Ma robot e digital transformation ci manderanno tutti a casa?

lavoro robot o umani

di Luca Beltrametti ♦ Ecco che cosa devono sapere imprenditori e lavoratori. Invece di piangere, occorre puntare su formazione e competenze, vivendo industria 4.0 come una  opportunità

Questo nuovo articolo di Luca Beltrametti, direttore del Dipartimento di Economia dell’Università di Genova, che riprende alcuni contenuti più ampiamente trattati in Centro Studi Confindustria, Scenari Industriali 2017, Roma, è centrato sulle problematiche relative agli scenari del lavoro nella quarta rivoluzione industriale.

 







Luca_Beltrametti
Luca Beltrametti direttore del Dipartimento di Economia dell’Università di Genova

 

La possibile perdita di posti di lavoro e l’insorgere di una disoccupazione di origine tecnologica associata alle nuove tecnologie digitali costituiscono la principale preoccupazione per molti. Non si tratta peraltro di una paura nuova: la troviamo, per esempio, nelle azioni dei luddisti del XIX° secolo, nelle parole di Keynes negli anni ’30 del XX° secolo e nei discorsi di J.F. Kennedy dell’inizio degli anni ’60 (Mokyr et al, 2015, Keynes, 1930). Se guardiamo però alla storia del XIX° e XX° secolo, osserviamo che la grande crescita della produttività del lavoro associata all’introduzione delle nuove tecnologie ha consentito un innalzamento degli standard di vita senza precedenti, con conseguente aumento del tempo libero e miglioramento delle condizioni di salute: ciò ha generato nuovi bisogni che hanno a loro volta determinato la creazione di nuovi posti di lavoro.

Le rivoluzioni tecnologiche del passato hanno complessivamente creato più occupazione di quella che hanno distrutto cancellando mestieri divenuti obsoleti, anche se i costi sociali del cambiamento sono stati molto importanti. Le vicende degli ultimi due secoli sono dunque complessivamente rassicuranti. Inoltre, altri più recenti eventi ci inducono ad un certo ottimismo: la vicenda dell’automazione degli sportelli bancari è al tempo stesso associata alla digitalizzazione (introduzione dei “Bancomat”) ed è abbastanza lontana nel tempo (inizia nei primi anni ’70 del secolo scorso) per poter essere guardata con una prospettiva storica. Autor (2015) mostra come negli USA dal 1970 il numero di impiegati bancari sia raddoppiato (da 250.000 a 500.000) per effetto di due tendenze opposte: il numero medio di impiegati per agenzia si è ridotto di un terzo ma il numero delle agenzie bancarie è aumentato del 40% dal momento che aprire e gestire una nuova agenzia costa meno. L’esito è sotto gli occhi di tutti: gli impiegati svolgono meno lavori di routine, maneggiano meno denaro contante e si concentrano su attività di consulenza, relazioni con i clienti, illustrazione di nuovi prodotti. In sintesi, gli impiegati si concentrano su mansioni più impegnative dal punto di vista cognitivo.

 

Baldwin
L’introduzione del Bancomat non ha portato a una diminuzione degli impieghi nel settore bancario USA

 

Quel che genera incertezza, ansia e paura, tuttavia, è la presa di coscienza che le nuove tecnologie e la globalizzazione congiuntamente fanno sì che «qualunque sia il lavoro o le competenze che ciascuno ha, nessuno può sentirsi al sicuro circa il fatto che il proprio posto di lavoro non sarà il prossimo a essere investito dal cambiamento» (Baldwin, 2016). Pur non potendo, quindi, sapere se nei prossimi decenni, a livello planetario, saranno più i posti di lavoro distrutti o quelli creati, con certezza possiamo però dire che i posti di lavoro non saranno necessariamente creati e distrutti negli stessi luoghi e negli stessi settori produttivi e che i nuovi posti di lavoro richiederanno competenze nuove; esiste inoltre il rischio che ci sia uno sfasamento temporale, anche molto rilevante, tra distruzione e creazione di posti di lavoro.

Che cosa ci fa invece temere il peggio

I risultati di un recente studio di Acemoglu e Restrepo (2017) giustificano una certa preoccupazione: considerando l’introduzione di robot industriali tra il 1990 e il 2007 negli USA essi stimano che l’introduzione di un robot per ogni mille lavoratori riduca il tasso di occupazione locale di un ammontare compreso tra 0,2 e 0,3 punti percentuali e riduca il salario medio di un ammontare compreso tra 0,25 e 0,5 punti percentuali. Tre elementi d’altra parte possono giustificare una certa preoccupazione: la velocità del cambiamento, che riduce la capacità di adattamento delle persone alle nuove tecnologie, la globalizzazione, che genera una maggiore pressione competitiva, e l’invecchiamento della popolazione che allunga la vita lavorativa e comporta la necessità di processi di apprendimento in fasi della vita nelle quali le capacità di apprendere si riducono.

 

Nel futuro si lavorerà sempre più fianco a fianco con i robot (courtesy Kuka Robotics)
Sono i lavori prevedibili quelli maggiormente sostituibili

L’automazione trova maggiore possibilità di utilizzo in ambienti “prevedibili„ nei quali le operazioni sono programmabili (che non significa rigidamente ripetitive); al contrario, in ambienti di lavoro imprevedibili l’automazione si svilupperà più lentamente. Ad esempio, questo accade per le operazioni in situ, specifiche e non ripetitive: si pensi per esempio al giardinaggio, alle manutenzioni, ai servizi per la salute e così via. L’impatto principale delle nuove tecnologie sul lavoro non consiste direttamente nella distruzione di ben definita occupazione come sostenuto dal citatissimo lavoro di Frey e Osborne (2017) quanto piuttosto nella possibilità di automazione di specifiche mansioni che compongono una posizione lavorativa.

Al riguardo, Chui et al. (2016) notano che, ovviamente, la semplice fattibilità tecnica della sostituzione macchina-uomo è solo una condizione necessaria e non sufficiente per l’effettiva introduzione delle macchine e stimano che, nel complesso dell’economia americana, solo un quinto del tempo passato sul luogo di lavoro riguardi lo svolgimento di attività fisiche o la conduzione di macchine in ambienti prevedibili; tale quota è maggiore (circa un terzo) nel settore manifatturiero. La percentuale di mansioni per le quali oggi esiste una possibilità tecnologica di sostituire un lavoratore con una macchina è peraltro molto variabile tra le diverse occupazioni: per esempio, per il lavoro di saldatura arriva al 90% mentre per i servizi al cliente è inferiore al 30%.

 

Donald_Trump_August_19,_2015_(cropped)
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump

I “vinti” ora contano politicamente…

Un numero importante di persone perderanno dunque il posto di lavoro per l’effetto congiunto della digitalizzazione dell’economia e della globalizzazione: per la gran parte di loro si tratterà di una condizione transitoria che anzi potrà preludere a migliori sbocchi lavorativi. I costi sociali, tuttavia, potranno essere molto elevati: ci potranno essere fenomeni migratori, disoccupazione e diffuse necessità di riqualificazione professionale e si potrà generare una massa di persone escluse dai processi produttivi che potranno esprimere frustrazione, rabbia e disagio sociali anche attraverso il voto democratico, contro un sistema economico dal quale si sentono escluse.

Gruppi sociali che hanno subito danni dalla globalizzazione e dalla digitalizzazione dei processi produttivi e/o che temono di poterne avere hanno già formato maggioranze vincitrici nel caso della Brexit, delle elezioni presidenziali USA e minoranze robuste e inedite nel nuovo Bundestag tedesco. C’è dunque una questione urgente di gestione della fase di transizione verso un equilibrio socialmente migliore e più accettabile (con salari più alti, lavori meno usuranti e pericolosi, maggior tempo libero), che però potrebbe essere politicamente bloccata da coloro che risultano perdenti nelle prime fasi del processo di introduzione delle nuove tecnologie. La rapidità del mutamento tecnologico determina infatti non solo grandi variazioni radicali, ma anche mutamenti nella quota del valore aggiunto che va ai diversi fattori produttivi: per esempio, dal 1988 al 2015 la quota del fattore lavoro sul valore aggiunto nel settore automobilistico USA è passata dal 70% a meno del 45% (Sachs, 2017).

Le condizioni della finanza pubblica, il già troppo elevato livello della tassazione del lavoro e della contribuzione pensionistica unita alla bassa fiducia dell’opinione pubblica nella capacità dei governi di attuare politiche redistributive efficienti ed eque suggeriscono che la strada di politiche di welfare che “ammortizzino” la fase di transizione sia difficilmente percorribile. Sembra peraltro difficile aspirare ad una società futura nella quale i detentori del capitale e le persone con qualificazioni più elevate e non sostituibili abbiano quote di reddito estremamente elevate mentre una massa crescente di persone viva in condizioni di marginalità e viva di politiche assistenziali.

 

Students
Il tema della formazione e dell’istruzione è centrale
Il lavoro non è solo fonte di reddito…

Il lavoro non è infatti solo fonte di reddito ma è anche strumento di crescita intellettuale e di sviluppo di una dimensione sociale: è indispensabile che i rapidi cambiamenti tecnologici in atto si associno ad azioni inclusive e ad un allargamento della platea delle persone che contribuiscono con il proprio lavoro e le proprie idee allo sviluppo della collettività. Il tema della formazione e dell’istruzione è quindi davvero centrale. Sachs (2017) giunge alla conclusione che occorrano almeno quattro tipi di politiche: 1) nuovo training; 2) redistribuzione del reddito per mitigare l’aumento della quota che va al capitale a discapito del lavoro; 3) aumento del tempo libero; 4) potenziamento delle complementarietà tra uomo e macchina.

Assistiamo purtroppo in Italia a una preoccupante concomitanza di fenomeni: 1) un numero di laureati inferiore alla media europea e di gran lunga più basso di quello dei paesi avanzati; 2) una emigrazione di laureati che non ha precedenti; 3) un differenziale salariale tra laureati e non laureati che si restringe, 4) un’alta percentuale di laureati che sono sovra-istruiti rispetto al lavoro svolto. Anche le imprese che innovano fanno poco ricorso a laureati: solo nel 20% di tali imprese i laureati rappresentano più del 10% della manodopera totale, contro il 60% in Spagna e il 50% in Germania (CSC, 2016).

Ancora, gli occupati ICT sono solo il 2,5% del totale contro il 3,5% della media europea e solo il 33% degli specialisti in ICT delle imprese sono laureati contro il 60% della media europea (CSC 2016). Tale concomitanza di fatti appare sorprendente in una fase storica nella quale il Paese è chiamato a produrre il massimo sforzo verso l’innovazione. Il potenziamento del capitale fisico delle imprese, pur stimolato dagli incentivi del piano Industria 4.0 da solo non è sufficiente: occorre un innalzamento del livello della cultura imprenditoriale, un potenziamento del capitale umano e una radicale trasformazione del modello organizzativo delle imprese.

Servono soprattutto manager in grado di gestire il cambiamento…

Vi sarà dunque necessità non solo di persone con competenze specifiche su ciascuna tecnologia ma anche (soprattutto) di persone capaci di gestire il cambiamento e di apprendere nuove competenze. Si tratta di persone alle quali è richiesto di capire fino in fondo che i processi produttivi, i modelli organizzativi, i modelli di business oggi adottati sono il risultato di processi di ottimizzazione del passato che tenevano conto di obiettivi e di vincoli tecnologici ormai superati. Le nuove tecnologie abilitano il perseguimento di obiettivi diversi e più numerosi e rimuovono molti vincoli del passato. Ci sarà dunque bisogno non solo di tecnologi ma anche di persone capaci di immaginare in modo creativo qualcosa che vada oltre il solito “abbiamo sempre fatto così” nei diversi campi della vita delle imprese.

 

Polimeri prodotti con la manifattura additiva

Per esempio, la manifattura additiva (stampa 3D) determina un (quasi) totale superamento dei vincoli di geometria posti dalle tecnologie tradizionali e (quasi) annulla i costi di realizzazione di varianti: la competitività di tale tecnologia non deriva quasi mai dal minor costo di produzione del singolo pezzo ma piuttosto dal fatto che la geometria dei pezzi viene ottimizzata, che si riducono i costi di manifattura (spesso si possono realizzare in un unico pezzo oggetti che prima si ottenevano saldando 6 o 7 componenti) e che si possono ridurre i costi del magazzino ricambi. La vera sfida oggi per le imprese è quindi individuare quei componenti dei propri prodotti che possono essere realizzati con manifattura additiva dopo una opportuna re-ingegnerizzazione e valutazione degli aspetti economici complessivi e dopo opportuni e necessari cambiamenti organizzativi. Come nota Sachs, di fronte a macchine che fanno cose diverse e sviluppano capacità che prima erano esclusivamente appannaggio di persone, occorre potenziare quelle competenze, non solo tecnologiche ma anche “umanistiche”, dei lavoratori che siano complementari con tale nuova generazione di macchine.

Alcune competenze tecniche diverranno meno necessarie ma competenze organizzative e relazionali diverranno più importanti

Riguardo alle prime, si consideri per esempio il caso delle riparazioni/manutenzioni: la possibilità di raccogliere dati da remoto e di dialogare in tempo reale con un operatore sul luogo può consentire una “formazione just in time” che permetta a un tecnico di attuare alcuni interventi per i quali non ha una preparazione specifica: la presenza di un gemello digitale di ciascun macchinario fa sì che la conoscenza possa essere incorporata in un palmare e che l’addetto alla manutenzione possa essere guidato da esso nei successivi passi del proprio lavoro. Così come è accaduto in passato vi saranno dunque competenze che diverranno meno preziose rispetto ad oggi ed altre che invece saranno sempre più richieste: la “novità” di questa “rivoluzione” è che tra le competenze obsolete non necessariamente ci saranno quelle associate a lavori manuali di basso livello ma anche e soprattutto competenze che oggi giudichiamo di medio/alto livello.

 

Il superammortamento può spingere al rinnovo degli impianti
L’ utilizzo efficace dei dati può portare a una rinnovata vitalità di vecchi impianti
Come prolungare la vita dei vecchi impianti

È importante, che gli imprenditori, soprattutto piccoli e medi, comprendano che esiste un percorso che li può portare nell’arco di qualche anno verso un nuovo paradigma tecnologico partendo dagli impianti esistenti e sviluppando progressivamente nuove competenze e nuovi modelli di business. Un approccio graduale è percorribile e può consistere nel cominciare a estrarre informazione da dati dei quali l’impresa è già in possesso (e che non sta usando) oppure nell’applicare sensori anche sui macchinari esistenti allo scopo di connetterli tra loro e con quelli nuovi.

Quest’ultima operazione (che può avere un costo contenuto) prolunga la vita utile degli impianti, permette di aumentare la produttività dell’impresa (tipicamente riducendo i consumi di energia e gli scarti di produzione) e consente all’impresa di sviluppare una nuova cultura manageriale e organizzativa. Molto bene ha fatto dunque il governo a includere gli investimenti finalizzati alla digitalizzazione di vecchi macchinari (revamping) tra quelli ammissibili per l’iper-ammortamento. Tali investimenti permettono, infatti, all’impresa di iniziare un percorso che sviluppa le competenze dei propri dipendenti e all’imprenditore di mettere a punto aggiustamenti di traiettoria man mano che le implicazioni della digitalizzazione della propria impresa diventano più evidenti e chiare.

 

Carlo Calenda, Ministro dello Sviluppo Economico

Quali politiche?

L’evoluzione convergente di una pluralità di tecnologie abilitanti richiede l’elaborazione di una strategia complessiva che garantisca la tenuta economica e sociale del Paese a fronte di un cambiamento rapido e radicale. Il Piano nazionale Industria 4.0 e gli iper-ammortamenti che l’hanno concretizzato costituiscono una risposta centrata: tali incentivi fiscali forniscono infatti alle imprese un aiuto importante e automatico (non assegnato con bandi che implicano un’alea e costi amministrativi significativi) verso l’ammodernamento dello stock di capitale. Occorre prefigurare un percorso verso Industria 4.0 per la manifattura italiana che non lasci indietro la grande massa delle imprese e non crei inaccettabili sacche di emarginazione nei lavoratori: servono politiche inclusive che riducano la drammaticità dei costi sociali associati alla transizione e politiche di istruzione e di formazione (nella scuola superiore, nelle università e nelle imprese) che mettano le persone in condizione di affrontare con successo il cambiamento.














Articolo precedenteMsc Meraviglia, prima nave da crociera totalmente interconnessa e con sensori ovunque
Articolo successivoUna politica industriale europea per l’intelligenza artificiale: dove potrebbe portarci? E che cosa devono fare le imprese?






1 commento

  1. Articolo da apprezzare per visione. Sarebbero da rimarcare maggiormente il periodo di transizione, già in corso, che comporterà e comporterà molte criticità sociali.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui