Oem: sette regole d’oro per guadagnare con le macchine utensili

di Marco de' Francesco ♦︎ I costruttori devono suggerire implementazioni tecnologiche, creare nuove componenti, guidare le scelte dei clienti, imparare a gestire i dati e le informazioni. Le soluzioni tecnologicamente meno avanzate possono sembrare adatte agli scopi del momento, ma sul breve-medio distruggono valore. Occhi a Industrial Iot e intelligenza artificiale. Nordmeccanica, Zani Presse, Breton, Ocme e Fameccanica spiegano perché. E anche Giambattista Gruosso e altri esperti

C’è un mito da sfatare: i costruttori di macchine utensili non dovrebbero implementare tecnologie che apparentemente non servono al cliente, anche quando queste rappresentano l’avanguardia nel settore. Perché queste tecnologie comporterebbero uno sforzo inutile per l’Oem e una spesa non facilmente ammortizzabile per l’azienda acquirente. Ad esempio, che senso ha inserire una forma avanzatissima di intelligenza artificiale solo per rilevare possibili guasti? In realtà, tipologie più semplici sembrano apparentemente sufficienti. Peccato che sul medio-lungo termine, causino più problemi che vantaggi.

Industria Italiana ne ha parlato con alcuni Oem (Nordmeccanica, Zani Presse, Breton, Ocme e Fameccanica) ed esperti del settore. Dal confronto con loro, si possono derivare sette “regole” per gli Oem in tema di digitalizzazione delle macchine utensili







1)      Anche considerato che una macchina utensile dovrebbe essere operativa per 20 anni e che la fidelizzazione è fondamentale, deve essere l’Oem a suggerire le implementazioni tecnologiche strettamente necessarie, interpretando le reali necessità dell’end-user.

2)      L’Oem deve predisporre una strategia che tenga conto, come vedremo, di più elementi: business model, roadmap tecnologica, competenze e back-end dell’innovazione (scalabilità di quest’ultima nell’azienda).

3)      L’Oem deve sapere che al centro del suo rapporto con l’end-user il prodotto è solo una delle componenti: all’acquirente interessano sempre di più i servizi.

4)      L’Oem deve implementare soluzioni digitali funzionali ad un obiettivo concreto (per l’end-user e per l’Oem).

5)      Non è necessario inserire nella macchina sensori reali quando una certa grandezza può essere rilevata da quelli virtuali, di cui parleremo.

6)      Per evitare di sprecare un’enorme mole di dati provenienti dalle macchine che l’Oem ha in giro per il mondo, e per consentire anche all’end-user di ottenere informazioni razionali, è meglio utilizzare tecnologie come la data integration e la data fusion, che saranno spiegate in seguito.

7)      Per poter accedere ai dati delle macchine delle aziende clienti, occorre creare relazioni di fiducia (e ottenere certificazioni internazionali sulla cyber security).

Stabilimento di Breton

Tutto questo è emerso a margine del convegno “Macchine Connesse: La Parola ai Costruttori”, organizzato dalla start-up hi-tech (che opera nei settori dell’Industria 4.0, dell’IoT e della digitalizzazione) 40Factory e tenutosi a fine settembre a Piacenza, all’Università Cattolica del Sacro Cuore. I pareri e le esperienze sono stati rielaborati da Industria Italiana, che ha anche approfondito con colloqui personalizzati e con elementi derivanti dalla sua attività giornalistica.

 

In seguito, le “regole” spiegate e sviluppate.

1)      La digitalizzazione “inconsapevole” è un rischio per l’azienda

Giambattista Gruosso

Per il docente al dipartimento di elettronica, informazione e bioingegneria del Politecnico di Milano Giambattista Gruosso «non necessariamente la trasformazione digitale è un percorso “rose e fiori”». Anzi. Le aziende end-user, oggetto di una tambureggiante campagna sui vantaggi dell’implementazione di nuove tecnologie, soprattutto in termini di redditività, si fanno «prendere la mano, pensano che collegando una macchina ad un software di analisi dei dati, la sera stessa avranno a disposizione informazioni che rivoluzioneranno i processi e il business model. Non funziona così. Potrebbero passare due anni. Occorrono tempo ed esperienza: con questi investimenti, il Roi non sempre è dietro l’angolo». Gli ha fatto eco il Ceo di 40Factory Camillo Ghelfi: «C’è tanta voglia di fare, ma non sempre le risorse vengono indirizzate nella giusta direzione».

È chiaro che deve essere l’Oem a interpretare le reali necessità dell’end-user.  Va sottolineato che le macchine utensili sono spesso assai customizzate, e possono “durare” anni. Conta molto, cioè, il genere di relazione che si instaura tra costruttore e azienda acquirente. Anche l’AI, non sempre è una panacea. «La tendenza – ha continuato Gruosso – è quella di applicarla in forme particolarmente evolute anche quando non serve. Ma riconoscere un guasto nella macchina utensile non richiede la stessa intelligenza della guida autonoma». Insomma, per Gruosso la digitalizzazione e l’implementazione dell’AI vanno fatte quando sono utili all’end-user. Ma quando lo sono? Quando dietro c’è una visione, una strategia dell’Oem che consenta all’acquirente di ritornare nell’investimento in tempi convenienti.

Il business model evolve da quello tradizionale ancorato al prodotto a quelli più avanzati, basati sulla vendita di servizi, performance e software

2)      Serve una strategia per digitalizzare le macchine utensili: il modello a quattro building block

Qual è questa strategia dell’Oem che consente una digitalizzazione utile par l’end-user? Secondo il managing partner della piattaforma bolognese di innovazione (a supporto di start-up e aziende) GellifyFrancesco Ferri, ci sono quattro building block, e cioè pillar imprescindibili. Anzitutto il business model, che evolve da quello tradizionale ancorato al prodotto a quelli più avanzati, basati sulla vendita di servizi, performance e software. In secondo luogo la technology roadmap, che consiste nella scelta delle tecnologie più adatte alla realizzazione del citato business plan. In terzo luogo, le competenze: servono sia quelle hard che soft. In quarto, il “back-end dell’innovazione”: solo quella scalabile in tutti i livelli e in tutti i comparti dell’azienda è utile all’end-user.

Ci sono quattro building block, e cioè pillar imprescindibili. Anzitutto il business model, che evolve da quello tradizionale ancorato al prodotto a quelli più avanzati, basati sulla vendita di servizi, performance e software. In secondo luogo la technology roadmap, che consiste nella scelta delle tecnologie più adatte alla realizzazione del citato business plan. In terzo luogo, le competenze: servono sia quelle hard che soft. In quarto, il “back-end dell’innovazione”: solo quella scalabile in tutti i livelli e in tutti i comparti dell’azienda è utile all’end-user

3)      Al centro della relazione con l’acquirente delle macchine utensili non c’è solo il prodotto

Come già accennato in tema di business plan da Ferri, per il docente di management e marketing all’Università di Padova Marco Paiola «oggi il prodotto è solo una componente della relazione tra il produttore e l’azienda utente di macchine utensili; anzi, quest’ultima può considerare come centrali altri elementi, come le prestazioni della strumentazione, o come i servizi associati al bene».

 

4)      Occorre una mentalità diversa: digitalizzazione funzionale ad un obiettivo

Linear C1737 Nordmeccanica

Secondo il vicepresidente di Nordmeccanica e di Confapi Industria Piacenza Vincenzo Cerciello, «è cambiato anche il paradigma di contrattazione sul mercato delle macchine utensili: le aziende clienti, che sono informate e che possono scegliere, stabiliscono il prezzo. I costruttori devono adeguarsi, ma per poterlo fare devono essere preparati, devono essere aperti al continuo cambiamento». Anche qui, non si tratta di digitalizzare in modo generale, ma anzi “funzionale” al cliente.

Ad esempio Nordmeccanica – azienda piacentina (con 300 dipendenti e più di 100 milioni di fatturato) del comparto delle macchine per l’imballaggio hi-tech a più strati e primo fornitore dell’industria alimentare tedesca – sta pensando a sviluppare la tecnologia del gemello digitale, che consiste in una replica digitale di entità fisiche, l’alter ego di dispositivi, infrastrutture, sistemi, prodotti e processi industriali. Grazie alla raccolta e all’elaborazione di dati, la copia virtuale che ne deriva è una rappresentazione tridimensionale dell’oggetto in tutte le sue caratteristiche funzionali, dall’elettronica alla meccanica, dalla fluidica alla geometria. Ma l’obiettivo di Nordmeccanica è “pratico”: «Il vantaggio, per l’end-user, è quello di disporre, grazie a questa tecnologie, di un impianto che realizzi prodotti diversi e con materie prime differenti; quello nostro è di poter dimostrare già in fase di progettazione che siamo in grado di costruirlo. Altrimenti, come faremmo a garantirlo?».

 

5)      Nella macchina, mettere solo i sensori che servono

Interno Zani Presse. Foto presa da zani.net

Non sempre inserire nuovi sensori per misurare direttamente una certa grandezza è utile; talvolta non lo è, ed inoltre qualsiasi cosa si aggiunga ad un sistema è oggetto di decadimento, malfunzionamento, rottura. Inoltre, ci sono valori che possono essere esaminati indirettamente, tramite il cosiddetto “sensore virtuale”: si tratta di un dispositivo dotato di software che è stato ideato per misurare una variabile, ma che può essere utilizzato anche per restituire una stima accurata di altre grandezze – soprattutto in riferimento a quelle difficilmente acquisibili.

Stefano Zaffaroni, direttore tecnico di Zani Presse – un’azienda di Turate (Como) che produce presse e torni anche di grandi dimensioni e che nel 2019 ha sfiorato il 19 milioni di fatturato – ha fatto un esempio: «Se si intende controllare la pressione di uno pneumatico, si può inserire un sensore; ma il valore può anche essere ricavato dalla ruota fonica dell’Abs, che contempla un dispositivo elettromagnetico capace di leggere il numero dei giri, la fase e la velocità di rotazione». Quanto alle machine utensili, secondo Zaffaroni le grandezze rilevate indirettamente possono essere utilizzate come se fossero state esaminate da sensori reali, e non virtuali. Inoltre, è sempre possibile un «controllo doppio» di un certo valore, che incrementa la precisione della misurazione.

 

6)      Data Integration e data fusion per sfuggire all’inflazione dei dati

Da tutte le macchine interconesse che l’Oem ha venduto in giro per il mondo e di continua ad occuparsi, ad esempio fornendo servizi di manutenzione predittiva, provengono immensi volumi di dati. Ma si tratta di numeri inutili, in eccesso, se l’Oem non è in grado di trasformarli in informazioni dotate di valore per sé e per l’azienda utente. Come fare per estrarre valore? Il tema è stato affrontato da Federico Milan, senior product manager di Breton, azienda di Castello di Godego (Treviso) che realizza macchine per la lavorazione del marmo, del granito e del quarzo; ma anche impianti per la ceramica e infine centri di lavoro per superleghe, acciaio, alluminio e composito, diretti a settori come l’aerospaziale e l’automotive.  Breton è attiva in tutto il mondo, conta quasi mille dipendenti, 7 filiali estere e 230 milioni di euro di fatturato (2020, ma nel 2019 aveva raggiunto la soglia dei 270).

Per Milan, due nuove tecnologie vengono in soccorso: la data integration e la data fusion. «La prima – ha affermato Milan – è un tool che ci permette di ottenere correlazioni tra due diversi dataset informativi, anche se apparentemente non hanno molto in comune. Ad esempio, si può scoprire che la qualità di un certo film di plastica dipende dalla temperatura.  La seconda, invece, rappresenta un passaggio successivo, quello che ci consente di ottenere, da tante, una singola informazione più coerente, accurata e utile rispetto a quelle fornite dalle diverse fonti». Secondo Milan, il concetto di fusione dei dati ha origini nella capacità evoluta di esseri umani di incorporare informazioni provenienti da più sensi: «Una torta la apprezziamo con la vista, con il gusto, con l’olfatto, con il tatto e anche con l’udito, se è croccante. Grazie a tutte queste “misure” diamo una valutazione complessiva». Grazie a questo genere di analisi dei dati, Breton sta realizzando Genesis, una stampante 3D di grandi dimensioni capace di autoregolarsi. Ma ciò sarà approfondito in un prossimo articolo di Industria Italiana.

La data integration è un tool che ci permette di ottenere correlazioni tra due diversi dataset informativi, anche se apparentemente non hanno molto in comune. Ad esempio, si può scoprire che la qualità di un certo film di plastica dipende dalla temperatura. La data fusion, invece, rappresenta un passaggio successivo, quello che ci consente di ottenere, da tante, una singola informazione più coerente, accurata e utile rispetto a quelle fornite dalle diverse fonti

7)      Per poter accedere ai dati delle macchine delle aziende clienti, occorre creare relazioni di fiducia (e ottenere certificazioni internazionali sulla cyber security)

Il tema del trust con i clienti è stato affrontato da Umberto Fabale, product manager di Ocme, azienda di Parma che (con 650 dipendenti ed un fatturato di circa 130 milioni) progetta e produce macchine da imballaggio. Il trust diventa strategico nel momento in cui il costruttore chiede all’end-user, per ottimizzare il prodotto o offrire i servizi, l’accesso da remoto ai dati della strumentazione. «Abbiamo partecipato ad un progetto europeo che aveva come obiettivo il miglioramento delle performance degli impianti manifatturieri – ha affermato Fabale -. Abbiamo preso in considerazione una macchina in particolare, la fardellatrice, e cioè confezionatrice ottimizzata per l’utilizzo di film di polietilene. Anzitutto abbiamo chiesto ai clienti quali particolari anomalie avessero riscontrato in queste macchine. Hanno risposto che la lama in certe condizioni si usura, e che non è facile per l’operatore comprendere se il problema riguarda il mezzo di taglio o il film».

Con il co-design le linee e i servizi, in base alla elaborazione dei dati, vengono progettati insieme, da costruttore e aziende utenti

Pertanto Ocme ha raccolto dati dal motore della lama, li ha trasferiti in un laboratorio dove sono stati esaminati dall’AI, «in modo da capire quando l’attrezzo di taglio si stesse usurando. I risultati sono stati molto soddisfacenti, relativamente a quella macchina acquisita da una certa azienda. Pertanto, si intendeva istruire gli algoritmi per diverse condizioni operative». Tuttavia, «quando si è trattato di connettere le macchine di altri clienti, ci siamo resi conto che questa operazione non è scontata: le multinazionali dei nostri settori di riferimento (alimentare, petrolchimico, bevande) sono piuttosto restie a diffondere i “propri”dati. Bisogna dimostrare di essere focalizzati sulla riservatezza delle informazioni. E poi c’è un problema di cyber security: per rafforzare il legame fiduciario, conviene ottenere le certificazioni internazionali in questo campo». Un modalità utile (anche) per superare questo problema è il co-design che il gruppo Fameccanica di San Giovanni Teatino (Chieti) – tre unità operative, oltre 670 dipendenti, un fatturato di oltre 200 milioni e una posizione di leadership mondiale nella produzione di macchine per l’igiene della donna e del bambino – ha adottato con i clienti strategici. Le linee e i servizi, in base alla elaborazione dei dati, vengono progettati insieme, da costruttore e aziende utenti.  Lo ha spiegato l’executive manager – strategic projects Oronzo Lucia.  Con questo accorgimento, Fameccanica non deve realizzare studi per immaginare quali siano le esigenze del cliente: sono note grazie ad un confronto costante tra le parti.      














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