Senza politiche attive e industriali l’Italia manda al patibolo i lavoratori

di Laura Magna ♦︎ Altro che un milione, i senza lavoro, per alcuni, potrebbero essere 200mila al termine del blocco dei licenziamenti. Ma potrebbero essere molti meno con politiche industriali serie come quelle Usa. Ecco i possibili rimedi. Ma attenzione: il tempo è finito. Parola di Sapelli, Seghezzi, Ceresa e Confindustria

Si prospettano fino a un milione di nuovi disoccupati, con la fine del blocco dei licenziamenti. La deroga stabilita con il Dl Sostegni è solo un palliativo che sposta in avanti il problema (al primo luglio per le aziende che si servono di cassa integrazione ordinaria e al primo novembre per tutte le altre). E non dovrebbe distrarre dal rischio di macelleria sociale che ne conseguirà in assenza di azioni di politica industriale e di una riforma seria e strutturata del mercato del lavoro.

Cosa è necessario fare per evitare la catastrofe sociale con le conseguenti ricadute sul pil e il tessuto economico e industriale? Dall’inchiesta che Industria Italiana ha condotto sentendo alcuni fra i migliori esperti emerge che prima o poi, ovviamente, bisognerà lasciare le aziende libere di licenziare. Ma nel frattempo è assolutamente necessario riformare il welfare, introducendo strumenti di reddito universale per la disoccupazione e il ricollocamento, che siano ben distinti dal reddito di ultima istanza, che serve per chi è in condizioni di estrema povertà. Potenziando le politiche attive e soprattutto la formazione, che deve essere continua e puntare su upskilling e reskilling (obiettivo al quale possono contribuire anche le agenzie private per il lavoro) e creando nuovo lavoro in un mercato meno ingessato in ingresso e in uscita, più “europeo”. E soprattutto, bisogna creare nuovo lavoro attraverso lo sviluppo economico reso possibile da una politica industriale finalmente adeguata, che Industria Italiana e il suo direttore Filippo Astone (autore anche del saggio Industriamo l’Italia, pubblicato da Magenes nel 2016 e dedicato proprio a questo) invocano inascoltati da anni. Senza mai dimenticare il sostegno ai nuovi poveri.







Ne abbiamo parlato con Giulio Sapelli, professore di Storia economica alla Statale di Milano, con Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt, con Confindustria e con Marco Ceresa, ad di Randstad Italia.

Sapelli: bisogna creare lavoro, nel contesto di una politica industriale europea. E dare sostegno ai nuovi poveri

Giulio Sapelli, economista e accademico

Secondo l’Istat, sono due milioni le famiglie finite in povertà assoluta a causa della crisi da Covid, un milione di persone in più rispetto all’anno precedente. Le famiglie totalmente indigenti sono 335mila in più (+7,7%) rispetto al 2019. Per uscire dalla crisi di povertà in cui stiamo precipitando c’è una sola via: creare nuovo lavoro. Lo dice a Industria Italiana, il professor Sapelli. «Gli Usa hanno avuto 8 milioni di disoccupati ma già nel corso della pandemia ne hanno recuperato la metà, grazie agli interventi della Fed e alla vitalità di un’economia non governata dall’alto in maniera sovietica come l’Unione europea».

I passaggi da seguire sono pochi e semplici, secondo Sapelli. Il primo è avere «il coraggio di iniziare a chiedere una Costituzione europea, senza la quale non si può fare una politica industriale. D’altro canto, l’Ue ha mostrato il suo fallimento in termini di politiche vaccinali e così com’è non potrà mai elaborare una corretta politica industriale. Così com’è l’Europa è infatti un potere oscuro, privo di accountability, di transparency, di disclosure». Inoltre, le economie europee sono dominate dall’egemonia mercantilista tedesca, «che ha fatto in modo, con il suo costante surplus commerciale, di annacquare i mercati interni di tutto il Continente. Invece l’economia Usa è fondata sull’ampliamento dei mercati interni con surplus permanenti delle importazioni sulle esportazioni». La pandemia ha solo accentuato questi caratteri: «E ne ha esaltato gli elementi di disgregazione sociale e di frantumazione delle catene del valore delle imprese mondiali, ponendo in discussione la stessa possibilità di continuare il meccanismo di accumulazione. Solo la generazione di valore capitalistico, infatti, può compensare la necessità dell’aumento del debito pubblico europeo, che è indispensabile per sostenere socialmente, prima che economicamente, la ripresa del dopo pandemia».

Ma nell’attesa che l’Europa prenda atto di questo suo deficit strutturale, cosa si può fare nel mercato del lavoro interno italiano? «In primo luogo bisogna fare una politica di sostegno del reddito come ha affermato anche Draghi, modulandola bene. Per esempio ci si potrebbe ispirare alla proposta francese di condizionare un assegno di disoccupazione a processi formativi, che consentano l’upskilling o il reskilling della risorsa. È una proposta che è stata fatta anche in Italia ma mai concretizzata», dice Sapelli. E contestualmente bisogna pensare a una politica di lotta contro la povertà «che è aumentata a dismisura, mentre aumenta anche il senso di sconfitta e rassegnazione individuale».

Infine, bisogna creare lavoro. «Attraverso un’azione dirompente e mai condotta prima. E il lavoro non si crea certamente bloccando i licenziamenti: in questo modo si sposta in avanti l’agonia. Purtroppo anche il nuovo governo con la mossa del concorso per 2800 dipendenti nella Pa sta facendo una manovra elettorale, nulla che serva davvero all’occupazione». Si dovrebbe piuttosto puntare sulle startup, «che sono piene di persone giovani e competenti ma che magari non sanno fare un business plan, forse si dovrebbero mobilitare i periti industriali e i manager in pensione per dare idee e struttura a queste nuove realtà che hanno potenziale innovativo e possibilità di essere agenti creativi di occupazione».

Il premier Mario Draghi

Purtroppo veniamo da un governo, secondo il professore, che, in quanto a interventi sull’industria, è il peggiore di sempre. «Forse secondo solo al governo dell’Ulivo negli anni ’90 che ha deindustrializzato l’Italia. Scelte che dimostrano la mancanza di un’idea di cosa sia una politica industriale. È meglio che non si faccia nulla, peggio se si continua come abbiamo fatto finora a compiere azioni che non mettono al centro la pmi». E se il governo Conte è, a detta di Sapelli, il secondo peggiore per l’industria nella storia d’Italia, «con Draghi cambia l’autorevolezza, ma non è cambiata la strategia, e dopo le cose dette su Erdogan mi viene il dubbio che siamo davvero di fronte a uno statista. Draghi non è un tecnico ma un politico che ha lavorato nell’alta burocrazia dello Stato. Temo che neanche lui abbia la visione necessaria».

E sul lavoro neppure i sindacati hanno più peso. «Non esistono più, si sono limitati a sostenere i governi colpevolmente senza dare speranza ai lavoratori. L’unica speranza è che Giorgetti e Garavaglia, con la visione più vicina alla pancia del paese, seguano ciò che chiedono e vogliono artigiani e pmi».

 

Confindustria: via libera ai licenziamenti

I dati previsionali elaborati dal Centro Studi di Confindustria per l’Italia

Le richieste delle imprese sono chiare. Le ha formulate Confindustria che ha più volte ribadito che bisogna partire dal via libera ai licenziamenti, che consentirebbe alle aziende di ristrutturarsi e riprendere quota. E che auspica una complessa riforma delle politiche attive e passive e del mercato del lavoro, che passi da una visione di tutela del posto di lavoro a una difesa dell’occupabilità. Ma Confindustria ridimensiona la perdita di lavoro effettiva. Secondo il Rapporto del Centro Studi dell’associazione degli industriali sulle prospettive economiche dell’Italia nel 2021 e 2022, «la variazione del numero di persone occupate nel 2021 si attesterà al -1,7%, pari a -389mila unità». Il calo sarà praticamente del tutto recuperato nel 2022 (con il numero di occupati che aumenterà dell’1,4%, + 313mila unità). Ma muta il contesto «con un rafforzamento della produttività oraria, coerente sia con una crescente digitalizzazione e automazione dei processi di lavoro, sia con una ricomposizione settoriale verso attività a più alta creazione di valore aggiunto, compatibile con una duratura riduzione del peso nell’economia italiana di alcuni servizi ad alta intensità di lavoro. La dinamica dell’occupazione risentirà in parte di queste ricomposizioni, con conseguente necessità di ricollocamento per una parte della forza lavoro».

Le riforme essenziali sono due: la prima si concretizza nel rafforzamento delle politiche attive a discapito di quelle passive. Alle politiche attive sono destinati in Italia solo 750 milioni di euro, contro i 5,5 miliardi della Francia e gli 11 della Germania (secondo i dati, riferiti al 2015 della stessa Confindustria). La riforma deve passare per una chiara distinzione, innanzitutto, tra cassa integrazione ordinaria e sussidio e prestazioni che lo Stato intende garantire al disoccupato o alle persone in cerca di occupazione (Naspi, assegno di ricollocazione e servizi per l’impiego con le attività di skilling e reskilling). Il primo strumento “universale” ma caratterizzato da diversificazione di prestazioni, contribuzioni e funzionamento in base alle necessità dei diversi settori economici; il secondo invece configurato in modo identico per tutti. In questo quadro, politiche per il lavoro e politiche di contrasto alla povertà devono tornare ad essere separate e, per questo fine, l’istituto del reddito di cittadinanza deve diventare esclusivamente uno strumento per perseguire il secondo obiettivo.
La seconda riforma riguarda l’elasticità del mondo del lavoro, che dovrebbe smettere di essere ingessato e riuscire a ricollocare in tempi ragionevoli le persone che ne sono uscite, possibilmente in maniera non traumatica ma attraverso accordi con le impresi a cui possa seguire la corresponsione di assegni di disoccupazione. «Troppa rigidità in ingresso (decreto dignità) e in uscita (blocco dei licenziamenti) ha prodotto danni importanti, soprattutto, a giovani e donne», scrive Confindustria. «Se non si vorrà assistere al dilagare di forme di lavoro pseudo autonome o di para subordinazione occorrerà, non tanto contrastare queste ultime, quanto piuttosto rendere più attrattive quelle forme di lavoro che in tutta Europa siamo soliti definire lavoro standard».

 

…  e riforme strutturali del lavoro in tre ste

Andrea Orlando, Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali

L’associazione degli industriali immagina un percorso diviso in più fasi che preveda prima la gestione di un periodo transitorio e poi la riforma a regime solo da gennaio 2024. La proposta di riforma “a regime” si concentra principalmente su due temi. Il primo: la tutela delle persone involontariamente disoccupate, attraverso le assicurazioni sociali (Naspi, Nuova assicurazione sociale per l’impiego) e le politiche attive. Il secondo: il sostegno al reddito delle persone occupate, attraverso gli ammortizzatori sociali (la cassa integrazione guadagni e i fondi di solidarietà bilaterali, come il Fis, gestiti dall’Inps e/o dalla bilateralità).

Nel prossimo biennio (2022-2023), però, è necessario stabilire procedure e strumenti per distinguere le crisi industriali (transizioni) dalle “mere crisi occupazionali”, concedendo condizioni di maggiore tutela sia per i percorsi di ricollocazione delle crisi “meramente occupazionali” (Naspi e assegno di ricollocazione) sia per i percorsi delle crisi industriali che andrebbero meglio accompagnate. Confindustria ripropone, infine, due ulteriori riforme, ovvero il patto di ricollocazione che consenta anche all’inizio di una crisi e non esclusivamente al termine di individuare due distinti percorsi formativi: uno destinato alle persone che al termine della crisi potranno trovare nuovamente occupazione in azienda e un secondo destinato al personale eccedentario che potrà essere accompagnato verso la ricollocazione attraverso percorsi mirati di placement e formazione.
Infine, si deve pensare una nuova missione per i fondi interprofessionali il cui ruolo va ampliato anche a una Gestione Separata ad hoc, alla quale far confluire contributi volontari versati dalle singole imprese aderenti e finalizzati a consentire l’attuazione di piani operativi di ricollocazione, ovvero, per il personale di imprese in crisi, l’accesso al pensionamento. L’attribuzione di questa nuova funzione ai fondi interprofessionali consentirebbe di avere maggiori risorse ed economie di scala.

Francesco Seghezzi (Fondazione Adapt): bisogna agire a bocce ferme, e comunque i disoccupati saranno 200 mila e non un milione

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Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt

Su un punto tutti gli interlocutori ascoltati da Industria Italiana sono concordi: il blocco dei licenziamenti è un palliativo senza reale utilità. E secondo Francesco Seghezzi (uno dei massimi esperti di queste tematiche in Italia) «alla sua rimozione non conseguirà un’ecatombe, perché c’è stata già una riduzione non banale degli organici nell’ultimo anno, soprattutto di lavoratori atipici e collaboratori autonomi. Poi dobbiamo distinguere tra una serie di imprese che sono già ripartire soprattutto nella manifattura e soprattutto tra chi lavora con la Cina e con gli Usa. E sono le imprese che occupano il maggior numero di persone». Non solo. Va considerato che ci sono due tipologie di licenziamenti: da un lato quelli strutturali che ci sono tutti gli anni e che nel 2000 sono stati di gran lunga inferiori al normale, ovvero, secondo le comunicazioni obbligatorie del ministero del lavoro 500mila persone contro 900mila del 2019. «E dall’altro il pacchetto di licenziamenti legato alle aziende che chiuderanno causa Covid, che però sono le più piccole e quindi cubano poco. Non è ottimismo, ma constatazione dei numeri – precisa Seghezzi – La perdita di posti di lavoro è stata già enorme. Tanto, che l’Ufficio parlamentare di bilancio stima che mettendo insieme il dato sui minori licenziamenti strutturali con le minori assunzioni, il bilancio totale dei licenziamenti complessivi sarà di 200mila unità». Anche con questa consapevolezza, è evidente che il sistema degli ammortizzatori richieda una riforma radicale, «d’altro canto penso che il momento storico di emergenza non sia il momento giusto per fare riforme strutturali, perché si tende a considerare l’emergenza come normalità. E sappiamo che in una crisi come questa solo in parte è il mercato a decidere. Riprenderei il discorso in mano nel 2022. Nel frattempo va fatta una differenziazione tra imprese che possono o non possono licenziare: chi ancora ha conseguenze economiche da dpcm che non consentono di lavorare a pieno regime, deve avere la possibilità di non licenziare, perché il rischio è di perdere lavoratori che altrimenti conserverebbero il proprio posto. Quindi bisognerebbe focalizzare gli ammortizzatori su questi settori più colpiti». Per le imprese che operano in condizione normali, invece, va tenuta una coda di ammortizzatori per affrontare il momento di transizione, «la cui entità e durata però è difficile da calcolare. Aziende e sindacati devono accordarsi e portare le proprie posizioni ragionevoli e il governo deve accoglierle. Dopo di che si riparte: tutto questo a patto che a settembre la pandemia sia sotto controllo», chiosa l’economista.

La visione di Ceresa (Randstad): il ruolo che possono avere le agenzie private per il lavoro

Marco Ceresa Amministratore Delegato Randstad Italia

Insomma, il quadro è chiaro: misure di emergenza in questa fase e fino a che la pandemia sarà sotto controllo, e poi politiche attive. La pensa così anche Marco Ceresa, Amministratore Delegato di Randstad Italia, che dice: «in un mercato del lavoro che vede alcuni settori fermi per effetto delle limitazioni dell’emergenza sanitaria e altri in crescita che continuano a ricercare personale, di fronte alla scadenza del blocco dei licenziamenti è urgente progettare misure che accompagnino i lavoratori verso quei comparti e quelle imprese che oggi offrono opportunità di lavoro».

Per questa ragione l’Italia oggi ha soprattutto bisogno di potenziare le politiche attive. E deve farlo subito: «chi perderà il posto nei prossimi mesi deve essere messo in condizione di ritrovarlo nel più breve tempo possibile, accompagnato verso le occasioni di nuovo impiego con formazione, riqualificazione, orientamento. Le opportunità di lavoro ci sono, è necessario trovarle e riuscire a soddisfare le richieste del mercato», dice Cerasa che ritiene determinante per questo obiettivo il coinvolgimento degli operatori privati di settori, qual è Randstad. «Le Agenzie per il lavoro sono dotate di professionisti specializzati e di una stretta relazione con il mercato è possono sostenere il reskilling, il reinserimento e i percorsi di transizione di carriera delle persone. Sarebbe utile prevedere ulteriori incentivi alle singole imprese che vorranno attivare misure di riqualificazione della forza lavoro o che progetteranno percorsi di outplacement per i loro lavoratori. Per fare tutto questo, abbiamo la grande opportunità del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: dedichiamo una quota significativa delle risorse che verranno dall’Europa alle politiche attive, è un investimento per la crescita di cui il Paese ha bisogno».














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