Ma a che cosa serve davvero il Decreto Dignità ?

di Laura Magna ♦ Il provvedimento voluto da Di Maio non produrrà nuove assunzioni a tempo determinato e non incentiverà neanche quelle sine die. Meglio tornare al Jobs Act di Renzi. Lo dice il giuslavorista De Palma (e pure Confindustria) 

«Il Decreto Dignità: una vera e propria dichiarazione di guerra al contratto a tempo determinato di cui le aziende italiane, così come i disoccupati italiani, non sentivano certamente il bisogno». Alessandro De Palma, giuslavorista dello Studio Orsingher Ortu, non usa mezzi termini: «con il Decreto Dignità caleranno, verosimilmente, le assunzioni a termine, ma senza alcun corrispondente incremento di quelle a tempo indeterminato. Anche il contenzioso, a mio modo di vedere, subirà un’impennata, con buona pace per la tanto auspicata efficienza e celerità della macchina della giustizia». Data l’importanza dell’argomento per il nostro pubblico di aziende industriali e tecnologiche, abbiamo deciso di riportare la sua analisi, che è totalmente in linea con quella del mondo confindustriale. Anche se non corrisponde al nostro parere. A Industria Italiana De Palma ha spiegato le sue ragioni.

 







Alessandro De Palma, giuslavorista dello Studio Orsingher Ortu

D. Dunque, avvocato, partiamo dal dato tecnico: cosa cambia con Il Decreto Dignità ?

R.«Il provvedimento, tra l’altro e in particolare, riduce a soli dodici mesi la durata dei contratti a-causali, prevedendo la necessità di specifiche ragioni per poter superare l’anno ed arrivare alla soglia massima di due. Prima del Decreto, lo ricordiamo, era invece possibile arrivare fino a tre anni di contratto a termine. Peraltro il nuovo impianto normativo prevede causali ancor più severe e rigide di quelle previste nel vecchio D.Lgs 368/2001, che optava per una formulazione volutamente aperta, richiedendo “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Tutto questo – ma spero ovviamente di sbagliarmi – avrà solo un effetto disincentivante per nuove assunzioni a tempo determinato, senza però incentivare quelle sine die. Nello stesso tempo, si avrà un riacutizzarsi dei contenziosi legati a contratti a termine stipulati con causali non veritiere, o non provabili, o non coerenti con il testo di legge».

D.Perché?

R.«Il perché lo troviamo nel combinato disposto di due interventi dello stesso Decreto Dignità: da un lato, l’incremento delle indennità connesse ad un licenziamento ingiustificato (ora comprese tra un minimo di 6 ed un massimo di 36 mensilità, mentre il Jobs Act si era attestato su un range tra 4 e 24 mesi), dall’altro l’aumento del numero di giorni (da 120 a 180) per impugnare un contratto a tempo determinato che magari, lo ripeto, è stato sottoscritto con causali “scricchiolanti”. Una cosa è certa: con il Jobs Act le assunzioni, quanto meno quelle a termine, sono aumentate e le aule dei tribunali si sono alleggerite delle cause connesse alla richiesta di stabilizzazione dei rapporti a termine. Si tratta di dati oggettivi, non di opinioni».

 

 

Il Ministro del lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio (foto di Mattia Luigi Nappi)

 

D. Dunque, diamo uno sguardo a questi dati: cosa ci dicono?

R.Il Jobs Act ha innescato la stipula di 31,6 milioni di nuovi contratti, contro 29,2 milioni di “cessazioni”. In due casi su tre si tratta di rapporti a termine, mentre il tempo indeterminato rappresenta circa un quinto (21% delle entrate e 20,5% delle uscite) e tutto il resto si divide tra apprendistato, collaborazioni e lavoro somministrato (vedi Sole 24 ore). La nota trimestrale sulle tendenze dell’occupazione di Istat, relativa al primo trimestre del 2018   segnala che l’aumento congiunturale delle posizioni lavorative dipendenti riguarda sia le posizioni a tempo indeterminato (+27 mila), sia quelle a tempo determinato (+24 mila). Se le prime tornano a crescere dopo due trimestri di calo e i precedenti dieci di aumento, le posizioni a termine crescono ininterrottamente dal secondo trimestre 2016 seppure a ritmi meno accentuati. L’incidenza delle attivazioni a tempo determinato sulle attivazioni totali è pari all’80,1%, in aumento rispetto al 77,6% registrato nel primo trimestre del 2017. In termini di saldi tra attivazioni e cessazioni, su base annua e a ritmi meno intensi, l’aumento del lavoro dipendente a tempo determinato continua per l’ottavo trimestre consecutivo (+350 mila).

D.Il Decreto Dignità è stato emanato per aumentare i tempi indeterminati?

R.«Forse. Ma dubito, ripeto, che l’obiettivo venga centrato. Certo è che , in ogni caso, le società che assisto non hanno fatto salti di gioia …».

D. Questa nuova legge è un ritorno al passato, dunque?

R. «Purtroppo si. Anzi, anche peggio del passato. Oggi i datori di lavoro, per assumere a termine, o per rinnovare o prorogare iniziali rapporti di breve durata, dovranno fare i conti con causali tassative e molto restrittive diversamente da quanto avveniva con la vecchia normativa. Come, ad esempio, una esigenza temporanea e oggettiva, estranea all’ordinaria attività, oppure un incremento temporaneo, significativo e non programmabile. Non escludo che, nella pratica, a voler pensar bene, i datori di lavoro più cauti piuttosto che correre il rischio di utilizzare erroneamente le suddette causali instaurando rapporti a rischio, eviteranno proprio di assumere. A voler pensar male, aumenteranno invece i rapporti formalmente autonomi, quelli irregolari e così via».

 

Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Suo il provvedimento la Buona Scuola
L’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che ha fortemente voluto il Jobs Act

 

D.Il suo pensiero è chiarissimo e d’altronde della diminuzione dei posti di lavoro si è discusso con riferimento polemico alla relazione dei tecnici di Inps. A questo punto qual è la sua ricetta per invertire la rotta? Tornare al Jobs Act?

R.«Perché no. Per una volta che, dopo decenni, il sistema imprenditoriale italiano aveva ottenuto dal Legislatore spazi di intervento e flessibilità mai conosciuti prima, nel giro di una sola estate si è rimesso tutto in discussione. Un vero peccato. Non ho la ricetta, ovviamente, per invertire davvero la rotta. Mi accontenterei di non assistere a una inopportuna marcia indietro. Quanto poi alla riduzione del peso del costo del lavoro è certamente una delle esigenze che percepisco come primaria dall’imprenditoria italiana».

D.Non crede che ci siano altre cose da cambiare: per esempio il livello medio delle retribuzioni che è il più basso in Europa e che certamente dipende dalla produttività ma non contribuisce a rendere la flessibilità una soluzione del tutto valida?

R.«Bisognerebbe creare un circolo virtuoso per la creazione di nuovo lavoro prima ancora che di nuovi posti di lavoro: sgravi e flessibilità per aiutare e incentivare nuovi investimenti e per ricercare nuova competitività. In questo scenario, ci sarebbe certamente spazio anche per l’aumento della capacità di spesa dei dipendenti – magari in coerenza con l’aumento della produttività aziendale – che avrebbe certamente un impatto positivo sulla ripresa generale».














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