Made in Italy: tuteliamolo con la blockchain

Di Renzo Zonin ♦︎ Un progetto pilota del Mise, coordinato da Ibm con organizzazioni di categoria e imprese, utilizza questa tecnologia per valorizzare i prodotti italiani e combattere la contraffazione. I risultati dello studio di fattibilità, durato sei mesi, sono disponibili sul sito del ministero

Made in Italy nel mondo è sinonimo di creatività, elevata qualità e unicità dei prodotti, che si distinguono per essere un perfetto mix fra innovazione e tradizione, sapori antichi e metodi di produzione all’avanguardia. E la cosa vale un po’ in tutti i settori: dalla moda all’alimentare, dalla cantieristica alla produzione di macchine sportive. È ovvio quindi che clienti di tutto il mondo siano disposti a pagare un sovrapprezzo per la “qualità italiana”, ma è anche fatale che questo surplus di guadagno attiri le attenzioni di imprenditori senza troppi scrupoli. Un’indagine Ocse di un anno fa quantificava in 32 miliardi di euro il danno economico alle Pmi italiane dovuto alla contraffazione dei nostri prodotti. E un’analisi del Censis del 2017 valutava in circa 5,9 miliardi l’aumento di gettito fiscale che sarebbe generato dall’eliminazione del falso made in Italy. Non sono cifre da sottovalutare.

E qui si pone quindi un problema annoso: come difendere il prodotto italiano dalle contraffazioni, dall’”italian sounding”, da tutte quelle piccole e grandi truffe che sfruttano il nome del Bel Paese per produrre un ingiusto guadagno, finendo per danneggiare nel contempo la fiducia dei consumatori del prodotto italiano e, in ultima analisi, i conti delle nostre aziende e dell’erario?







Purtroppo, i governi italiani degli ultimi 70 anni hanno fatto ben poco contro la falsificazione, e quel poco era concentrato su azioni volte a limitare la diffusione di prodotti falsi in Italia. Non è mai stato fatto nulla di significativo invece sul fronte della difesa dei prodotti italiani all’estero, a differenza di ciò che succede in altre nazioni, che hanno compreso da tempo l’importanza del problema. Provate a etichettare “Tocai” un vino friulano, e vi troverete alla porta orde di avvocati inviati dal governo ungherese. Provate a produrre sul Lago di Como un formaggio chiamandolo “Camemberto”, e vi troverete la portaerei Clemenceau in assetto di guerra a incrociare di fronte a Bellagio. Nel frattempo, in Ungheria un imprenditore produce la “Mozzarella Italia” senza che nessuno ci trovi nulla da ridire. E non cominciamo neppure a parlare del caso Parmesan e dei mille altri prodotti pseudo-italiani venduti negli States. Fino a oggi, le uniche a muoversi e tentare di fare qualcosa sono state le associazioni dei produttori, che però non sono in grado di affrontare i costi di decine di cause legali o di campagne anticontraffazione su larga scala, proibitivi per i loro già asfittici bilanci.

 

Una risposta tecnologica

La blockchain sarà sempre più integrata con tecnologie complementari per generare nuovi vantaggi. Fonte Ibm

Cosa fare dunque per proteggere il Made in Italy, se non si vuole avviare una guerra legale con il mondo intero, e se non ci sono soldi a sufficienza per lanciare campagne di sensibilizzazione dirette ai consumatori di tutto il pianeta? Una risposta potrebbe arrivare dalla tecnologia, grazie al potenziale abilitante del digitale. Alla base dell’ipotesi di lavoro una parolina magica: blockchain. Per molto tempo questa tecnologia è stata identificata con la sua prima applicazione nota, quella del controllo della valuta Bitcoin; in realtà, la gestione della criptovaluta era solo la prima applicazione pratica di una “catena di blocchi”, ma la tecnologia può essere utilizzata in molti altri compiti dove sia necessario tenere traccia di transazioni garantendo la sicurezza della registrazione.

Come per tutte le tecnologie complesse, è difficile dare una definizione univoca di blockchain, ma in estrema sintesi è una sorta di registro distribuito dove possono essere memorizzate informazioni che rimangono permanentemente disponibili e non cancellabili, in modo da poter sempre ricostruire e tracciare le transazioni, che sono anche protette da crittografia. Pensate a una sorta di quaderno contabile incancellabile diffuso in migliaia di copie, dove registrare la storia delle materie che compongono un dato prodotto; per alterare un dato, il falsario dovrebbe modificare tutte le copie del quaderno esistenti, finendo per lasciare traccia della sua attività su ogni copia. Più tecnicamente, parliamo di un database distribuito su una rete, protetto da crittografia e gestito tramite un protocollo che rende i dati incancellabili, consultabili, tracciabili e verificabili senza necessità di un’autorità centralizzata che li gestisca. Proprio quello che ci vuole per risalire, partendo da un’etichetta, all’origine e alla storia di ogni materiale, parte e lavorazione di un prodotto, con la garanzia che i dati non possono essere stati alterati da nessuno.

 

Il progetto pilota

Il ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli

Per indagare sul possibile uso della blockchain per finalità di protezione di una filiera, il Ministero dello Sviluppo Economico avviò l’anno scorso una sperimentazione che coinvolgeva vari attori, e puntava a definire una sorta di via italiana alla blockchain.

«Stiamo lavorando a livello europeo, nell’ambito della European Blockchain Partnership, al fine di esportare il modello italiano di protezione delle filiere produttive attraverso le tecnologie emergenti. Pensiamo che in questo ambito il nostro Paese possa giocare un ruolo di leader a livello comunitario» ha dichiarato a proposito dell’iniziativa Stefano Patuanelli, Ministro dello Sviluppo Economico.

E dal canto suo Enrico Cereda, Presidente e Ceo di Ibm Italia, azienda scelta come capofila del progetto, ha affermato che «l’apertura alla competizione dei mercati globali pone il brand Made in Italy nella condizione di dover assicurare la massima trasparenza e tracciabilità. L’uso della Blockchain è l’innovazione che può consentire alle nostre imprese di garantire i propri prodotti, differenziandoli in termini di qualità e sostenibilità. Questo permetterà ai consumatori di scegliere con la massima consapevolezza, garantendo alle aziende un ritorno importante in termini di fiducia».

Enrico Cereda Ceo IBM Italia
Enrico Cereda Ceo IBM Italia

La sperimentazione citata dal ministro è iniziata nel febbraio 2019, e muoveva da una visione secondo la quale le nuove tecnologie basate su registri distribuiti possano contribuire a migliorare la trasparenza e la tutela dei marchi italiani, a pieno vantaggio soprattutto di quelle piccole e medie imprese che potrebbero essere interessate a promuovere il valore della propria produzione all’interno della stessa filiera e verso il consumatore finale sul territorio nazionale ed internazionale. Per indagare le potenzialità del paradigma tecnologico proposto, si scelse di analizzare le peculiarità del settore tessile e di concentrarsi sull’aspetto della tracciabilità, focalizzando l’analisi su qualità, origine e sostenibilità ambientale ed etica.

Con il supporto delle associazioni di categoria, sono state individuate alcune aziende rappresentative della filiera, che sono state coinvolte nelle quattro fasi del progetto. Si è iniziato con una prima fase di definizione del settore, delle aziende e della tecnologia, per poi passare all’analisi e definizione di esigenze e requisiti, e a una terza fase di sperimentazione vera e propria, per chiudere con un’analisi di fattibilità (riferita naturalmente all’utilizzo di quanto emerso nel progetto pilota per realizzare un sistema business-grade). I risultati della sperimentazione sono raccolti in un documento di una sessantina di pagine sul sito del Ministero. Il documento, intitolato “La blockchain per la tracciabilità del Made in Italy: Origine, qualità, sostenibilità”, riporta in dettaglio sia le premesse tecnologiche e i vantaggi attesi, sia il completo caso d’uso e l’analisi finale di fattibilità.

 

Le conclusioni del documento

Il rapporto del Mise su blockchain e Made in Italy

Interessanti le considerazioni conclusive, che riassumiamo in ordine sparso. Primo, manca nell’industria un’omogenea percezione e conoscenza della blockchain – e potremmo scommettere che sia così anche in molti altri ambiti. Quindi prima di valutarne l’adozione estensiva, serve creare cultura sulla blockchain nella filiera. Secondo, per creare una blockchain neutrale ed equidistante fra grandi gruppi e Pmi è necessario un intervento statale che faciliti il coinvolgimento dei soggetti interessati. Qualcuno già ipotizza un’evoluzione del programma Industria 4.0 (o qualsiasi nome gli sia stato dato oggi) verso un ipotetico “Filiera 4.0” che tenga conto di incentivi e misure atte a supportare il Made in Italy. Terzo, l’approccio bottom-up seguito nel progetto ha fatto emergere la necessità di garantire un metodo olistico alla digitalizzazione, che parta dai principali snodi di valore della filiera e che coinvolga mano a mano tutti i soggetti interessati, sia pubblici sia privati. Quarto, per sviluppare gradualmente il sistema potrebbe essere utile partire da uno zoccolo duro di attori e segmenti di filiera contigui, per poi allargare l’adozione a tutto l’ecosistema target. Potrebbe anche servire trovare il modo di dare più attenzione a quegli attori che, con la loro presenza, possono portare un contributo positivo alla sostenibilità del modello. Quinto, le competenze saranno un fattore chiave, che siano di processo o tecnologiche. Il documento suggerisce grande attenzione alla predisposizione di percorsi formativi per le professionalità necessarie, come esperti in blockchain, specialisti di integrazione, specialisti in tecnologie IoT, esperti di sicurezza in ambienti distribuiti e così via. Sesto e ultimo, la filiera del tessile ha ancora un gran numero di processi basati su documentazione cartacea. Urge accelerare il processo di digitalizzazione, anche per poter abilitare altre opzioni – in particolare, un gestione e coordinamento dei dati di filiera che permetta di costruire il racconto del prodotto, ed esplicitare i valori dei quali è portatore.

 

Nascita del progetto

Loredana Chianelli, capo progetto su blockchain e Made in Italy in Ibm

Per capire meglio come ha funzionato il progetto pilota presentato al Mise, e soprattutto quali vantaggi (ed eventuali oneri) si possano aspettare le aziende nel caso la tecnologia venga adottata, abbiamo intervistato Loredana Chianelli, capo progetto in Ibm. La prima cosa che abbiamo chiesto è stata ovviamente qual è stata l’esigenza scatenante del progetto. «L’esigenza principale è stata supportare i processi di tracciabilità, dove per tracciabilità non si intende solo privilegiare aspetti e informazioni legati all’origine o provenienza. Il significato è più ampio, in quanto è teso a condividere tutte le informazioni su materiali e lavorazioni che possano dimostrare la qualità, l’attenzione verso la sostenibilità ambientale e l’etica della produzione». Ma come si è arrivati a vedere nella blockchain lo strumento ideale da mettere alla base della soluzione? «Condividere le informazioni relative a materie e lavorazioni effettuati è possibile tramite la tecnologia blockchain, che consente di metterle a disposizione di tutti gli attori della filiera e degli attori interessati. Blockchain è uno strumento ideale per le stesse caratteristiche intrinseche della tecnologia, è infatti un registro condiviso e distribuito che consente di supportare e facilitare la registrazione delle transazioni aventi per oggetto un asset scambiato all’interno di una business network. Infatti, parlando di blockchain non si parla solo di tecnologia ma si parla di ecosistema, business network o filiera».

Messo in questi termini, si direbbe che presto dovremo abituarci a vedere la blockchain usata per cose molto diverse dal tracciamento di transazioni Bitcoin. Ma una cosa è tracciare transazioni di criptomonete e un’altra seguire la filiera di un prodotto. In che cosa consiste, come è strutturata la soluzione proposta? «È stato realizzato un primo prototipo su tecnologia blockchain – spiega Chianelli – in cui si simula una filiera semplificata costituita da: un coltivatore che produce una fibra, la fibra che viene valutata da un certificatore, un’azienda manifatturiera che acquista la fibra e produce un capo, il brand che riceve i lotti di prodotto finito posizionandoli sul mercato e il consumatore finale che acquista il capo. La blockchain ha consentito di tracciare tutte queste transazioni che si verificano all’interno della filiera con tutte le informazioni a contorno (dati, documenti, certificati, eccetera); abilitando tutti gli attori alle attività di verifica, rendendo la filiera trasparente per tutte le parti e in particolare per il consumatore che, avendo visibilità della storia del capo, potrà effettuare un acquisto consapevole. In sintesi, per le caratteristiche intrinseche della blockchain, questa tecnologia consente di supportare le filiere per garantire tracciabilità, affidabilità e trasparenza. Il prototipo è semplicissimo da utilizzare, uno dei requisiti emersi è stato la necessità di semplificare il lavoro e di avere a disposizione uno strumento “user friendly”: ogni attore ha le proprie credenziali, si collega a un proprio ambiente dove ha a disposizione delle specifiche funzionalità (per esempio caricare documenti da associare ad un lotto di materia prima o prodotto finito). È disponibile per ogni attore un cruscotto specifico che consente di visualizzare lo stato aggiornato delle attività».

 

I partecipanti al progetto

Le 4 fasi del progetto. Fonte Mise

Volendo seguire il percorso di un prodotto lungo tutta la filiera, è giocoforza trovarsi a lavorare con figure diverse. Chi sono gli attori coinvolti e cosa ha fatto ciascuno nel progetto? «Si è deciso di partire con la disponibilità delle associazioni di categoria, il settore tessile scelto infatti è rappresentativo dell’eccellenza italiana in termini di manifattura ed è un settore complesso. Sono state coinvolte le principali associazioni: Sistema Moda Italia, Confapi, Confartigianato e Cna Federmoda. Ci si è confrontati anche con altre associazioni al di fuori del tessile (Unic, Federlegno). Le associazioni del tessile hanno descritto lo stato del settore, in termini di valori e sfide da sostenere; successivamente, insieme alle stesse associazioni, è stata costruita una survey somministrata alle Pmi del tessile presenti su tutto il territorio nazionale. L’obiettivo era raccogliere informazioni e feedback direttamente dalle aziende che operano nel settore stesso. Dopo la ricerca, è stato organizzato un workshop per coinvolgere le aziende direttamente nel progetto. Durante la sessione sono stati presentati i risultati del questionario somministrato, che mostravano un alto interesse da parte delle aziende per le nuove tecnologie e la blockchain; inoltre si è presentato il progetto in termini di obiettivi, tempistiche e metodologie. È stata organizzata una sessione specifica per sensibilizzare le aziende su valore e benefici della blockchain. A valle di questa giornata, diverse aziende si sono candidate come volontarie, di queste 12 sono state selezionate come rappresentative della filiera. Con le aziende, enti, esperti, associazioni abbiamo avviato un percorso di analisi. Al gruppo di lavoro si sono poi aggiunti altri attori coinvolti nelle diverse fase progettuali: associazione pelli, esperti di settore, Unionfiliere (coinvolti nel workshop iniziale), Dogane, Accredia, Adiconsum (coinvolte nell’analisi)».

 

I vantaggi

Flusso su blockchain per filiera tessile. Fonte Mise

Un’ampia platea di partecipanti risulta forse complicata da gestire, ma almeno ha il plus di mettere in luce ogni aspetto, positivo o negativo, del funzionamento di un progetto, cosa che in genere non si ottiene con prove di fattibilità svolte su un campione artificiosamente ristretto del mercato di riferimento. Vediamo quindi di indagare sui pro e contro, iniziando da quali problemi risolve e quali vantaggi porta alle aziende e al consumatore questo tipo di tecnologia. «La blockchain è una tecnologia che può restituire un posto di primo piano alle aziende italiane che si trovano in una posizione non sempre di forza all’interno di filiere complesse, – spiega Chianelli – dove le aziende a monte e a valle (coltivatori, brand) sono molte volte internazionali e hanno spesso un maggior potere, sbilanciando così le logiche dell’intera filiera; la realizzazione di una filiera trasparente consentirà di innescare circoli virtuosi basati sulla fiducia delle parti e, essendo il sistema aperto, attirerà a sé attori interessati a sviluppare specifici servizi per la filiera stessa. Il consumatore, come tutti gli altri attori della filiera (inclusi eventuali certificatori, auditor o attori pubblici) avrà a disposizione tutte le informazioni sul prodotto (materie prime e lavorazioni effettuate) in termini di certificazioni o dati utili che possano supportarlo in un acquisto consapevole. Le informazioni raccolte, visibili e validate dalla filiera, sono disponibili, immodificabili e aggiornate in tempo reale. Il consumatore avrà lo strumento per effettuare acquisti consapevoli rispetto a tematiche e valori di rilievo come impatto ambientale ed etica».

 

Il modello tecnologico

A oggi non esiste ancora uno standard universale di interoperabilità per le tecnologie blockchain, quindi quella selezionata deve poter integrare diversi fornitori e diversi ambienti IT che sono tipicamente presenti nelle aziende. Ciò significa che l’apertura della tecnologia blockchain è essenziale. In genere, non ha senso adottare una tecnologia proprietaria di questo tipo, in quanto richiederebbe a tutti i partecipanti sulla rete aziendale – presenti e futuri – di adottare lo stesso fornitore, aumentando il rischio di lock-in, di incremento dei costi e di mancanza di innovazione.

Inoltre, per evitare intrusioni nella rete di produzione del bene e quindi in qualche modo controllare i partecipanti, pur mantenendo le loro transazioni private e riservate alle caratteristiche di base, la blockchain deve consentire il monitoraggio delle attività di rete, ai fini di audit e verifica; evitare l’anonimato dei partecipanti, fornendo tuttavia servizi di membership diversificati; abilitare transazioni private e riservatezza degli scambi mediando l’uso di certificati digitali e algoritmi di crittografia dei messaggi; consentire una governance congrua alle politiche del settore concordate in anticipo dai principali stakeholder, come un consorzio di membri, un regolatore o un market maker. Le regole possono essere di ampio respiro e potrebbero, per esempio, descrivere come viene raggiunto il consenso, come vengono decise le modifiche future all’adesione o chi è responsabile per eventuali errori negli Smart Contract.

Architettura proposta per applicazione blockchain per il Made in Italy

A titolo di esempio, una tecnologia che potrebbe indirizzare i requisiti evidenziati è Hyperledger Fabric, sviluppata nell’ambito del progetto Hyperledger. Come altri progetti della Linux Foundation, Hyperledger è un consorzio per lo sviluppo di software aperto, quindi in linea con le linee guida dell’Agenzia per l’Italia Digitale. Più di 260 organizzazioni, provenienti da diverse industrie, sono iscritte a Hyperledger, che forte di una enorme comunità di sviluppatori ha dato luogo a più di 10 sviluppi di software open standard.
Uno dei progetti Hyperledger più avanzati è Hyperledger Fabric, che fornisce un’implementazione di un registro condiviso e di un framework per l’esecuzione degli Smart Contract costruito attorno ai principi di sicurezza (per riflettere le esigenze delle imprese regolamentate) e alla modularità (per consentire l’innovazione). È sviluppato da un team mondiale che rappresenta decine di organizzazioni, con svariati esempi già in produzione. Hyperledger Fabric è considerata enterprise ready, ovvero utilizzabile da imprese e aziende. Questa Readiness per le imprese è abilitata da prestazioni (numero di transazioni nell’unità di tempo) adeguate a un processo produttivo, elevati livelli di sicurezza e algoritmi di consenso configurabili in funzione delle necessità della rete.

 

Gli svantaggi

A fronte di questi vantaggi che si otterranno, però, ci saranno anche dei costi implementativi e di gestione. Che tipo di overhead/maggiori costi implica l’utilizzo di questa soluzione, in particolare per le Pmi? «Le metodologie per definire una soluzione blockchain prevedono un’analisi dei costi e benefici in base alla soluzione condivisa tra tutti gli attori partecipanti e al ruolo svolto dagli stessi all’interno del network – afferma Chianelli – Il modello dipende anche dalla governance che l’ecosistema decide di adottare. In base a tali considerazioni, ne deriveranno costi e tempistiche per le implementazioni». Che tradotto in “business italian” dovrebbe suonare più o meno “non sappiamo ancora quanto costa, vediamo l’industria del settore quanto è disposta a spendere e poi tariamo il sistema per quella cifra, suddividendo il costo proporzionalmente fra tutti; ma magari si trova il modo di accollarlo allo Stato”. Naturalmente la traduzione è nostra.

 

Dal pilota alla pratica

Attori coinvolti nel progetto pilota. Fonte Mise

Visti i risultati positivi della sperimentazione, si dovrebbe pensare a questo punto a trasformare il progetto pilota in qualcosa di reale. Ma cosa serve per metterlo concretamente in opera? Chi deve impegnarsi, quali sarebbero i passaggi necessari, i tempi e i costi di implementazione? «L’approccio collaborativo e corale è stato fondamentale per la realizzazione del progetto – afferma Chianelli – perché ha consentito di analizzare la filiera da tutti i punti di vista (certificatore e consumatori inclusi), di mettere a fattor comune esperienza e problematiche e di proporre delle soluzioni condivise.

Occorre definire l’ecosistema da analizzare e il caso d’uso specifico, successivamente occorre effettuare un’analisi per quantificare i benefici e costi di una soluzione blockchain per tutti gli attori del business network, benefici e costi saranno ripartiti in base al modello di governance che si propone per la gestione della soluzione stessa. Si passa da una logica verticale centrata sull’azienda a una logica di condivisione e collaborativa trasversale a tutti gli attori coinvolti. La blockchain consente di rivedere (nell’ottica di semplificare) e digitalizzare i processi esistenti sulla filiera, un passaggio fondamentale è la rappresentazione dello stato attuali dei processi con i punti di criticità indirizzabili tramite una nuova soluzione. I costi e tempi saranno strettamente correlati alla soluzione condivisa».

Insomma, tranne il mistero fitto sui costi concreti della soluzione basata su blockchain – costi che vanno dal mero input dei dati al mantenimento del database condiviso, aspetto quest’ultimo che pare essere la bestia nera della blockchain, visto che ogni transazione si ripercuote su tutti gli archivi producendo consumi – in termini di risorse di calcolo, di storage ed elettrici – non indifferenti – per il resto non sembrano esserci problemi invalicabili all’adozione di un sistema di tracciabilità basato su questa tecnologia. Almeno se parliamo di problemi tecnologici.

Più complesso è il discorso riguardante burocrazia e politica, che in un progetto di queste dimensioni sono chiamate a recitare un ruolo non secondario. Soprattutto nel caso il Ministero decida di implementare il sistema sotto la sua egida, assumendosene – anche parzialmente – i costi. Certo, il fatto che la sperimentazione sia in qualche modo partita proprio su spinta del Mise fa ben sperare, e potrebbe essere la prima volta che lo Stato scende in campo in modo concreto a fianco delle aziende per proteggere il Made in Italy a livello globale. Resta, tuttavia, l’incognita della politica (e della burocrazia) Europea, da sempre impegnate nella distruzione delle nostre tipicità e nella negazione della qualità del prodotto italiano, attività in genere fatte passare per “tutela dei consumatori” ma di fatto svolte a favore delle multinazionali straniere, soprattutto nel settore alimentare. Basti pensare ad assurdità come quelle che hanno riguardato negli ultimi anni il lardo di Colonnata, i forni a legna delle pizzerie, e l’assurdo “semaforo alimentare” recentemente entrato in vigore. Ma quindi che possibilità ci sono che una soluzione di questo tipo venga accettata come legale in Europa, visto che la commissione europea è chiaramente a favore dell’”italian sounding”, ovvero la produzione all’estero di imitazioni di prodotti italiani, e che negli ultimi venti anni ha fatto tutto ciò che era in suo potere per evitare che l’origine italiana di un prodotto potesse essere certificata al consumatore e presentata come un plus?

«Le possibilità sono elevate, il progetto è stato presentato al tavolo di lavoro europeo dell’Unece, l’Italia ha la presidenza della Eu Blockchain Partnership e il progetto è stato presentato ai rappresentanti dei Paesi aderenti. I feedback sul lavoro e analisi effettuate sono stati molto positivi e se ne riconosce il valore, si vorrebbero avviare piloti simili a livello europeo. Sicuramente l’opportunità di scalabilità di un’esperienza nazionale a livello internazionale risponde all’esigenza di tutela del Made in Italy, contrastando fenomeni come l’“italian sounding”. Ovviamente restano importanti, a parte gli aspetti progettuali e relativi alla tecnologia, quegli aspetti relativi a standard, normative e regole. Proprio l’Unece ha avviato in tal senso tavoli di lavoro a livello europeo per la realizzazione di policy per normare processi di tracciabilità (soprattutto dal punto di vista dell’impatto ambientale)» conclude Chianelli. Speriamo bene. Noi però, se fossimo nei panni del ministro, quei tavoli di lavoro li monitoreremmo molto da vicino. Perché, come diceva Pio XI, “a pensare male si fa peccato, ma spesso si indovina”.














Articolo precedenteIt e Security, Axis Communications sigla partnership con Allnet.Italia
Articolo successivoLeonardo: vola alta la performance 2019, al di sopra delle aspettative






LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui