiedono le aziende? Fonte EY

Una crisi della domanda

Secondo alcuni economisti, questa che stiamo vivendo non è una crisi dell’offerta o della capacità produttiva, ma della domanda. Ma cosa si può fare per incrementarla, al di là degli incentivi e di andare a intercettare i cambiamenti dei comportamenti dei consumatori? «C’è una crisi globale, e noi siamo un paese che fa fatica a crescere – ammette Busetto – siamo orgogliosi di ciò che l’Italia ha fatto in questo periodo, ma se ci si guarda attorno, oggi c’è una decisione del governo tedesco di mettere per un certo tempo l’Iva al 16%, qui si parla se portarla al 22 o 24%. Ma noi abbiamo bisogno di un mercato interno che riprenda, possibile anche con degli incentivi da parte delle istituzioni; mentre il successo sul mercato export dipende dalla competitività delle nostre imprese, che possono trarre vantaggio dalla digitalizzazione, e poi dalla situazione mondiale che deve riassestarsi. Abbiamo visto come la Cina si sia ripresa in pochi mesi. Dobbiamo fare leva sulle capacità, sull’intelligenza, sulla fantasia, sulla versatilità di noi italiani, ma dobbiamo smetterla di dire che siamo bravi e che siamo la seconda manifattura in Europa, perché potremmo diventare presto la quarta se non ci diamo una mossa».

Analisi regione per regione del crollo dei consumi a marzo 2020 vs marzo 2019. Lombardia la regione più colpita. Fonte EY e Centro Studi Confimprese

Guardando al futuro

Quindi, qual è la lezione che ci lascia il Covid? «Che non c’è più spazio per improvvisare – afferma Masperi – Il Covid è stato per noi uno shock esogeno, ha messo in luce debolezze e problemi che oggi sono chiari. Ha tracciato una direzione che sarà inesorabile, ha accelerato un percorso di digitalizzazione dal quale non si torna indietro. Invece, abbiamo preso una velocità che va mantenuta e quindi, se ci sono stati dei momenti in cui alcune aziende hanno sofferto, adesso è chiaro che per rigenerare domanda occorre avere la capacità come Paese di irrobustire il nostro tessuto industriale. Quindi diventa molto importante fare leva su questa lezione del Covid per rendere più solide, più produttive, più digitali le nostre aziende. In questa direzione tracciamo il futuro, altrimenti temo che tante altre economie ci passeranno davanti».

«Non pensiate che le società stesse non cambino – aggiunge Busetto – Ho parlato di skill diversi, modalità di approccio al mercato, ma anche di trasformazione interna. Per esempio, in Siemens facevamo smart working da anni e gli spazi sono studiati per una presenza media del 70% dei dipendenti, adesso stiamo pensando di scendere al 40, al 50%. Cambiano gli spazi e si contengono i costi. Aumenta l’interazione fra le persone, ma fatta in modo diverso. La società stessa pensa come riorganizzarsi. È un argomento che vorrei mettere sul tavolo, perché di conseguenza cambieranno le città, gli spazi. A Milano, quegli uffici fantasmagorici nei grattacieli del centro città oggi non possono essere occupati, perché lì ci si sposta solo con l’ascensore e non si possono fare 40 piani a piedi. Probabilmente c’è da ripensare anche l’urbanistica delle città, ma questo aprirebbe altri discorsi. Lo lascio come spunto perché questa è una profonda trasformazione delle imprese manifatturiere, ma lo sarà anche della nostre vite e delle nostre città».














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