Macchine e sistemi per l’assemblaggio: foto di gruppo a sfondo Industry 4.0

di Marco de’ Francesco ♦ Innovazione precoce, ma alimentata da fattori esterni, con il rischio che il gap di competenze la renda meno efficace. Come funziona la trasformazione digitale in uno dei settori tipici del Made in Italy, cosa c’è e cosa manca. Una ricerca by Sps assieme a Aidam, Anie Automazione e Assofluid. Ce la spiega il professor Giambattista Gruosso

Sotto la spinta di clienti più robusti, spesso colossi dell’automotive, le aziende del comparto dei costruttori di macchine e sistemi per l’assemblaggio hanno adottato tecnologie meccatroniche e digitali. Anche prima del Piano Calenda; ma più in funzione del prodotto che del processo, appunto per rispondere alle esigenze della committenza. Ma, nelle aziende di settore, resta il problema delle formazione: le imprese denunciano l’assenza completa di competenze di analytics, che andrebbero invece accoppiate a quelle in campo meccanico. E poi, per aziende piccole e medie, resta aperta la questione dei tempi di implementazione delle tecnologie 4.0. Troppo lunghi, lamentano. Così, chi ha investito, anche in nuovi impianti, non sempre è del tutto ritornato nella spesa, e questo incide sulla redditività.

Lo si legge nella ricerca “Analisi dei fabbisogni tecnologici del comparto macchine di assemblaggio. Automazione. Digitale. Fluid Power”, realizzata dal Politecnico di Milano in collaborazione con Sps Ipc Drives Italia, fiera dell’automazione e del digitale (legata al gigante tedesco Messe Frankfurt) e con le associazioni di categoria Aidam, Anie Automazione e Assofluid. Sono stati analizzati i bilanci (del decennio 2007 e 2016) di 34 aziende, di cui 6 classificabili come Media Impresa e 28 come Piccola Impresa. Emerge che la piccola impresa ha registrato variazioni minori del fatturato medio negli ultimi dieci anni di quanto abbia registrato la media impresa, che ha sofferto un po’ di più della crisi del 2008, sapendo crescere poi di un valore ben più alto di quello pre-crisi. Ma emerge anche che il patrimonio netto delle piccole è triplicato in 10 anni. Ne abbiamo parlato con Giambattista Gruosso,  docente di Elettrotecnica al Dipartimento di Elettronica Informazione e Bioingegneria del Politecnico di Milano .







 

Gruosso
Giambattista Gruosso,Prof. di Elettrotecnica, Dipartimento di Elettronica Informazione e Bioingegneria del Politecnico di Milano

Il comparto si descrive: buon livello di automazione, ma più in vista del prodotto che del processo

Alla domanda “qual è il grado di automazione elettrica della sua azienda?” (da zero a cinque), il 50% delle aziende intervistate ha risposto 5; il 31% ha risposto 4; il 12%, 3; e il 6,3% ha segnato zero. A quella “qual è il grado di automazione pneumatica nella sua azienda?” (sempre tra zero e 5) il 37,5% ha risposto 5, il 31,1%, 4, il 6,3%, 3; il 12,5%, 1 e la stessa percentuale, zero. All’apparenza, un comparto molto avanzato. «Va detto – afferma Gruosso – che queste tecnologie non sono state assunte tanto per i processi, quanto per i prodotti. Stiamo parlando di aziende che per mestiere, integrano componenti. Dunque, quando gli imprenditori, rispondendo alla nostra domanda, affermano di esserne in possesso, talvolta si riferiscono a tecnologie che hanno utilizzato nei prodotti, su richiesta dei committenti».

 

Un PLC Kuka

Fra le tecnologie dell’automazione elettrica più utilizzate, ci sono i Plc (controllori a logica programmabile, computer per industria specializzati nella gestione o controllo dei processi industriali), i sensori, i robot e i sistemi di visione. «Questi ultimi sono sempre più importanti, perché sta cambiando il modo di produrre. L’analisi della qualità viene realizzata tramite strumenti di questo genere, che sono in grado di valutare se un pezzo sia montato correttamente; e ciò consente un aumento della velocità di assemblaggio. E poi trovano spazio nella robotica, soprattutto in quella collaborativa: i robot devono essere in grado di riconoscere le persone, i pezzi, le macchine». Quanto alle tecnologie dell’automazione elettrica più utilizzate, le elettrovalvole, i cilindri pneumatici, le unità di trattamento aria e altre. Alla domanda “quanto sono adottate nella sua azienda le seguenti tecnologie?”, rispetto ai Big Data e Analytics il 65% ha risposto sì, il 35% no; rispetto al software per la progettazione il 50% sì, e il resto no; rispetto ai sistemi di visione, il 65% sì e il 35% no; rispetto alla robotica, infine, il 50% sì e l’altra metà no.

Formazione: il lato debole

Dalle aziende viene un netto sì alla formazione: la trasformazione digitale e l’automazione impongono l’assunzione di nuovi skill e conoscenze, assumono sempre più importanza le competenze trasversali; ma mancano quelle di analytics. La formazione è importante per competere; la crescente spinta tecnologica impone un forte aumento delle competenze; c’è la necessità di formare tecnici attraverso il confronto con i fornitori di tecnologie; e di formare sistemisti meccatronici che sappiano progettare un impianto sfruttando competenze trasversali. Secondo le aziende, è totalmente assente la competenza di analytics nel mondo industriale, ed è ancora troppo centralizzata nel mondo accademico. Per le aziende intervistate, è indispensabile il training continuo del personale di officina per elevare il loro livello di competenza e per consentirgli di gestire macchine sempre più complicate. «Per le imprese di comparto – commenta Gruosso – la riqualificazione del personale è quasi più importante dell’acquisto di nuove tecnologie. E bisogna puntare su competenze trasversali, che sappiano mettere insieme la meccanica e l’analytics».

Tempi lunghi per raccogliere i frutti

L’industria 4.0 per le imprese di comparto ha tanti vantaggi, ma anche un grande limite: i tempi di implementazione. Tra i vantaggi del 4.0, le aziende indicano la competitività, l’incremento di reattività di azienda e impianti, l’intelligenza integrata nella macchine, i nuovi business, la manutenzione predittiva, l’efficienza dei processi digitalizzati e altre cose. Tra i limiti invece, la mancanza di chiarezza sugli obiettivi realisticamente cercati, l’adeguamento alle forniture, la gestione della sicurezza e la privacy nei sistemi cloud, il cambiamento culturale non semplice, e soprattutto i tempi di implementazione. «Alcune aziende – afferma Gruosso – hanno iniziato il processo di trasformazione 4.0 già nel 2011 e solo adesso si inizia a vedere i primi risultati. Insomma, i tempi di ritorno dell’investimento non sono così brevi. E naturalmente le nuove tecnologie vanno conosciute; e qui le dimensioni dell’azienda contano: una cosa è fare formazione per otto persone, un’altra par 80».

Fra le esigenze delle aziende di comparto (e dei loro clienti) non ancora implementate, le imprese indicano l’interconnesione di differenti sistemi, la virtualizzazione impianti-cloud-realtà aumentata, la standardizzazione delle piattaforme software e delle modalità di gestione dei big data, ma anche gli analitics e la manutenzione predittiva. Dunque esistono vantaggi del 4.0 che non hanno ancora preso forma. Sono assenti nelle singole aziende e nella filiera. Infine, tra i trend del futuro per il settore, le aziende indicano le interfacce uomo-macchina sempre più semplici e potenti, l’Intelligenza artificiale (machine learning) nei sistemi di assemblaggio, la capacità di proporsi come fornitori globali, l’integrazione software e altro.

 

AI
L’intelligenza artificiale nei sistemi di assemblaggio tra i trend del futuro considerati dalle aziende
Fatturato: va meglio per le medie

Quanto a fatturato, è destinata ad ampliarsi la differenza tra il dato complessivo delle medie e quello delle piccole aziende. Anzitutto, una valutazione sul fatturato complessivo delle aziende. Il gruppo delle medie appare più in alto rispetto a quello delle piccole, visto che il primo è a quota 68 milioni e il secondo a 64, nel 2016. L’anno prima le piccole avevano superato le medie e anche quota 70 milioni. Guardando a prima della crisi, nel 2007 le medie erano a quota 50 milioni mentre le piccole non raggiungevano i quaranta. La differenza era più ampia. Si tornerà a quel genere di divario? «Il fatto – afferma Gruosso – è che con la crisi le aziende, medie e piccole, hanno sentito la necessità di trasformare i prodotti, o di realizzane di nuovi. Con uno stato patrimoniale più consistente, le medie, avendo le spalle più robuste, hanno potuto procedere ai cambiamenti. Le piccole, invece, nel periodo di congiuntura sfavorevole hanno spesso eroso le riserve.

Ora, il 4.0 è fatto per le Pmi, ma non per un contesto molecolare, frammentato. Si pensi solo alle infrastrutture necessarie: una cosa è cambiare il server, un’altra è condividere le informazioni con la filiera, a monte e a valle. Si tenga presente che le aziende, nella filiera, sono spesso complementari nelle attività di assemblaggio. Occorre dunque un approccio di filiera. Dunque, sebbene sia difficile dare una risposta, in questo settore specifico, la direzione sembra quella di una maggiore distanza, nei fatturati, tra medie e piccole». Quanto invece al fatturato medio, nel settore (nel 2016) per impresa media si intende un’azienda con revenue dai 10 ai 12 milioni; quelle piccole invece superano di poco i due. Le medie nel 2007 avevano un fatturato di poco superiore a 8 milioni; le piccole di poco inferiore a due. Dunque le medie, almeno nel senso che la ricerca dà a questo temine, se la passano meglio delle piccole.

 

Il lavoro quotidiano nella fabbrica Industry 4.0
L’andamento dell’ occupazione

In crescita i dipendenti totali delle piccole aziende, che dal 2007 hanno triplicato il proprio patrimonio netto complessivo. Guardando ai dipendenti totali le piccole, che sono intorno a quota 400, superano le medie, attorno a quota 275. Nel 2007 la situazione era diversa: piccole a quota 150, medie fra 200 e i 250 addetti. C’entra il diverso grado di automazione? «Non è chiaro – afferma Gruosso -. A mio avviso, però, nelle medie si è assistito ad una scelta dimensionale: si è preferito, per un qualche motivo, restare nel contesto delle aziende medie; anche perché quelle grandi hanno altre dinamiche e ben altre complessità. E poi il calo del personale è forse dovuto a ristrutturazioni operate dalle medie, in vista di una maggiore efficienza e di una migliore gestione delle risorse». Guardando ai dipendenti non totali, non come gruppo di aziende, risulta che nel settore per azienda media si intende un’impresa con poco più di 45 dipendenti, mentre per azienda piccola si intende una realtà dal personale davvero ridotto, inferiore alle 15 unità. Questi numeri sono simili a quelli del 2007.

Quanto invece a patrimonio netto, quello complessivo delle medie è superiore ai 30 ma inferiore a 35 milioni; quello complessivo delle piccole è sui 15 milioni. Nel 2007, quello delle medie era sui 20, quello delle piccole sui 5. Dunque il patrimonio netto di queste ultime aziende è triplicato. «Le piccole – continua Gruosso – hanno imparato che bisogna creare un patrimonio e reinvestirlo in innovazione, anche per non vivere ai limiti della propria capacità di spesa. Ora anche loro sono capaci di generare utile finalizzato all’implementazione delle risorse. La verità è che si stanno trasformando, anche se i risultati si vedranno tra cinque o sei anni».

Redditività in calo per le medie e in aumento per le piccole

Stupisce la redditività delle medie, di poco superiore al 5%; nel 2007 superava il 7%. Quanto alle piccole, sono quasi a quota 8%, mentre nel 2007 non raggiungevano questo livello. Che cosa sta succedendo? «Ciò accade – afferma Gruosso – appunto perché le medie hanno investito in innovazione, ed è difficile ritornare nella spesa in tempi brevi; soprattutto quando questa riguardava un solo prodotto. In questa fase, chi ha aperto di più il portafoglio ha un ritorno minore sul capitale. Comunque sia, dal 2008 anche le piccole hanno iniziato ad investire, seppure in misura più contenuta. Per esempio, hanno assunto nuovo personale, che costa di meno di quello entrato in azienda prima di recenti provvedimenti di legge». Gli utili da brevetto, invece, sembrano ancora “pertinenza” delle medie: per loro, nel 2016, hanno raggiunto una quota complessiva di oltre 150mila euro (ma il picco si era avuto nel 2013, a quota 250mila).

Le piccole, tutte insieme, non fanno 25mila euro, un po’ meno che nel 2007. «È per lo più un problema culturale – afferma Gruosso -. Le piccole depositano pochi brevetti ed alcune di loro non sanno nemmeno cosa siano. Lavorano spesso su licenza delle medie, che invece fanno valere i propri titoli giuridici e poi distribuiscono la produzione tra i terzisti». In generale, il 50% delle aziende intervistate ha dichiarato di non possedere brevetti. Il 38,8% ha affermato di possederne relativamente al prodotto; l’11,1% per il processo. Quanto alla R&D, anzitutto solo il 64,7% delle aziende intervistate ha un reparto di ricerca e sviluppo. La spesa in materia vale meno del 2% del fatturato per l’11,1% delle aziende; tra il 2 e il 5% per il 16,7%; tra il 5 e il 10% per il 22,2% e più del 10% per l’11,1% delle imprese. Il 38,9% delle aziende non si è espresso sul punto.

 

R&D: poco più della metà delle aziende intervistate ha un reparto dedicato

Dal 2011 è esploso il valore degli impianti per le medie

Questi nel 2016 valevano circa 3 milioni di euro per lo stock delle medie; circa 200mila per il gruppo delle piccole. Si pensi che il valore degli impianti delle medie superava di poco i 500mila euro nel 2007; invece, per le piccole il valore era più o meno equivalente. Nel 2016 il valore medio degli impianti era, per le medie, di circa 500mila euro (attorno ai 150mila nel 2007); mentre per le piccole era inferiore ai 50mila euro, come nel 2007. Per le medie, la svolta si ha nel 2011, con un valore che ha superato i 600mila euro. «Per una certa parte delle imprese – commenta Gruosso – – gli investimenti sono appunto andati in questa direzione; e bisogna ammettere che alcune aziende hanno iniziato la propria trasformazione prima del Piano Calenda. Hanno subito compreso l’importanza di certi cambiamenti, avendo rapporti stretti con il settore dell’automotive, e con il mondo dell’industria tedesca».

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 AIdAM

L’Associazione Italiana di Automazione Meccatronica, AIdAM, nasce nel 1999 per rappresentare al meglio, in Italia e soprattutto all’estero, il comparto industriale della Meccatronica. Con 70 associati, più di 2000 addetti impiegati e un fatturato di 600 milioni di euro, AIdAM è il punto di riferimento delle realtà aziendali che gravitano attorno a questa disciplina, dai costruttori di impianti di automazione “chiavi in mano” ai costruttori e distributori di sistemi e componenti, passando per la robotica e i sistemi di visione.

ANIE

ANIE Automazione, con oltre 100 aziende associate, rappresenta in Italia il punto di riferimento per le imprese fornitrici di sistemi e soluzioni tecnologiche all’avanguardia per l’automazione di fabbrica, di processo e delle reti. ANIE Automazione è una delle 14 Associazioni della Federazione ANIE e rappresenta nel sistema confindustriale i settori le cui tecnologie rivestono un ruolo cruciale nella cosiddetta quarta rivoluzione industriale. Le soluzioni e i prodotti hardware e software sviluppati dai Soci di ANIE Automazione rendono possibile questa trasformazione verso una produzione più flessibile, efficiente e sicura.

ASSOFLUID

L’Associazione Italiana dei Costruttori ed Operatori del Settore Oleoidraulico e Pneumatico – fondata nel 1968, conta attualmente 180 aziende associate che rappresentano circa il 70% del mercato italiano. Con una produzione di 3,4 miliardi di euro, di cui il 65% esportato, e un mercato nazionale di 2,2 miliardi di euro (anno 2017), la realtà italiana della Potenza Fluida è la quinta assoluta al mondo, dopo USA, Cina, Germania e Giappone.

 Sps Ipc Drives Italia

Sps Ipc Drives Italia, fiera dell’automazione e del digitale (legata al gigante tedesco Messe Frankfurt) che si terrà a Parma dal 22 al 24 maggio. Rende noto che «investe sulla formazione e la diffusione di una cultura 4.0 sul territorio promuovendo analisi, approfondimenti e studi che permettano di avere un’immagine approfondita del mercato in diversi settori e ambiti industriali. Un percorso che è iniziato nel 2014 e continua grazie alla volontà nostra e dei Partner SPS Italia, di investigare in modo qualitativo e quantitativo il mercato».














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